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PRESIDENZIALI IN VENEZUELA: «UN’ELEZIONE CONTINENTALE»

Tratto da: Adista Notizie n° 31 del 08/09/2012

36832. CARACAS-ADISTA. È tutta l’America Latina a guardare con trepidazione alle elezioni venezuelane del prossimo 7 ottobre. Come ha infatti evidenziato il dirigente del Movimento dei Senza Terra del Brasile João Pedro Stedile, quella che avrà luogo in Venezuela «non sarà un’elezione esclusivamente nazionale ma continentale». Perché in gioco «non c’è solo la continuità del progetto bolivariano», ma il destino dell’intera Patria Grande: «Gli Stati Uniti – ha spiegato – stanno impiegando tutte le loro forze per far eleggere il loro fantoccio Henrique Capriles Radonsky. Se riuscissero nel loro intento, annienterebbero la possibilità stessa di progetti alternativi nel continente», arrestando il processo di integrazione in corso e impadronendosi per di più della maggior riserva di petrolio del mondo. Perché non c’è dubbio che, come sottolinea Aram Aharonian della rivista Punto Final (17/8), il Venezuela sia stato il motore principale dei cambiamenti strutturali realizzati in America Latina: basti pensare alla nascita dell’Alba, di Petrocaribe, di Petrosur, del Banco del Sur, del Sucre (il sistema unico di compensazione regionale), oltre naturalmente al ruolo giocato nella creazione dell’Unasur (Unione degli Stati Sudamericani) e della Celac (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici) e alle nuove prospettive aperte con l’ingresso del Venezuela nel Mercosur, ratificato il 30 luglio scorso da Brasile, Argentina e Uruguay dopo la sospensione del Paraguay (il cui Parlamento bloccava da sei anni l’adesione della Repubblica Bolivariana all’organismo) in seguito al colpo di Stato contro Fernando Lugo. Con l’incorporazione del Venezuela, il Mercosur diventa una delle maggiori potenze economiche del mondo, unendo a grandi produttori di alimenti come Brasile e Argentina (che peraltro dispongono anche di una importante base industriale e di significative ricchezze minerarie) la maggiore potenza petrolifera del pianeta, senza contare l’immenso potenziale idrico dell’Amazzonia e dell’Acuífero Guaraní e la presenza nella regione dei più grandi giacimenti di uranio del mondo. Il tutto con grande scorno degli Stati Uniti (e dell’oligarchia paraguayana, che certo non poteva immaginare che il golpe contro Lugo le si rivolgesse contro), per i quali sembra allontanarsi sempre più la possibilità di riuscire ad isolare il governo bolivariano (della «maggiore sconfitta sofferta dalla diplomazia statunitense dopo il fallimento dell’Alca», l’Area di Libero Commercio delle Americhe, parla non a caso il sociologo argentino Atilio Boron su Alai del 2/8).

Non c’è 13 senza 14?

Se la distanza tra Hugo Chávez ed Henrique Capriles Radonsky, stando a tutti i sondaggi, sembra ad oggi incolmabile, sono in molti, tuttavia, a lanciare l’allarme sulle strategie di destabilizzazione dell’oligarchia (la quale ha già al suo attivo il fallito golpe dell’11 aprile del 2002 e il successivo sabotaggio dell’industria petrolifera, per ricordare solo gli eventi più noti). Di sicuro, l’avvocato quarantenne Capriles Radonsky, già governatore dello Stato di Miranda e candidato unitario delle destre (riunite stavolta nel Mud, la Mesa de la Unidad Democrática), può contare, oltre che sul sostegno di una netta maggioranza di reti televisive, emittenti radiofoniche e quotidiani, anche sul massiccio appoggio della classe media come pure degli elettori all’estero e dei governatori di Stati chiave (Zulia, Miranda, Táchira, Lara) e anche sull’insoddisfazione delle fasce popolari rispetto alla deludente gestione di diversi governatori bolivariani (scontento che lo stesso Chávez ha preso sul serio, criticando lui stesso gli amministratori della sua parte politica, pur avvertendo che «uno può criticare la rivoluzione, ma non può votare la borghesia: sarebbe un tradimento»). Ma lo svantaggio che Capriles deve colmare appare piuttosto proibitivo, tanto più non possedendo il carisma universalmente riconosciuto a Chávez. Accusato di aver militato in passato nell’organizzazione di estrema destra Tradizione, Famiglia e Proprietà, il candidato dell’oligarchia si è spinto a riconoscere le indiscutibili conquiste sociali realizzate dal governo bolivariano nei diversi ambiti dell’educazione, della cultura, della salute, dell’alimentazione, della politica abitativa, delle pensioni, del salario minimo (agli investimenti sociali è destinato il 42,5% del bilancio statale), giungendo persino a dichiarare di ispirarsi al governo Lula, ma le sue dichiarazioni vengono contraddette da svariati punti del programma di governo del Mud, che spaziano dall’incremento della partecipazione privata allo sfruttamento petrolifero fino alla riduzione della partecipazione dello Stato ai progetti di sviluppo.

È soprattutto, però, sullo stato di salute di Chávez, dopo le cure da lui sostenute contro il cancro diagnosticato nel giugno del 2011, che Capriles ha provato a far leva, non perdendo occasione di ostentare, per contrasto, la sua eccellente forma fisica. Ma gli è andata abbastanza male: come testimonia Ignacio Ramonet (n. 202 di Le Monde Diplomatique), che ha accompagnato Chávez per due settimane, lo scorso luglio, assistendo anche ad alcuni dei suoi lunghissimi, appassionati ed estenuanti discorsi elettorali, il presidente sembra godere di un buono stato di salute, mostrando una forma fisica impensabile per chi, stando alle notizie apparse su El País e The Wall Street Journal, soffrirebbe di «metastasi alle ossa e alla spina dorsale» e avrebbe non più di «sei o sette mesi di vita». Né sembra probabile che l’esplosione nella raffineria di petrolio di Amuay, la più grande del Venezuela, in cui hanno perso la vita oltre 40 persone, possa tradursi in un ritorno elettorale per Capriles, malgrado egli non abbia perso tempo a evocare presunte irregolarità a livello di sicurezza.

In ogni caso, quella del 7 ottobre sarà la quattordicesima verifica elettorale (e la terza elezione presidenziale) a cui si sottopone, direttamente o indirettamente, il leader bolivariano: tutte vinte (e sempre in maniera trasparente, come riconosciuto da tutte le missioni degli osservatori internazionali) tranne una, di strettissima misura, quella per il referendum sul progetto di riforma costituzionale, il 2 dicembre 2007. 

Alle elezioni di ottobre Chávez arriva comunque con un programma di governo ben definito, il Piano Socialista 2013-2019, basato su 5 obiettivi storici: consolidare l’indipendenza del Paese, cancellando ogni traccia neocolonialista lasciata dall’impero; portare avanti la costruzione del socialismo bolivariano del XXI secolo, accelerando la transizione dal sistema capitalista a un modello produttivo socialista, anche attraverso una radicalizzazione della democrazia partecipativa; trasformare il Venezuela in una potenza economica, politica e sociale all’interno della Grande Potenza Nascente dell’America Latina e dei Caraibi; contribuire a creare un mondo policentrico e multipolare per garantire la pace planetaria; preservare la vita sul pianeta e salvare così la specie umana, mediante la costruzione di un modello ecosocialista basato su una relazione armoniosa tra l’essere umano e la natura e ispirato alla visione andina del buen vivir.

Quanto ai difficili rapporti tra Conferenza episcopale e governo bolivariano (il cui punto più basso va individuato nella complicità di alcuni esponenti ecclesiastici con i responsabili del golpe dell’aprile del 2002), si è registrato durante la campagna elettorale qualche segnale di disgelo, compensato tuttavia dalle sempre ostili dichiarazioni anti-chaviste di mons. Baltazar Porras (il quale, in visita di Spagna, ha accusato il presidente di autoritarismo e individuato il principale problema del Paese nel fatto che il petrolio sarebbe stato «dilapidato» senza generare «ricchezza sociale») e dalle critiche rivolte dal presidente dell’episcopato mons. Diego Padrón riguardo al silenzio «antidemocratico» sulla salute di Chávez: «Il maggiore interrogativo – ha dichiarato – è quello relativo alla malattia del presidente. Il segreto come strategia è uno dei tratti caratteristici dell’atteggiamento governativo». (claudia fanti)

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