IL PROGETTO CULTURALE DI RUINI NELLA SITUAZIONE ITALIANA OGGI
Tratto da: Adista Documenti n° 81 del 05/11/2011
Fino a qualche settimana fa non mi ero mai occupato del Progetto Culturale, né il Progetto Culturale si era mai occupato di me. Avremmo vissuto tranquillamente, credo, ignorandoci reciprocamente. Poi l’invito dei promotori di questo convegno mi ha progressivamente convinto che sarebbe stato opportuno interessarsi ed approfondire questo argomento.
Io sono uno storico e quindi di solito mi interesso di persone morte. In questo caso, invece, si tratta di studiare persone vive, almeno anagraficamente. Ci proverò, dividendo la mia relazione in quattro parti.
I “buoni propositi”
L’idea di un Progetto Culturale della Chiesa italiana appare, per la prima volta, nella prolusione del card. Camillo Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana, al Consiglio permanente della Cei del maggio 1994 a Montecassino. Le date, specie in questo caso, sono importanti. Poche settimane prima, il 27 marzo, si erano tenute infatti le elezioni che avevano portato per la prima volta Berlusconi alla vittoria. E alla guida del suo primo governo. I vescovi discussero poi di Progetto Culturale anche successivamente, nella loro Assemblea Generale del maggio 1995. E ancora, nel Convegno ecclesiale del novembre dello stesso anno, a Palermo, dove l’idea del Progetto Culturale fu definitivamente lanciata. Da allora il Progetto Culturale è stato sviluppato in diverse sedi e da varie componenti ecclesiali.
La cronologia che abbiamo ricordato segnala come il Progetto Culturale coincida con la fine dell’unità dei cattolici in politica considerata fino ad allora come un valore assoluto, quasi un dogma. Un «valore irrinunciabile» che era stato proclamato da Ruini ancora alla vigilia delle politiche del 1992; e poi, ancora, delle amministrative dell’anno successivo. Poi però le cose andarono diversamente. E già nel 1994 tutto ciò che era stato proclamato come “irrinunciabile” fu rimesso totalmente in discussione...
Per definire cos’è il Progetto Culturale utilizzerò due fonti in particolare: la prima ne segna la nascita vera e propria, e viene dalla Presidenza della Cei, cioè dal card. Ruini. Si tratta di un documento datato 28 gennaio 1997, dal titolo: Il Progetto Culturale orientato in senso cristiano. Poi c’è un intervento del segretario della Cei, Giuseppe Betori, tenuto il 7 maggio 2003 in occasione della Festa dell’Istituto Biblico. A distanza di qualche anno questo secondo documento ci aiuterà a verificare lo stato di attuazione del progetto.
Nel primo documento si parte dalla considerazione dell’esistenza di una «diffusa dissociazione tra pratica religiosa e vissuto quotidiano», che viene definita come «una tragica contro testimonianza» della fede cristiana: non è affermazione nuova nel magistero cristiano, in particolare, si ritrova nella parte finale della Pacem in Terris. Il documento prosegue: «Si tratta di una distanza che tende ad approfondirsi tra il credo professato e i modi collettivi di pensare, e di agire, tra il messaggio a cui si afferma di aderire e lo stile e la mentalità dominanti, non solo nelle società ma anche all’interno delle stesse comunità cristiane».
Il documento passa poi a dare una definizione di “cultura”. «Il termine cultura viene inteso qui – scrive Ruini – nel senso più ampio e antropologico, che abbraccia non soltanto le idee, ma il vissuto quotidiano delle persone e della collettività, le strutture che lo reggono e i valori che gli danno forma». Si arriva quindi alle finalità del Progetto: «Rendere più motivata e incisiva la pastorale ordinaria, stimolandola ad assumere consapevolmente il rapporto tra fede e cultura per poter proporre la fede mediante esperienze e linguaggi significativi nell’odierno contesto culturale. Dare sostegno ai fedeli laici nel compito loro proprio di esprimere la fecondità della fede nella vita familiare e sociale, nella ricerca filosofica e nell’arte». Sottolineo l’espressione «dare sostegno». Non si dice dare “direttive” o “indicazioni”, ma “sostegno”.
Gli ambiti contenutistici da privilegiare, spiega quindi Ruini, sono le «grandi aree tematiche per se stesse interdisciplinari che toccano i contenuti fondamentali della fede nel loro impatto con i nodi più vivi del pensiero e dell’ethos contemporanei, quello dei temi emergenti di volta in volta nel dibattito culturale e nella vita sociale, a cui appare necessario offrire risposte evangelicamente illuminate, che orientino il pensare e l’agire comune dei cristiani e li rendano capaci di entrare in dialogo con tutti».
Poi, il documento continua parlando del coinvolgimento del popolo di Dio nel Progetto Culturale: «In quanto processo di discernimento comunitario e di comunicazione, il progetto coinvolge in definitiva tutto il popolo di Dio. L’incontro tra fede e cultura è connaturato all’esperienza stessa della fede».
Tutti elementi che alla luce di quasi 15 anni di progetto culturale appaiono in buona misura falliti.
L’attuazione del Progetto Culturale
Localmente il Progetto Culturale non è mai partito. Chi ne visiti il sito vedrà che ciascuna diocesi ha il proprio delegato e che in ogni diocesi sono presenti decine di associazioni che dovrebbero dare corpo e gambe al Progetto. Se poi però si verifica l’attività svolta da queste realtà ecclesiali si potrà facilmente notare che queste risalgono ora al 1999, ora al 2001, talvolta al 2003. Difficilmente oltre. (…). Del resto, chi frequenta realtà periferiche o ha avuto come me per studenti centinaia di parroci meridionali sa bene che le realtà parrocchiali sono rimaste totalmente estranee al Progetto.
Questa considerazione ci porta alla seconda “fonte”, fondamentale per comprendere genesi e finalità del Progetto Culturale: la relazione fatta da mons. Betori nel 2003: «Obiettivo del progetto culturale – scriveva l’allora segretario della Cei – è costruire, con le categorie di oggi, una visione del mondo cristiana, consapevole delle proprie radici e della propria pertinenza sulle questioni vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo con la cultura contemporanea». «Stiamo dentro una svolta storica o, comunque, in una fase di transizione piena di incertezze, i cui sviluppi avranno conseguenze significative riguardo alla valorizzazione o all’emarginazione dell’eredità cristiana che ha alimentato e costruito la nostra civiltà. Solo entrando nel vivo del rapporto tra Vangelo e cultura è possibile salvare oggi questa eredità e questa fecondità. (…)».
Si dice poi (ci viene chiarito solo nel 2003, prima non era mai stato esplicitamente detto) che il Progetto Culturale nasce con «il venire meno dell’unità politica dei cattolici che rischiava di essere interpretato come la giustificazione di una sorta di “diaspora culturale”, da non confondersi con il necessario pluralismo in cui si incarna il Vangelo. Accettare la logica della “diaspora culturale” significherebbe il venir meno nel cattolicesimo italiano della capacità e del compito di essere “forza incidente” nel tessuto sociale del Paese. Questo, ovviamente, nella consapevolezza che l’incidenza non è frutto di una strategia di occupazione di spazi di potere – culturale, sociale, politico, ecc. – ma esito di una coerente visione e attuazione del ruolo storico del cristiano oggi in questo ambiente».
Mi permetto una chiosa alle parole di Betori: si può essere “forza incidente” in tanti modi. Con l’autovalore della testimonianza personale, ma anche con relazioni privilegiate con il mondo politico, economico, finanziario...
Il documento prosegue poi affermando che «bisogna organizzare una capacità di tenuta di fronte ai forti processi di scristianizzazione della mentalità e del costume». L’elemento della scristianizzazione viene presentato come un elemento nuovo. Ma i documenti della Chiesa ne parlano da secoli. Eppure, la “scristianizzazione” ha questo elemento ricorrente: chi la evoca, pensa sempre di essere il primo a farlo, nonostante di questo fenomeno della scristianizzazione si parli già nei documenti magisteriali del XVIII secolo. Una circostanza che ci riporta al mito di una società pienamente cristiana, una sorta di età dell’oro del cristianesimo, irrimediabilmente perduta.
(...) Ecco, a questi punti toccati da mons. Betori se ne aggiunge un altro, quando l’ex segretario della Cei parla del fatto che il progetto ecclesiale e pastorale della Chiesa «per lungo tempo ha potuto contare su una connaturalità tra etica cristiana e indirizzi, anche giuridicamente avvalorati, della vita civile».
Questa parola, “connaturalità”, mi ha molto sorpreso. Dunque secondo Betori esisteva una connaturalità tra etica cristiana e vita civile... Da storico devo dire che questa affermazione non ha nessuna sussistenza. Esiste semmai, quella sì, una “coincidenza” che si è realizzata tra poteri. Si pensi alla Restaurazione, o – per restare al territorio in cui vivo – al Concordato di Terracina del 1818, quando il papa e il re Borbone si incontrarono dopo le parentesi rivoluzionarie e stipularono un Concordato che attribuiva ai vescovi un potere straordinario: quello, in sostanza, di commissari prefettizi. Diventavano, di fatto, la longa manus dei Borboni nella periferia del Regno. E i Borboni si garantivano l’ultima parola sulla loro nomina, poiché i vescovi dovevano essere fedeli alla corona, al potere assoluto del sovrano.
Infine, nel suo discorso, Betori auspica che attraverso il Progetto Culturale si possa «instaurare un dialogo fecondo con i rappresentanti della cultura “laica”, per tanti aspetti così potente ma anche così in crisi nel nostro Paese». Questo per me è un punto molto importante. Betori parla di “rappresentanti della cultura laica”. E chi stabilisce chi devono essere tali rappresentanti? E poi: a rappresentare che cosa? O chi? Infine chiedo e mi chiedo: ma veramente la cultura laica si sente rappresentata da Giuliano Ferrara? Io sinceramente spero di no, proprio per rispetto della cosiddetta “cultura laica”. Eppure, gli interlocutori che la Chiesa di volta in volta ha scelto per il suo Progetto Culturale sono in realtà sulla stessa linea di Giuliano Ferrara.
Un ultimo elemento di riflessione. Betori si chiede «come mantenere viva la dimensione storica del cattolicesimo italiano, senza però farlo scadere a religione civile, a etica condivisibile a prescindere da un riferimento credente?». Va sottolineato il fatto che su questo pericolo dello scadimento della fede in religione civile il Progetto Culturale torna più volte, salvo poi riconoscere come interlocutori della cultura laica proprio gli assertori della religione civile, Marcello Pera su tutti.
A rileggere i titoli dei forum c’è da chiedersi quale sia la percezione della realtà, quale mondo abitano i relatori e gli organizzatori degli eventi che hanno realizzato nelle parrocchie e nelle diocesi il Progetto Culturale, perché avverto come urgenti per le nostre comunità ecclesiali e civili temi come “L'Europa, sfida e problema per i cattolici”; oppure “Mutamenti culturali, fede cristiana, crescita della libertà”; “Il futuro dell'uomo. Un progetto di vita buona: corpo,affetti, lavoro”; “La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà”. Mi chiedo se questi siano corsi universitari piuttosto che un Progetto Culturale diffuso nel tessuto ecclesiale e civile, che parta dal vissuto della gente, che riesca ad articolare un discorso che possa essere compreso e che possa coinvolgere la maggior parte dei nostri concittadini.
Nella sua attuazione concreta, per gli interlocutori scelti e le tematiche che studia, il Progetto Culturale mi è sembrato essere piuttosto orientato alla nascita o al recupero di un regime di cristianità, invece che autentico servizio, come viene dichiarato, rivolto agli esseri umani che vivono nella comunità italiana. (...).
Quale memoria per quale Progetto Culturale?
Vorrei prendere in considerazione l’ultimo volume pubblicato dal Progetto Culturale, quello che raccoglie i materiali del Forum svoltosi dal 2 al 4 dicembre 2010, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
Quando l’ho consultato, mi aspettavo di trovare materiale abbondante sul ruolo dei cattolici nei 150 anni di storia unitaria. Pensavo cioè di trovare notizie sulla partecipazione alla Prima guerra mondiale, analisi sul convinto appoggio dei cattolici al fascismo, sul sostegno alle guerre coloniali, sul contributo offerto dalla Chiesa alla distruzione del patrimonio ambientale, a partire dagli anni ’50.
Siccome il Forum si svolgeva a Roma, pensavo poi che si sarebbe parlato dello scandalo dell’Aeroporto di Fiumicino, della giunta Rebecchini e dei terreni che improvvisamente furono convertiti in aree edificabili (anche quelli della Chiesa e degli ordini e congregazioni religiose); magari anche un riferimento all’occupazione del potere da parte della Dc. Oppure qualche parola sulla loggia massonica P2, sullo spreco di denaro pubblico dopo il terremoto del 1980, che ha contribuito in maniera determinante alla formazione di quel debito pubblico che oggi ci grava sulle spalle (e che non si è certo formato perché abbiamo fornito troppa assistenza sanitaria ai nostri malati).
È incredibile, ma in questo volume non c’è nulla di tutto ciò.
Guardare indietro, va bene. A condizione che ci sia la voglia di guardare.
Nella premessa Ruini scrive che «cogliere il contributo cristiano rispetto al destino del nostro Paese richiede una lettura della storia scevra da pregiudizi e serenamente documentata». Dopo aver letto questo passaggio potevo quindi ben sperare di trovare qualcuno dei temi prima accennati, affrontati in modo “documentato” e “scevro da pregiudizi”.
Ma se si scorre l’indice del libro, che non consiglio a nessuno e che ho letto per una sorta di mortificazione personale, non si trova nulla di tutto ciò. Eppure gli storici che hanno contribuito alla realizzazione del testo sono di primissimo piano e “titolati”.
Ecco invece il modo documentato e rigoroso con cui nel libro vengono affrontati i nodi problematici della storia unitaria.
Andrea Riccardi scrive ad esempio nel suo saggio: «Mai come oggi dalla Seconda guerra mondiale l’Italia è stata così impegnata militarmente, con più di 9mila militari impegnati in 21 Paesi, tra cui Libano, Afghanistan, l’area dei Balcani. C’è un bisogno di Italia nel mondo!».
Scrive invece Giovagnoli (Università del Sacro Cuore) nel suo: «L’Italia non è mai cambiata tanto come tra il ’45 e il ’75, passando da una società agricola ad una società industriale, con vaste migrazioni da sud a nord e da est ad ovest, ed intensa urbanizzazione, anche se forse in un trentennio l’impegnativa presenza pubblica verso cui i cattolici si sono proiettati li ha distratti dall’elaborazione di un progetto culturale adeguato alla trasformazione in atto». Trent’anni della distruzione del nostro Paese vengono contenute in queste parole. Cos’è accaduto? C’è stata l’“urbanizzazione”. Noi sappiamo cosa è stata questa urbanizzazione: basta leggere qualche pagina degli anni ’50 del libro di Cederna I vandali in casa, pensare alla distruzione delle nostre coste, al “sacco di Napoli”. Tutto questo processo storico viene invece ridotto da Giovagnoli al passaggio da una società agricola ad una società industriale!
L’onnipresente rettore della cattolica, Lorenzo Ornaghi (alle pagine 67 e 68), ci dà invece una precisa indicazione: «Bisogna tornare ad essere guelfi»: «Tornare con decisione ad essere guelfi comporta affermare l’idea e la realtà di italianità come dato storico, insieme culturale e popolare, di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi e cattolici. E soprattutto richiede la consapevolezza della benignità dell’Italia cattolica. Essere guelfi oggi implica la consapevolezza che la nostra posizione di vantaggio culturale va di giorno in giorno consolidata».
A queste parole vorrei contrapporre le parole pronunciate il 17 marzo 1994 ai presbiteri della diocesi di Pordenone da Giuseppe Dossetti: «La cristianità è finita. E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità. Il sogno dello storico Eusebio da Cesarea è finito, irrimediabilmente finito. È finito dappertutto. L’Italia ha conservato alcuni rottami fino ad ora, ma erano rottami, non più ben giustificati neppure alla coscienza dei nostri politici».
Se si fosse dato ascolto a quelle profetiche parole, attuali allora e ancora più oggi!
La necessità del giudicare come dovere
Per cominciare questa ultima parte della mia relazione scelgo una citazione del Vangelo: «Come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,56-57).
A cosa dovrebbe rispondere il Progetto Culturale così come gli stessi vescovi lo hanno disegnato nei loro documenti?
Si tratterebbe di aiutare lo sviluppo nella cultura italiana di vaccini tali da rendere, su alcuni temi centrali per la vita degli esseri umani, inaccettabili tutte le forme di persecuzione, di indifferenza, di cinismo sistemico oggi imperanti; si tratterebbe di contrastare il dilagante egoismo e il culto dell’effimero non solo nelle loro ultime conseguenze ma nella elaborazione originaria che deriva da una politica nazionale che promuove, non da oggi, il principio della competizione, del successo, dell’acquisto del consenso, dell’imbonimento televisivo e pubblicitario. Un Progetto Culturale dovrebbe fornire gli strumenti per smascherare l’inganno, la frode, la volontà di non far crescere il senso critico dei cittadini e la loro autonomia di coscienza. Questo può dare un Progetto Culturale. Servirebbe a rendere impossibile, impensabile, ingiustificabile: l’evasione fiscale e l’esportazione dei capitali all’estero; il contagio del male attraverso l’agire di chi è investito di responsabilità pubblica; Il lavoro nero o il lavoro sottopagato; il rifiuto e persecuzione dei migranti; la mercificazione delle donne; le mafie e le camorre; la violazione dei diritti umani e lo stato di degrado delle carceri; la guerra e il commercio armi.
A proposito della questione del lavoro, va ricordato ad esempio che nel 2009 usciva il rapporto-proposta del Comitato per il Progetto culturale Cei dedicato alla “sfida educativa”. Uno dei punti di questa sfida era proprio il lavoro. Venivano ripresi tali e quali i dati statistici degli istituti di ricerca che continuano a dire bugie sul numero degli occupati e dei disoccupati. Io vengo da una zona, il casertano, che insieme a quella di Napoli ha il tasso più alto di disoccupati, non solo d’Italia ma d’Europa. Sono dati falsi, perché se fossero reali ci sarebbe gente che si ammazzerebbe quotidianamente perché spinta dalla fame. Esiste invece il lavoro nero, il lavoro sottopagato, a 3-400 euro al mese, ma non per 2 o 3 persone, per centinaia di migliaia di persone. Non c’è negozio, ristorante, pizzeria dove non lavorino pressoché tutti in nero. Non c’è cantiere dove non si lavori in nero. Senza garanzie e senza soldi. E non c’è campagna dove si raccolgano i prodotti utilizzando manodopera stagionale e in nero. Uno si aspetterebbe che il Progetto Culturale denunciasse tutto questo, dacché non lo fanno più nemmeno i sindacati.
Invece: «Umanizzare il lavoro significa realizzare un compito con la massima perfezione possibile, sia come perfezione umana, competenza professionale, sia come perfezione sovrannaturale, per amore del progetto divino sul mondo e a servizio degli uomini». Ma quando una cameriera guadagna venti euro, lavorando in una pizzeria dalle 18 fino alle 3 di notte, come può riconoscere questa «perfezione umana e sovrannaturale»? Ma cari amici, chi scrive queste cose ha un gravissimo e forse irrecuperabile handicap: non ha nessun rapporto con il mondo e con la realtà. Purtroppo è a costoro che viene data la parola, parola pronunciata e parola scritta.
Con queste guide e con queste testimonianze sappiamo benissimo dove andremo a finire. E dove già siamo finiti.
Sui migranti, poi, non è più nemmeno questione di destra e sinistra. Il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, presentato oggi come uno degli astri nascenti della nostra politica è il galantuomo che ha fatto l’ordinanza conto i lavavetri. Il sindaco di Pisa, che non è un leghista, ha fatto invece un’ordinanza contro l’attraversamento della città di persone che portano i borsoni. Chiaro che se sono io a passeggiare per Pisa con un borsone non mi ferma nessuno. Ma se sono un immigrato, allora è diverso. E l’ordinanza serve esattamente a bloccare il commercio e la possibilità di sopravvivenza di centinaia di persone immigrate.
Nella cattolicissima Vicenza c’è un’ordinanza del sindaco, emessa il 3 settembre 2003, che recita: «La mendicità nel territorio comunale è consentita sui marciapiedi dei luoghi pubblici o aperti al pubblico purché sia lasciato uno spazio libero per il transito dei pedoni di almeno metri 1 (uno); fra un mendicante e un altro deve esservi una distanza non inferiore a metri 200 (duecento); l’esercizio della mendicità è vietato in Corso Palladio, in Piazza dei Signori e nelle altre aree pedonali; la mendicità non è inoltre consentita davanti agli ingressi dei luoghi di spettacolo o economici, intendendo con ciò anche il singolo esercizio commerciale e non deve intralciare l’accesso delle abitazioni. è vietata la mendicità all’interno o nelle vicinanze dell’area di manifestazioni di carattere economico, sportivo o politico, in occasione di mercati e fiere, considerando come vicinanza una distanza di almeno metri 100 (cento)».
In questa ordinanza c'è un programma politico che corrisponde ad un modello di vita, un modello fondato sull'esclusione e sulla cancellazione degli esseri umani. Comprendete allora cosa dico quando parlo della gravità delle condizioni nelle quali ci troviamo, perché questo documento (…) è stato assorbito tranquillamente nella città di Vicenza. In pochi hanno manifestato contro la sua mostruosità. Noi qui siamo davanti a un alto grado di intolleranza nei confronti del bisogno. Ecco perché l'azione di carità va contro i benpensanti e i sazi. Va esattamente nella corrente opposta rispetto alla moda di oggi. Ci sono perfino norme che prevedono ammende per i tanti anziani e migranti che rovistano nella spazzatura (...). Oggi non vogliamo più cancellare il bisogno ma i bisognosi. Non è quindi grave che qualcuno abbia fame, ma che abbia la sfrontatezza di dircelo, di ricordarcelo, che possa infastidirci con la sua richiesta o semplicemente con la sua esistenza. (...).
E non può mancare una citazione per la Caritas della diocesi di Foligno che nel 2010 stabilì che alla mensa per i poveri potevano accedere solo coloro che avevano la residenza!
Eppure, queste sono le parole di mons. Di Liegro, per anni direttore della Caritas di Roma: «L’esperienza di solidarietà verso i cittadini più indifesi deve accompagnarsi costantemente ad un’opera di denuncia profetica di ogni forma di violenza verso gli indifesi. Il rischio è quello, giustificato dalla tradizione caritativa del passato, di badare più al gesto isolato e generoso che alle condizioni strutturali e culturali dei problemi sociali». Ecco quale dovrebbe essere il collegamento a un Progetto Culturale cristianamente ispirato.(...)
Io, nonostante tutto, sono fiducioso nel futuro. Non passeranno 50 o 100 anni che questo nostro tempo sarà ricordato come un tempo nel quale l'infamia si è impossessata della realtà delle nostre terre e della nostra nazione. E questa infamia sarà condannata come è stato per la tortura e per la schiavitù. Però qualcuno nel futuro si chiederà: «Perché anche tanti hanno taciuto, non sono intervenuti, non hanno denunciato?». Noi non possiamo permetterci di passare per quelli che sono stati complici di questo disastro umano.
Nel 1933, nel pieno vigore dell’era fascista, quando il fascismo era ormai riuscito ad ottenere il convinto consenso dei cattolici italiani e si avviava a sperimentarlo con la loro adesione entusiastica alla guerra coloniale in Abissinia compresa dai vertici della cattolicità italiana come una straordinaria occasione missionaria, Mazzolari scriveva una breve nota intitolata Rapporto su Chiesa-fascismo e prospettive future che può servire ad illuminare anche questo nostro tempo presente. Dopo aver sottolineato l’antitesi profonda tra cristianesimo e fascismo, guardando al rapporto tra i cattolici e i futuri governi, Mazzolari affermava: «Non chiediamo nessun privilegio né per i singoli né per le istituzioni nostre: nessuna preferenza, neppure in nome del fatto non trascurabile, che il cattolico è (almeno nominalmente) la maggioranza. Ogni cosa sia giudicata in rapporto al valore sociale, apprezzato però con spirito non settario». E ancora. «Non vogliamo nulla in dono. Anche le cose più giuste ce le vogliamo guadagnare; dei diritti più santi della Chiesa, esserne, anche umanamente, degni. Ci offende il solo pensiero che qualcuno (come fu spesso, come purtroppo è) ci tolga il respiro col pretesto della riconoscenza. Resiste soltanto ciò che veramente è guadagnato (…). Non rinneghiamo – non è neppure in nostro potere – nessun diritto alla Chiesa. Sappiamo però che essi devono incarnarsi nel nostro sforzo, prima di essere riconosciuti da chi non crede, il quale può essere mosso a riconoscerli da interesse politico. Agli uomini di domani non chiederemo delle adesioni ufficiali, anche a titolo di buon esempio, se non hanno il personale convincimento».
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