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Negazione, giustizia, sovranità

- Impedire i genocidi: come può intervenire la comunità internazionale senza calpestare la sovranità di uno Stato?

Tratto da: Adista Contesti n° 16 del 28/04/2012

Tratto dal quotidiano argentino El clarín (15 aprile 2012). Titolo originale: “Sólo la formación de seres responsables puede detener un nuevo genocidio”

Ha un accento grazioso nel suo spagnolo imparato in quel di Buenos Aires. Sévane Garibian è una giurista svizzera di origine armena, che nel nostro Paese sta cercando il filo conduttore delle risposte giuridiche date alle gravi violazioni dei diritti umani commesse qui dalla dittatura militare e in Spagna da quella franchista. È una studiosa dei genocidi, qualcosa che “ha succhiato col latte”. «Il tema della ciclicità del genocidio ha ottenuto sempre la mia attenzione», dichiara, «per ragioni intellettuali quanto personali. Sono di origine armena e questo fa sì che io conosca la questione. Nella mia famiglia si parlava sempre di queste cose. Conoscevo il significato del termine genocidio già a 7, 8 anni. Poi sono venute le domande su cosa significhi essere un sopravvissuto, cosa faccio di questo passato, come essere umano e come cittadina. Questo mi ha arricchito di un senso di responsabilità particolare, della consapevolezza di voler sapere e confrontare, e reagire a tutto quello che ha a che vedere con la negazione della carneficina».

Perché il Diritto, allora, e non la politica?

Perché ho capito che il Diritto è l’idioma dello Stato, significa lavorare sullo Stato.

Come è arrivata all’Argentina?

Ho iniziato con il genocidio armeno, poi la Shoa, l’ex Yugoslavia e il Rwanda, finché ho capito che l’Argentina era un caso molto particolare. In tutti gli altri appare c’è la negazione del genocidio da parte dello Stato. Il caso argentino ha la particolarità della desaparición (la scomparsa) come metodo, ed è passato per tutte le tappe, dall’amnistia al processo alla Giunta, ai megaprocessi. Un caso unico.

Perché si produce un genocidio?

La storia ci mostra che da sempre ci sono esseri umani che per questioni razziali o di potere organizzano lo sterminio di qualche minoranza. È un crimine di guerra, è uno Stato di fronte ad un altro Stato o un gruppo nemico. Questa è la configurazione giuridica, politica e umana. Più interessante dal punto di vista giuridico è quello che succede quando è lo stesso Stato, che deve in teoria proteggere i suoi cittadini, a rivoltarsi contro di essi. Il contratto sociale si rompe. Non è tanto importante, per lo meno per me, la motivazione individuale del leader di turno, che sia Hitler, Videla o Mugabe. Non mi interessa il profilo psicologico di questo individuo, quanto la frattura che si realizza quando uno Stato che è lì per proteggerci comincia a massacrarci.

Da uno Stato protettore a uno Stato criminale.

Esattamente. È una frattura, è lo Stato che rigetta le sue stesse leggi e, invocando una ragione superiore, commette un genocidio. E si crea un nuovo ordine legale per giustificare gli atti. Ne è un buon esempio il Diritto nazista, che ci porta ad una delle domande classiche: esiste un Diritto ingiusto o immorale? Certo. La parola diritto non ha niente a che vedere con la parola giustizia. Sono concetti distinti. L’uso degli strumenti legali per giustificare una politica criminale si è verificato in molti genocidi.

E i massacri si susseguono. In Rwanda nel 1994, a Srebrenica l’anno dopo. Ora a Homs, in Siria.

L’unica differenza importante con quanto è successo in altri momenti della storia è che ora non possiamo più dire “non sapevamo”. Non possiamo girarci dall’altra parte. Anche se vogliamo fare i tonti, c’è sempre una Tv che ci ricorda quello che sta succedendo. Possiamo vederlo dal vivo, nel momento in cui si produce, ed è uguale a come è avvenuto per secoli e secoli, e lo sfondo continua come sempre ad essere politico. Un intervento per fermare la mattanza dipende dagli interessi di quella che chiamiamo “la comunità internazionale”.

Non si può fare un passo avanti a partire dal Diritto internazionale?

C’è un concetto relativamente nuovo che ha a che vedere con “la responsabilità di proteggere”. E c’è una sua cornice giuridica. Ma con questo concetto sorge anche la domanda: in quale momento si può intervenire? Come si può giustificare? Come si può intervenire in uno Stato sovrano? La Convenzione contro il Genocidio può dare alcune risposte. È dal 1948 che questo strumento ci dà la possibilità di lavorare nella prevenzione e repressione del genocidio. Ma sono dovuti passare altri 50 anni perché si creasse la Corte Penale dell’Aja per sanzionare i genocidi e si attrezzassero tribunali penali internazionali per casi specifici. Sono passi importanti, ma non sufficienti. E mentre cerchiamo queste risposte, continuano a verificarsi gravi violazioni dei diritti umani. E così continuerà, purtroppo. Sebbene esista un Diritto internazionale che permetterebbe alla comunità internazionale di intervenire in questi casi.

Sì, ma intanto bisognerebbe definire cosa sia questa “comunità internazionale”. È un concetto troppo vago. Cos’è, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu? Questo a volte si confonde con il concetto di “Occidente”.

Chiaro, è il concetto degli Stati europei sotto la guida degli Stati Uniti. Ebbene, finora questo blocco non ha potuto fermare molti di questi genocidi.

E compare anche il  “negazionismo”.

Sì, la negazione del fatto da parte dello Stato che l’ha commesso. Nel 2015 saranno passati precisamente cento anni dal genocidio degli armeni praticato dalla Turchia, e finora questo Stato mantiene una chiara politica “negazionista”. C’è un articolo del codice penale turco, il 301, che sanziona duramente chi osa parlare del genocidio armeno, cosa considerata un «tradimento dell’identità turca». È una politica dello Stato. Ed è solo un esempio. Questo avviene in molti altri Paesi, al di là del fatto che sia o meno contemplato nel codice penale.

E il caso della Spagna?

Lì la norma è dimenticare. E si tratta di un oblio fittizio, armato dallo Stato. Le leggi di amnistia sono “oblio fittizio”. Sto lavorando alla comparazione fra i casi argentino e spagnolo. In Argentina si è derogato alle leggi di amnistia a partire dal “processo Simón” del 2005 e si sono riaperti i processi penali. In Spagna fino ad oggi non si mettono in discussione le leggi di amnistia e si impedisce ogni tipo di processo. Il caso del giudice Garzón ha portato sotto gli occhi di tutti questo oblio e lo Stato ha reagito immediatamente per tentare di zittirlo. I fatti storici sono molto diversi, ma dal punto di vista del Diritto esiste un’altra grande differenza: l’Argentina è uno Stato che ha messo in campo quasi tutti gli strumenti giuridici a riguardo delle gravi violazioni di diritti umani: investigazione, megaprocessi, indulti, leggi di amnistia, deroghe, ecc. In Spagna c’è un tabù su tutto questo da più di 70 anni.

Potrebbe darsi un Diritto universale per prevenire le gravi violazioni dei diritti umani?

Bisogna capire che ci sono differenti concetti del diritto in differenti società e pertanto non si può avere una giustizia globale. Per applicare il concetto di giustizia universale dovremmo determinare in nome di chi la si applica, come acquisire questa universalità rispettando la pluralità di valori. E anche, “uccidere” il principio di sovranità statale. L’idea di una giustizia universale è “bella”, ma allo stesso tempo molto pericolosa. A me l’universalismo assoluto mette paura. Tanto quanto il relativismo assoluto.

Se possiamo siglare accordi commerciali quasi universali come il Gatt, perché non possiamo arrivare ad un accordo di base su questo terreno?

Tutti abbiamo cadaveri nell’armadio. Nessuno vuole cedere certi diritti e privilegi. Ci si rifugia nella diversità culturale e nella sovranità nazionale. Lo Stato è come l’individuo, cerca sempre di proteggersi.

Possiamo dire che i genocidi sono opera degli uomini e non delle donne?

Gli uomini sono stati, in grandissima parte, i capi politici ed intellettuali dei genocidi. Ma non possiamo dire che le donne siano le buone del film. Anche loro hanno partecipato. Per esempio le capò, le guardie dei campi di concentramento nazisti. Però sì, è una rappresentazione chiara della politica che è stata da sempre segnata dagli uomini.

Giorni, fa è comparso su YouTube un video che chiamava a cercare e castigare un genocida ugandese (Joseph Koni, capo del movimento LRA, l’"Esercito di Resistenza del Signore", ndt) e ha prodotto un fenomeno assolutamente nuovo: più di 60 milioni di persone lo hanno visto in quattro giorni. Non è un modo diverso di “fare giustizia”?

No, è solo il diritto all’esposizione di un caso. Non si tratta di giustizia. Da un lato, è un fenomeno interessante il fatto che un cittadino mostri le attività di un genocida; dall’altro, c’è il rischio del possibile abuso. Preferisco la prevenzione attraverso l’educazione: la formazione di cittadini responsabili che lottano quotidianamente per il rispetto dei diritti umani.

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