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CONFERENZA ONU SUL CLIMA: IN SCENA LA «FOLLIA LETALE» SUGLI ESSERI UMANI

Tratto da: Adista Notizie n° 95 del 24/12/2011

36453. DURBAN-ADISTA. Per i prossimi nove anni, non sarà messa in campo nessuna azione seria per contenere il riscaldamento del pianeta: così, di fatto, hanno stabilito i rappresentanti dei 195 Paesi presenti a Durban (28/11 - 11/12) per la 17.ma Conferenza delle parti della Convenzione quadro sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Cop 17), accordandosi sull’adozione di un nuovo piano globale che, secondo quanto prevede la tabella di marcia approvata, dovrà iniziare ad essere negoziato il prossimo anno, per essere pronto entro il 2015 ed entrare in vigore a partire dal 2020. Nel frattempo, dal 2013, e fino almeno al 2017, prenderà il via, ma destituita di ogni efficacia, la seconda fase di impegni del Protocollo di Kyoto, ad oggi l’unico accordo internazionale con disposizioni vincolanti per ridurre le emissioni di gas ad effetto serra, sulla base del principio di “obblighi comuni ma differenziati” e di “responsabilità storica”. Se il primo periodo di applicazione, che scadrà alla fine del 2012, comprendeva tutti i Paesi industrializzati (esclusi gli Usa che non hanno mai ratificato il Protocollo), la seconda fase, oltre a perdere il carattere vincolante, potrà contare sulla sola adesione dell’Unione europea, dell’Australia, della Nuova Zelanda, della Norvegia e della Svizzera (che rappresentano, tutti insieme, il 15% delle emissioni mondiali), essendosi nel frattempo sfilati Russia, Giappone e Canada (le cui emissioni sono salite del 34% solo nel 2009). «Tra il 2013 e il 2020 – ha dichiarato il capo delegazione della Bolivia René Orellana, esprimendo il dissenso del suo Paese alle conclusioni di Durban – i Paesi sviluppati avranno piena libertà di emettere e ridurre come vorranno».

Invano i Paesi più poveri, quelli che pagheranno di più pur essendo i meno responsabili (dagli Stati africani che verranno ricoperti dal deserto alle piccole isole che saranno sommerse dall’oceano), hanno chiesto che, al di là della tabella di marcia per un accordo globale nel 2020, si procedesse da subito al taglio delle emissioni. Al solito, non sono stati ascoltati.

Ciononostante, la presidente della Conferenza, la sudafricana Maite Nkoana-Mashabane, ha avuto il coraggio di definire “storico” l’accordo raggiunto a Durban, non senza ricordare come l’ottimo sia nemico del bene. E il nostro ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, lo ha salutato come «una speranza concreta per la stabilità del clima e per la nostra economia: si apre una piattaforma di intese sulle tecnologie pulite con i Paesi di nuova industrializzazione». Parole, queste ultime, che fanno comprendere fin troppo bene quanto grande sia l’interesse per le potenzialità economiche della green economy, presentata come ricetta contro il cambiamento climatico, ma in realtà occasione di rilancio dello stesso modello di sviluppo che ha causato la crisi climatica (oltre che economica). Sono proprio i commenti di questo tenore che hanno generalmente dominato l’informazione trasmessa dalla grande stampa italiana (di «una svolta epocale che si rifletterà sulla nostra vita quotidiana rilanciando le tecnologie green» parla ad esempio Antonio Cianciullo su Repubblica.it l’11/12), la quale peraltro, presa dalla manovra Monti e dalle oscillazioni dello spread, ha dedicato alla Cop 17 ancora meno spazio che quello riservato alle precedenti conferenze.

 

Verso la catastrofe

Ha ragione Noam Chomsky (Público, 13/12) a sottolineare come degli eventuali osservatori extraterrestri arriverebbero alla facile conclusione che gli abitanti di questo pianeta sono affetti da «un qualche tipo di follia letale». Che l’umanità proceda verso un catastrofico aumento della temperatura di 4 gradi e oltre, è infatti assai più che un generico timore. Come ricorda l’ex ambasciatore della Bolivia presso le Nazioni Unite Pablo Solón (Alai, 17/11), dando per buone tutte le promesse di riduzione dei gas a effetto serra per il periodo 2012-2020 avanzate dai Paesi sviluppati a Cancun lo scorso anno (Stati Uniti e Canada un ridicolo 3%, Unione Europea tra il 20 e il 30%, Giappone il 25%, Russia tra il 15 e il 25%), si arriverebbe a un taglio di emissioni al 2020 tra il 13 e il 17%, prendendo a riferimento i livelli del 1990. Il che, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, l’Istituto ambientale di Stoccolma e la segreteria esecutiva della Convenzione sul Cambiamento Climatico, si tradurrebbe in un incremento della temperatura di circa 4 gradi, il doppio, cioè, di quella soglia dei 2 gradi considerata il punto di non ritorno. E se già oggi, con un aumento della temperatura inferiore a un grado, muoiono a causa di disastri legati al cambiamento climatico circa 350mila persone, è facile immaginare, sottolinea Solon, «cosa significhi un incremento medio di 4 o più gradi».

Per sperare di limitare il riscaldamento del pianeta a un livello non superiore ai 2 gradi, nel 2020 - l’anno, cioè, in cui il nuovo piano dovrebbe appena entrare in vigore - le emissioni dovrebbero essere in realtà già inferiori di un 25-40% rispetto ai livelli del 1990, per arrivare a un taglio tra l’80 e il 95% nel 2050. Obiettivi che ad oggi appaiono irraggiungibili, se è vero che, secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, le emissioni globali di gas climalteranti hanno subìto nel 2010, nonostante la crisi economica, «il maggiore aumento registrato finora» (6% in più rispetto al 2009). Una situazione che supera addirittura lo scenario peggiore ipotizzato nel 2007 dall’Ipcc, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico. Così, in base ai dati dell’Organizzazione Meterologica Mondiale, nel 2011 la temperatura media alla superficie del globo è stata la decima più calda mai registrata (e la più calda in presenza del fenomeno meteorologico della Nina, che normalmente provoca un calo delle temperature) e 13 dei 15 anni più torridi della storia si sono avuti nell’ultimo quindicennio. Se ha ragione l’Agenzia Internazionale per l’Energia, se, cioè, il mondo dispone di appena cinque anni di tempo per evitare che il fenomeno del riscaldamento planetario diventi irreversibile, nel 2020, quando entrarà in vigore il nuovo piano globale, sarà davvero troppo tardi.

Neppure è chiaro, peraltro, se il nuovo piano, che coinvolgerà tutti i Paesi, compresi gli Stati Uniti e la Cina, che insieme sono responsabili della metà delle emissioni climalteranti (ma la Cina con 6 tonnellate di CO2 pro capite, gli Stati Uniti con 18), sarà “giuridicamente vincolante”: l’accordo parla di «un protocollo, uno strumento legale o una soluzione concertata avente forza di legge», dove a colpire è per l’appunto l’assenza della parola «binding» (vincolante).

 

«Idioti, pagliacci e criminali»

Nessun passo concreto neppure per sostenere i Paesi più poveri nei loro sforzi di mitigazione e di adattamento: del Fondo verde per il clima stabilito nella precedente Conferenza di Cancun, che prevede fino a 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 a favore delle Nazioni più povere, nulla è dato sapere su chi lo finanziarà. E in ogni caso, come ha spiegato Alberto Zoratti dell’organizzazione equosolidale Fair, presente a Durban nel network internazionale Climate Justice Now!, si tratta di «una cifra irrisoria che risulta essere meno di un decimo di quello che i soli Stati Uniti hanno stanziato per salvare le banche “too big to fail”. Un disimpegno globale che sembra ancora una volta ribadire come la finanza sia più importante dei destini di un intero pianeta».

Un’indignazione comune a tutti i movimenti sociali, i quali hanno visto cadere nel vuoto tutte le loro proposte di tagli alle emissioni, riconversione industriale, democrazia energetica, agroecologia e sovranità alimentare. Non a caso la rete Occupy Cop 17/11 ha tradotto l’acronimo inglese della Convenzione Onu sul clima (Unfccc) in «Nazioni Unite degli idioti, dei pagliacci e dei criminali del carbonio». «Ha prevalso l’idea – scrive Giuseppe de Marzo di A Sud (il manifesto, 13/12) – di lasciare nelle mani del mercato, delle forze produttive (o distruttive?) e della finanza la capacità di ridurre le emissioni di gas climalteranti, come se la crisi finanziaria non avesse insegnato niente sulla mano “visibile” del mercato e sul suo unico interesse: fare soldi. L’assenza dei principali capi di Stato del mondo inquinante e industrializzato al vertice dimostra del resto come la politica sia oggi incapace di prendere decisioni contrarie ai grandi interessi economici e finanziari, anche se la posta in gioco sono le sorti dell’umanità». I governi dovrebbero vergognarsi, ha affermato il direttore esecutivo di Greenpeace Internacional, Kumi Naidoo: «il loro fallimento si misura con le vite dei poveri, i più vulnerabili e i meno responsabili della crisi climatica globale».  È, come  ha dichiarato Zoratti, il rischio dell’«apartheid climatico»: «miliardi di persone lasciate al loro destino, senza strategie di contenimento del fenomeno né di sostegno reale alle comunità colpite. Dalla città di Durban, e dal Sudafrica liberato dal giogo dell’apartheid, ci saremmo aspettati di più. È importante una mobilitazione vera, delle persone, della società civile, dei movimenti sociali per cominciare a mettere in atto, anche dal basso, la transizione ad una società diversa, obiettivo ormai non più eludibile». (claudia fanti)

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