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La ‘ndrangheta devota

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 74 del 15/10/2011

Nel 2010 era stata l’ostinata resistenza del vescovo, mons. Luigi Renzo, a impedire che si consumasse, ancora una volta, l’appropriazione mafiosa dei riti religiosi della Pasqua nel piccolo comune di Sant'Onofrio, alle porte di Vibo Valentia. L’intervento del prelato aveva bloccato in chiesa il fercolo della Madonna e del Cristo risorto, imponendo una più rigida selezione dei “portantini” e richiamando l'attenzione delle forze dell'ordine. Senza quel veto, ancora una volta la processione della “Affruntata” sarebbe divenuta occasione e strumento per rinnovare il culto di una tradizione che condiziona il battesimo dei nuovi “picciotti” e l’ingresso ufficiale nella ‘ndrina di appartenenza, al trasporto a spalla delle statue della sacra rappresentazione: un modo antico per usare la sacralità del rito religioso, per ottenere il consolidamento di nuovi legami criminali e la riaffermazione di gerarchie segrete; per ostentare, davanti alla comunità, all’intero paese, la propria potenza individuale e quella della “famiglia” di appartenenza, e ribadire un’indiscutibile signoria sul territorio. L’irritazione della locale ‘ndrina non avrebbe tardato a manifestarsi pochi giorni dopo, materializzandosi in una eloquente sventagliata di proiettili sparati sulla porta del priore della confraternita del santissimo Rosario, che di quella festa è il tradizionale, instancabile artefice.

L'episodio dell'Affruntata è solo uno degli ultimi, forse uno dei più significativi, che resta a testimonianza di un difficile e accidentato percorso intrapreso dalla Chiesa della Calabria, volto a denunciare l’uso strumentale di feste religiose e simboli cristiani da parte di quelle associazioni mafiose che hanno modellato, nel tempo, i loro momenti cerimoniali sulla tradizione del rito cattolico. Si tratta di pratiche talmente radicate nella memoria e nel patrimonio devozionale popolare da avere indotto già nell’ottobre 2002 i vescovi calabri a intervenire, in un passo della “Lettera alle nostre Chiese di Calabria nel fascino dei nostri santi meridionali”. «Le feste popolari – scrivevano i vescovi – restano un momento troppo vuoto, di sfarzo paesano. Spesso di compensazione. C’è in loro un forte bisogno di identità collettiva, che rispettiamo e comprendiamo. Ma non ne condividiamo certe espressioni che sanno di paganesimo e di spreco, senza solidarietà e prive di intelligenza!».

Sono passati nove anni dal documento dei vescovi, e vale la pena capire cosa sia cambiato e quanto abbia inciso, in concreto, quell'accorata denuncia di incompatibilità tra i simboli della fede e i segni distintivi della “onorata società”. Una prima risposta arriva da Gioiosa Ionica, dove a fine agosto si concludono i tradizionali festeggiamenti in onore di San Rocco, una delle celebrazioni più partecipate della Locride. A chiusura dei festeggiamenti, il vescovo di Locri mons. Giuseppe Fiorini Morosini ha invitato ancora una volta, pubblicamente, tutti i fedeli a «conciliare le tradizioni folkloristiche con un percorso di processione, che abbia anche quel carattere sacro che gli è dato dall’ascolto della Parola di Dio e dalla preghiera». La risposta è giunta, diretta, all’indirizzo di don Giuseppe Campisano, che proprio a Gioiosa è parroco della chiesa di San Rocco e animatore, insieme a Libera, di tante iniziative contro la criminalità organizzata, l’usura e il racket: al sacerdote hanno scaricato due o tre colpi di pallettoni contro l’autovettura posteggiata a lato della canonica [v. Adista n. 65/11].

Sembra scritto appena ieri, quel passo della lettera dei vescovi calabresi diffusa nel 2002, in cui si denunciava apertamente una situazione non più sostenibile in tutto il territorio della regione: «La mafia sta prepotentemente rialzando la testa. E di fronte a questo pericolo, si sta purtroppo abbassando l’attenzione. Il male viene ingoiato. Non si reagisce. Non c’è società civile, fa fatica a scuotersi. È chiaro per tutti il giogo che ci opprime. Le analisi sono lucide ma non efficaci. Si è consapevoli, ma non protagonisti!». Quei fori di proiettile sull’autovettura di don Campisano sembrano raccontare di una società ancora immobile, di uno Stato ancora incapace, di una mafia ancora forte. E forse raccontano anche di una Chiesa che, ancora oggi, si mostra spesso pericolosamente tollerante verso i valori di una religione capovolta, che non gradisce il contraddittorio, che offusca la memoria, che pretenderebbe di riscrivere il Vangelo.

È senz’altro vero che, negli anni, è maturata una forte e coraggiosa posizione della Chiesa calabrese in tema di resistenza alla logica e alla violenza mafiosa. Ma è anche vero che in quella regione – così come in Sicilia, in Campania e in altri territori infestati dalle mafie tradizionali – persistono segnali di resistenza al cambiamento, ogniqualvolta le ragioni della legalità vengono in contatto con un sistema democratico alterato nelle sue regole amministrative, politiche ed economiche, dalla penetrazione di interessi e pratiche mafiose. Va detto molto chiaramente: il Dio dei mafiosi non è solo quello della bassa manovalanza criminale, ma è anche quello della borghesia mafiosa e dei colletti bianchi; un Dio vissuto come “conveniente”, perché lontano dalla carità, dall’amore, dalla solidarietà; un Dio con cui si dialoga attraverso mediatori condiscendenti o complici, capaci di piegare le ragioni della fede, a quelle di una religiosità strumentale e violenta, in grado di favorire interessi economici e di potere.

Spiegava in un’intervista don Pino De Masi, vicario generale della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi e referente regionale di Libera: «La politica nazionale ha delegato alla ‘ndrangheta la gestione economica del territorio per avere in cambio un appoggio elettorale in bianco che è servito poi a determinare la politica nazionale. E tutto questo si è consolidato nel tempo attraverso un’accettazione tacita, mai messa in discussione di questa convivenza. Ogni giorno pezzi di economia del Paese, passano di mano e vengono nelle mani di organizzazioni mafiose. Tutto questo poi si traduce in potere politico».

Ecco il nodo centrale: occorre che la Chiesa – e non solo quella di Calabria – faccia sentire la sua voce e il suo peso nella condanna e nell’isolamento dei fenomeni di corruzione o di connivenza delle istituzioni con le organizzazioni mafiose; prenda posizione intransigente e forte nei riguardi di quell’intreccio articolato di poteri che comprende esponenti del mondo della politica, dell’economia, delle professioni, di quei pezzi di classe dirigente che, proprio perché tali, non hanno bisogno di sparare o far sparare, dal momento che possono facilmente eliminare i propri avversari con le leggi, con i provvedimenti disciplinari e amministrativi, con le censure, con gli strumenti del monopolio di produzione del sapere. Non basta fermare le feste sacrileghe; non basta chiudere il santuario della Madonna di Polsi alle frequentazioni dei capi-bastone. È necessario, ma non basta. Serve soprattutto condannare la pretesa che taluno vanta, di poter coltivare la fede per un Dio condiscendente verso il potere, un Dio con cui si può confidenzialmente negoziare la salvezza della propria anima, senza dover passare attraverso un percorso di redenzione socialmente e collettivamente condiviso. Un Dio privato, che non appartiene alla natura stessa della Chiesa.

La Chiesa, in Calabria più che altrove, è ormai giunta ad un bivio: o si rafforza e si consolida la coraggiosa esperienza pastorale fin qui maturata, verso la quale guardano ancora con silenziosa diffidenza vasti settori della società civile, o il potere devastante delle mafie tornerà ad affermarsi in modo irreversibile nei paesi, nelle campagne, nelle città, in mezzo ai giovani.

Proprio in terra di Calabria, laddove forte è il degrado sociale, laddove fortemente compromessa è la presenza dello Stato ed il suo riconoscimento, è possibile ridare fiducia ai cittadini e speranza alla democrazia, chiamandosi fuori e a testa alta dalle logiche di baratto e di potere. Offrendo, in questo modo, un esemplare modello di comportamento a tutto il Paese. Cito ancora don Pino De Masi: «I comportamenti mafiosi sono antievangelici ed è assolutamente inutile oltre che offensivo, sfoderare Bibbia e santini, invocazioni varie o pretendere di organizzare le feste patronali o portare le statue dei Santi in processione, se poi si sceglie il Male nella quotidianità della vita. Per questo motivo, dopo la fase della denuncia, la Chiesa è passata alla fase dell’impegno nel quotidiano. Non si tratta solo di lottare contro i boss e le cosche, o di condannare solo la mafia dei cosiddetti colletti bianchi. Si tratta di combattere quella moderna e silenziosa mafia di tutti i giorni. È quella che io chiamo “antimafia del giorno prima”. E allora non c’è tanto bisogno di preti di frontiera, ma di preti e laici con la voglia e la passione di mettersi in gioco, di sporcarsi le mani».

Certo, non è compito facile: perché il nodo – come sempre, quando si parla di mafie – è politico, e per le Curie non sempre è facile spezzare consolidati sistemi di mediazione di interessi, o intervenire sulle logiche di scambio con i partiti e con le loro classi dirigenti. Tuttavia, questa è la condizione per proseguire nel cammino di tutti quegli uomini – don Peppe Diana e padre Pino Puglisi in testa a tutti – che questo compito hanno portato avanti fino al sacrificio della loro stessa vita.

* Docente di Sociologia giuridica e della devianza all’Università di Palermo, studiosa dei rapporti fra cattolicesimo e mafie. Su questo tema, ha pubblicato “La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra” (Laterza, 2010)

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