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Verde come il dollaro. L’enorme giro d’affari della green economy

Tratto da: Adista Documenti n° 24 del 23/06/2012

DOC-2448. ROMA-ADISTA. È la nuova formula magica con cui far fronte alla crisi ambientale: green economy, “economia verde”, la migliore promessa di un rigoglioso e ridente futuro. Ed è, anche, il concetto chiave del documento Onu, dall’incoraggiante titolo “Il futuro che vogliamo”, elaborato in vista della Conferenza delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile, nota come Rio+20, in programma a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno, vent’anni dopo lo storico Vertice della Terra (v. Adista documenti nn. 98/11 e 6, 8 e 18/12). Non che sia nuovo l’uso disinvolto dell’aggettivo “verde”: il passato ci ha già regalato una “rivoluzione” di questo colore, quella condotta attraverso la selezione genetica di varietà vegetali e l’abbondante ricorso a fertilizzanti e pesticidi, con catastrofiche conseguenze sul piano ambientale e sociale. E quanto verde ci sia nella proposta della green economy bastano ad indicarlo gli immensi interessi in gioco: se i grandi capitali si sono decisi ad ammettere l’esistenza di quello che per lungo tempo hanno preferito celare, cioè di una crisi climatica e ambientale di proporzioni colossali, non è perché sono rinsaviti, ma perché - come si legge in un documento dal titolo “El trasfondo de la economía verde” diffuso il primo giugno da alcune organizzazioni ambientaliste (www.grain.org/es) - sono riusciti finalmente a intravedere le immense opportunità di guadagno legate alle alterazioni del clima e degli ecosistemi. «Credo ardentemente – ha affermato non per nulla il primo ministro David Cameron – che, se riformulassimo gli argomenti a favore di un intervento relativo al cambiamento climatico in termini non di minacce e di castighi ma di opportunità di profitto, potremmo registrare un impatto di molto superiore». È esattamente a questo nuovo giro di affari - pari, secondo le stime più prudenti, almeno al doppio del Pil mondiale - che è stato assegnato il nome di “economia verde”, riconducibile non solo alle attività legate alle energie rinnovabili, ma anche alla commercializzazione di tutte le risorse naturali e persino dei servizi prestati dai diversi ecosistemi planetari: il suo scopo è, insomma, secondo le parole dell’attivista boliviano Pablo Solón, quello di trasformare in merce «non soltanto il legname dei boschi ma anche la capacità che questi boschi hanno di assorbire anidride carbonica». È lo scopo, scrive il teologo brasiliano Frei Rodrigo de Castro Amédée Péret, coordinatore dell’Ação Franciscana de Ecologia e Solidariedade (IHU On-line, 12/5), di assegnare «un valore finanziario alla biodiversità», quantificando in termini economici i complessi processi ecologici. Per sviluppare così, evidenzia Ignacio Ramonet (Le Monde Diplomatique, 5/6), «un nuovo mercato immateriale di bonus e strumenti finanziari» - i crediti di carbonio ne rappresentano l’esempio più noto - attraverso cui «lo stesso sistema bancario responsabile della crisi finanziaria del 2008» potrà disporre, «a proprio vantaggio, della Madre Natura per continuare a speculare e a realizzare profitti». 

E poco importa se a tal fine, come chiarisce bene il documento delle organizzazioni ambientaliste, si renderà necessario somministrare agli ecosistemi una dose supplementare di devastazione: «Se i boschi diventassero ancora più rari e più fragili, non saremmo disposti a pagare di più per la conservazione di quelli esistenti e per programmi di riforestazione? Se il deterioramento ambientale e climatico determinasse la scarsità di alimenti, le grandi imprese dell’agrobusiness non moltiplicherebbero i loro profitti, come ha ben rilevato la crisi del 2008?». Su questa strada, non c’è davvero limite al peggio: «È vero che la salute umana può risentire del cambiamento climatico - ha affermato, per fare solo un esempio, John Llewellyn della Lehman Brothers – ma le imprese farmaceutiche potranno migliorare la loro situazione finanziaria in virtù di un aumento della domanda».

In questo scenario, è evidente che la parola d’ordine per i grandi capitali deve essere quella di mettere le mani su tutto ciò che ancora rimane da sfruttare, in un’accelerata corsa all’accaparramento della terra: «Nella misura in cui l’agricoltura entra in crisi – prosegue il documento “El trasfondo de la economía verde” – sarà sempre più un affare possedere o controllare terre coltivabili». E la stessa logica anima «la corsa a nuove concessioni per la pesca in acque fredde, alla privatizzazione di parchi nazionali e riserve naturali, all’acquisto di vaste aree boschive».

Così, commenta ancora Frei Rodrigo Péret, «mentre il mondo sperimenta la crisi economica, finanziaria, ambientale, energetica, alimentare e climatica, tutto come riflesso della crisi strutturale del modello capitalista», i detentori del potere politico, militare ed economico-finanziario prevedono per il capitalismo «una nuova era», «canalizzando investimenti e innovazione tecnologica attraverso l’appropriazione dei sistemi fisici e biologici che sostengono la vita». Ed è su questa minaccia mortale per il pianeta che richiamano l’attenzione le innumerevoli realtà (tra cui anche un’inedita coalizione interreligiosa che prende il nome di “Religioni per i Diritti”) che daranno vita, dal 18 al 23 giugno, al Vertice dei Popoli parallelo alla Conferenza delle Nazioni Unite, opponendo al bluff dell’economia verde la logica della giustizia ambientale e proponendo una transizione dall’attuale antropocentrismo a una civiltà biocentrica, fondata sulla difesa dei beni comuni dell’umanità e sul riconoscimento dei diritti della Natura, sul senso di appartenenza, come recita la “Carta della Terra” nel suo preambolo, «ad un’unica famiglia umana e ad una comunità terrena con un destino comune». Una sfida a cui si richiamano gli interventi di Frei Betto e di Leonardo Boff che qui di seguito riportiamo in una nostra traduzione dal portoghese. (claudia fanti)

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