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Costituzione, ultima chiamata

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 27 del 14/07/2012

Sulla Costituzione gli allarmi sono stati tanti. Quelli legati allo svuotamento progressivo ma sostanziale della nostra Carta negli anni ’70, quelli seguiti alla “grande Riforma” auspicata da Bettino Craxi, che vagheggiava modelli presidenzialistici ed autoritari; quelli che – ahimé – in pochi lanciammo in occasione del referendum del 1993, che introdusse il maggioritario spazzando via, di fatto, la democrazia parlamentare rappresentativa così come l’avevano pensata i Costituenti; e poi quelli connessi alla riforma del titolo V della Costituzione voluta da D’Alema a colpi di maggioranza parlamentare (realizzata però grazie al maggioritario e quindi non realmente rappresentativa del corpo elettorale) e quelli che, per fortuna, contribuirono a scampare il pericolo, nel 2006, di ritrovarci una nuova Costituzione targata centrodestra, “pensata” a Lorenzago dai tre “saggi” Tremonti, Calderoli e D’Onofrio, ma poi fortunatamente bocciata dal referendum popolare.

Tanti allarmi creano forse assuefazione. O la sensazione di un “al lupo, al lupo” a cui l’opinione pubblica è legittimata a prestare sempre meno attenzione. Ma non è così. I pericoli c’erano nel passato e ci sono oggi, tanto più di fronte al progetto di “Revisione di alcune norme della Costituzione” presentato dal senatore Vizzini il 12 aprile scorso e che il Parlamento sta discutendo (e approvando) nella pressoché totale inconsapevolezza di un’opinione pubblica non informata ed ormai esclusa da ogni reale processo di elaborazione decisionale.

Il progetto prevede anzitutto il cavallo di battaglia del populismo e della demagogia sulle “riforme”: la diminuzione del numero dei parlamentari. Ma siamo sicuri che meno rappresentanti del popolo, che ne esercitino per delega la sovranità, così come previsto dalla attuale Costituzione, rappresentino di per sé un bene? O “legittimati” dall’odio anti-casta si intende invece ridurre il potenziale rappresentativo complessivo del Parlamento rispetto alla composita realtà politica, economica e sociale del Paese?

C’è poi la questione della distribuzione delle competenze legislative tra i due rami del Parlamento. Spaccare la fonte di produzione delle leggi, rischia non soltanto di comprimere, rompere, declassare la rappresentanza, ma incide profondamente sulla unitarietà dell’ordinamento legislativo.

Anche le innovazioni che si intenderebbero apportare al procedimento legislativo, conferendo nuovi poteri all’esecutivo, allarmano perché non rispondono ad alcuna reale esigenza istituzionale, almeno non confessabile. Perché attribuire al presidente del Consiglio poteri tipici delle Assemblee parlamentari? Per richiamare la propria maggioranza alla coerenza col programma di governo, l’esecutivo può ben servirsi della “questione di fiducia” (della quale, per la verità, si serve già più che abbondantemente, e scandalosamente), specie se combinata a maxiemendamenti ai testi dei decreti-legge. Ma, come se ciò non bastasse, oggi si intende legittimare costituzionalmente l’abuso di potere di intervento del governo nel processo di formazione delle leggi, l’appropriazione surrettizia del potere legislativo a danno del Parlamento.

Alla stessa ideologia “governista” e sostanzialmente autoritaria si iscrive anche il meccanismo predisposto per la sfiducia. Si aggrava l’attuale normativa sia aumentando da un decimo ad un terzo dei componenti di ciascuna Camera la sottoscrizione della mozione di sfiducia, sia stabilendo che debba contenere il nome del nuovo presidente del Consiglio, sia prescrivendo che possa essere approvata solo con la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna delle due Camere. Ad esse, da una parte, si impone di riunirsi in seduta comune, dall’altra, si esclude che possano agire come collegio. Per la validità dell’approvazione della mozione di sfiducia, infatti, è richiesto il voto della metà più uno dei componenti di ciascuna delle due assemblee, che si vedrebbero costrette a votare nella stessa riunione, ma separatamente. Perché allora prevedere la seduta comune del Parlamento? Per sceneggiare una sorta di Apocalisse ed esercitare una ulteriore pressione “dissuasoria” sui parlamentari?

La stabilità, la “governabilità” può realizzarsi solo se i governi sono autorevoli, se hanno una reale forza politica che può derivare solo dall’ampiezza e dalla densità della rappresentanza di cui dispongono, non da artifizi di ingegneria istituzionale, da trucchetti maggioritari o da norme che ne rinviano sine die la caduta. Se qualcuno avesse dubbi a proposito, c’è l’esperienza dei venti anni di cosiddetta “seconda Repubblica” a dimostrare gli esiziali effetti dei tanti sistemi uninominali, maggioritari, mattarellum, tatarellum, porcellum e via latineggiando. Promettevano stabilità, alleanze e maggioranze certe, trasparenza e partecipazione dei cittadini all’elezione ed al controllo dei loro rappresentanti. Lo sfascio che hanno prodotto, anche in termini di decadimento morale e civile, è sotto gli occhi di tutti.

Eppure, rassegnarsi all’esistente non solo equivale ad arrendersi, ma finirebbe per renderci conniventi con chi intende archiviare valori, principi, diritti, garanzie della nostra Costituzione. E della storia politica e civile che l’ha prodotta.

Con altri giuristi, intellettuali, realtà organizzate e singoli esponenti di diverse anime della sinistra alcuni mesi fa abbiamo deciso di dare avvio alla fase costituente di una nuova associazione: “Economia Democratica”. Con questo nome volevamo alludere a esperienze analoghe che hanno attraversato periodi intensi e creativi della vita della Repubblica, come “Magistratura democratica”, “Psichiatria democratica”, “Genitori democratici”, “Insegnanti democratici”, che mentre affrontavano problemi di realtà “particolari”, perseguivano beni e valori comuni, cambiando la società tutta intera. Anzi, non facevano che battersi per l’attuazione piena e reale dei principi costituzionali nella nostra vita civile e politica. Oggi, in un mutato contesto, ma con le stesse speranze di trasformazione dello stato di cose presenti, speriamo che “Economia democratica” possa riportare l’economia pubblica e privata alla regola della democrazia e alle finalità sociali della Costituzione. Di questa Costituzione.

* Docente emerito di Dritto Costituzionale; di “Economia democratica”

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