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Rio+20: la natura può attendere, il mercato no. Il fallimento annunciato della Conferenza Onu

Tratto da: Adista Documenti n° 26 del 07/07/2012

DOC-2453. RIO DE JANEIRO-ADISTA. Aveva ragione l’urbanista, storico e attivista politico Mike Davis ad affermare che la Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20, avrebbe avuto le stesse possibilità di salvare il mondo di «una convenzione di entusiasti dell’esperanto» (Estado de S. Paulo, 17/6). Stando al documento finale della Conferenza, intitolato paradossalmente «Il futuro che vogliamo», l’umanità sembra nutrire davvero poche aspirazioni riguardo al suo avvenire.

Il momento, del resto, non poteva essere più sfavorevole, non essendo i Paesi ricchi disposti a fare alcun sacrificio, meno che mai in piena crisi economica, e non accettando le potenze emergenti alcun intralcio alla loro crescita. E questo malgrado il fatto che, secondo uno studio divulgato dalle Nazioni Unite, l’inerzia riguardo alla crisi ambientale e climatica sia costata, nei 20 anni intercorsi tra Rio ’92 e Rio+20, una cifra pari a circa l’intero Pil di una potenza come il Brasile. Come ha commentato il teologo Leonardo Boff, «Rio+20 ha dimostrato che i Paesi industrializzati non vogliono rinunciare alla loro posizione; i Paesi emergenti vogliono raggiungere quelli industrializzati e i Paesi poveri vogliono diventare emergenti».

Un diluvio di critiche si è abbattuto sul Brasile, accusato di aver condotto negoziati al ribasso, sopprimendo punti controversi ma vitali, pur di ottenere che il documento, frutto di un negoziato durato mesi, venisse approvato. Ne è derivato, così, un testo scandalosamente generico, senza impegni e senza ambizioni, che continua ostinatamente a insistere sui tre pilastri dello sviluppo sostenibile - economico, ambientale e sociale - pur di fronte all’evidente strapotere del primo, e distante anni luce da quel riconoscimento della Madre Terra come soggetto di diritto su cui pongono invece l’accento i popoli indigeni e i movimenti popolari di tutto il mondo. Come afferma ancora Boff, «finché non si raggiungerà una comprensione riguardo ai limiti del pianeta, è inutile pensare alla giustizia sociale e allo sviluppo economico. Di conseguenza, l’ambiente è più importante del fattore sociale e di quello economico, giacché senza di esso non si potrà trovare la soluzione per gli altri due».

Quanto emerge da Rio è, invece, nient’altro che una carta di intenzioni, che, per esempio, sollecita «un’azione urgente» contro la produzione e il consumo insostenibili, ma senza indicare né il come né il quanto né il quando. O sottolinea la necessità di una diversificazione della matrice energetica, ma senza alcun riferimento a obiettivi reali di riduzione dei gas ad effetto serra (proprio nel momento in cui l'Agenzia internazionale per l'Energia riferisce che le emissioni mondiali di anidride carbonica nel 2011 sono aumentate del 3,2% rispetto all'anno precedente, mentre dovrebbero scendere almeno del 3% annuo, e diverse stazioni di ricerca hanno registrato nell’Artico una quantità di anidride carbonica superiore alle 400 parti per milione, ben oltre il limite massimo delle 350ppm fissato da un ampio numero di scienziati ed esperti).

Non meraviglia dunque che l’unica vera proposta emersa dal Vertice sia quella della cosiddetta green economy, quell’economia verde che, secondo i movimenti popolari, di verde rischia di avere soltanto il nome, puntando piuttosto a garantire la continuità dell’attuale modello di produzione e consumo, piegando alle logiche del mercato tutto ciò che ancora resta della natura (v. Adista nn. 98/11 e 6, 8, 18 e 24/12). È il senso appunto della “Dichiarazione sul Capitale Naturale” resa pubblica dalle grandi banche e dal settore finanziario in un incontro a latere del vertice, in cui, come denuncia Re:Common (l’associazione che ha preso il posto della Campagna per la riforma della Banca Mondiale), «gli istituti di credito pretendono una sorta di diritto indiscusso di fare business, che permetta l’accesso a ogni settore della natura e dell’ambiente, identificando e dando un costo a ogni “servizio” e bene che può essere identificato in quegli ambiti». Al contrario, secondo Re:Common, «una vera Green Economy dovrebbe basarsi su presupposti diametralmente diversi, invertendo la tendenza attuale di mercificare e finanziarizzare ogni bene naturale» e «riconoscendo in modo molto chiaro i limiti del mondo degli affari nell’ambito delle altre sfere della vita», oltre che «rafforzando il controllo democratico sopra i beni comuni naturali del globo». «Invece di una Dichiarazione sul Capitale Naturale - ha dichiarato Antonio Tricarico -, avremmo bisogno di una Dichiarazione sulla Natura Senza Capitale».

 Tutto il resto è, al solito, rimandato: da qui a tre anni le Nazioni Unite indicheranno gli “Obiettivi di sviluppo sostenibile” che dovranno perseguire tutti i Paesi del mondo (oltre a individuare le fonti di finanziamento ai Paesi più poveri, per aiutarli a compiere tali obiettivi), sul modello dei cosiddetti Obiettivi del Millennio, le otto mete che tutti gli Stati membri dell'Onu si erano impegnati, nel 2000, a raggiungere entro il 2015 e che sono rimasti in larga parte inevasi. Esattamente come resteranno incompiuti questi nuovi, dal momento che gli impegni saranno sottoscritti su base volontaria.

Una visione opposta a quella espressa dalla Conferenza ufficiale è emersa, e non poteva essere altrimenti, dal Vertice dei Popoli, svoltosi, dal 18 al 23 giugno, all’Aterro do Flamengo, a 30 chilometri dalla sede della Conferenza, a cui hanno partecipato circa 50mila attivisti, in oltre 1.200 attività, a cominciare dalla grande Marcia dei Popoli per la Giustizia Ambientale e Sociale, contro la Mercificazione della Vita e in difesa dei Beni Comuni. Qualche critica, tuttavia, è stata rivolta anche al Vertice dei Popoli, rispetto al suo carattere ormai del tutto innocuo, alle sue modalità superate, alla sua scarsa incidenza, che si rifletterebbero anche nel documento finale, con il suo consueto affastellamento dei temi più disparati. Lo riportiamo qui di seguito in una nostra traduzione dal portoghese. (claudia fanti)

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