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Dittatoriale, islamico o democratico?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 31 del 08/09/2012

La torrida estate cairota ha riservato non poche sorprese e cambiamenti al popolo egiziano. Sbarazzandosi a metà agosto tanto del presidente del Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf), Hussein Tantawi, quanto del capo di stato maggiore dell’esercito Sami Anan, il neopresidente Mohamed Morsi (v. Adista Notizie n. 22 e 26/12) sembra aver voluto tagliare nettamente i ponti con il passato del Paese, la cui storia repubblicana ha sempre visto i militari saldamente ai vertici del potere politico. Contestualmente alla rimozione dei due alti graduati, Morsi ha infatti soppresso anche la «dichiarazione costituzionale» emanata dallo Scaf a giugno (v. Adista Notizie n. 26/12), che limitava fortemente le sue prerogative. Ora l’esponente dei Fratelli Musulmani è un capo di Stato nel pieno delle sue funzioni. Anzi, secondo molti è fin troppo potente visto che, oltre al potere esecutivo, detiene anche quello legislativo che la dichiarazione costituzionale aveva assegnato allo Scaf (il parlamento egiziano eletto a fine 2011 è stato sciolto recentemente per effetto di un pronunciamento della Suprema Corte). Se Morsi farà o meno un uso moderato e transitorio, come ha più volte promesso, di questa enorme autorità saranno i prossimi mesi a dirlo, ed è questo l’interrogativo che pesa oggi sul capo di quei tanti egiziani –  a partire da coloro che appartengono alla minoranza cristiana – che temono il rischio di un’eventuale islamizzazione della società ad opera della Fratellanza e del suo braccio politico, il partito Libertà e Giustizia.

L’asso pigliatutto

È del tutto verosimile che la mossa estiva di Morsi sia stata comunque concordata con i vertici delle forze armate. Non si spiegherebbe altrimenti l’atteggiamento conciliante con cui l’esercito egiziano ha accolto la notizia della rimozione di Tantawi e di Anan, il cui allontanamento dalla stanza dei bottoni è stato presentato come un «pensionamento» ed accompagnato dal conferimento ai due alti ufficiali del titolo di consulenti presidenziali e di varie onorificenze. I nomi dei successori evidenziano oltretutto una sostanziale volontà di continuità nella gestione del potenziale repressivo dello Stato egiziano. Sia il nuovo presidente dello Scaf, Abdel-Fatah el-Sissi, sia il nuovo capo di stato maggiore, Sidqi Sobhi Sayed, erano già membri del Consiglio Supremo, e dunque corresponsabili delle violenze più volte esercitate sui manifestanti anche dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011. El-Sissi, in particolare, è stato fra coloro che hanno difeso a spada tratta il ricorso, nel marzo dello scorso anno, al «test della verginità» nei confronti delle manifestanti donne, di fatto una forma di violenza sessuale perpetrata nelle caserme.

Vero è anche che Morsi ha scelto abilmente il momento in cui passare all’azione: la decisione è stata presa il 12 agosto, sei giorni dopo l’uccisione di sedici poliziotti egiziani presso un posto di frontiera del Sinai settentrionale, al confine con Israele, da parte di un gruppo di miliziani determinati a penetrare nel territorio dello Stato ebraico. L’episodio aveva gettato un certo discredito sull’efficienza operativa delle forze armate egiziane nel prevenire attacchi di questo tipo, la cui frequenza è andata aumentando nei mesi successivi al rovesciamento di Mubarak, e il presidente egiziano ne ha tempestivamente approfittato. La dichiarazione costituzionale emanata lo scorso 17 giugno da Tantawi, che rendeva di fatto Morsi un presidente sotto tutela dei militari, è stata quindi sostituita da un decreto che restituisce al primo cittadino il titolo di capo delle forze armate e gli conferisce la facoltà di nominare il ministro della Difesa (scippatagli dall’addendum costituzionale in favore dei vertici dell’esercito). Elemento ancora più importante, il potere legislativo, che i militari avevano avocato a sé, sarà ora, provvisoriamente e fino all’elezione di un nuovo parlamento, nelle mani dello stesso Morsi, che avrà anche la supervisione del processo di stesura della nuova Carta fondamentale del Paese da parte dell’assemblea costituente. Qualora quest’ultima, i cui lavori dovrebbero terminare ai primi di settembre, non riuscisse a trovare l’accordo su una serie di punti controversi, il presidente avrà la facoltà di scioglierla e di sostituirla con una nuova assise.

Ci eravamo tanto odiati

L’ipotesi più probabile è dunque che i militari si siano resi conto, già nelle giornate di giugno in cui cominciava a profilarsi una possibile vittoria di Morsi, della necessità di un compromesso con gli ikhwan, i quali rimangono di fatto l’unica entità politica del Paese con una base e un’organizzazione di massa. Ad una conclusione simile sono senz’altro giunti, dal canto loro, anche quelli che erano stati i partner strategici dell’Egitto di Sadat e Mubarak: Usa e Israele. La Fratellanza è del resto espressione di un settore della borghesia egiziana, e il loro programma elettorale, il Progetto di Rinascita, evidenzia una stretta osservanza liberista, incentrato com’è sull’idea di creare una rete di piccole e medie imprese e di attrarre grandi capitali esteri creando un clima favorevole agli investimenti. Gli ultimi mesi sono stati di fatto segnati dalla calorosa accoglienza tributata dai vertici del Paese al segretario di Stato Usa Hillary Clinton (la quale, durante la sua visita ufficiale svoltasi in luglio, ha invitato esplicitamente e pubblicamente i militari a farsi da parte e ha incassato l’impegno dell’Egitto a rispettare tutti i trattati internazionali sottoscritti negli anni precedenti, incluso quello favorevole a Israele), dall’istituzione di un «osservatorio sugli scioperi» volto a monitorare e a reprimere la conflittualità sociale e dalla richiesta formale, avanzata da Morsi al direttore del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde, di un prestito di 3,8 miliardi di euro. Tutti episodi che hanno alimentato l’ostilità verso la Fratellanza dei giovani rivoluzionari e dell’ancora debole e frammentata sinistra egiziana.

Col fiato sospeso

Uno dei fronti decisivi per valutare le reali intenzioni dei Fratelli Musulmani è senza dubbio quello della tutela delle minoranze religiose, a partire da quella cristiana (che comprende circa il 10% della popolazione). Fra i nodi che i membri dell’assemblea costituente sono chiamati a sciogliere assume particolare importanza quello del ruolo della sharia, la legge religiosa islamica, come fonte di ispirazione per la giurisprudenza del futuro Stato egiziano. I conflitti fra il blocco islamista (che comprende anche i partiti fondamentalisti di ispirazione salafita) e quello «secolarista» hanno già determinato nei mesi scorsi lo stallo e lo scioglimento di una prima assemblea costituente, poi sostituita da quella in carica. Sul destino di quest’ultima, come si è detto, sarà Morsi ad avere l’ultima parola, in virtù del decreto che egli stesso ha varato in sostituzione della dichiarazione costituzionale. Per dimostrare le sue buone intenzioni, il presidente ha recentemente aperto le porte del suo ufficio di presidenza ad una donna, la professoressa di scienze politiche Pakinam El-Sharkawy, e a un intellettuale cristiano, Samir Marcus. I due non sembrano al momento avere un ruolo più che consultivo, e va comunque notato che a loro è stato affiancato anche Emad Abdel-Ghafour, il leader del «Partito della Luce» salafita (Al-Nour). Per ora, ad ogni modo, tanto all’interno delle gerarchie delle diverse Chiese (oltre a quella copta ortodossa vi sono anche le sette Chiese in comunione con Roma) quanto nel mondo della cultura e dell’informazione di matrice cristiana tende a prevalere un certo attendismo venato di ottimismo. Padre Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, ha salutato ad esempio come «positive» le dimissioni del generale Tantawi, mentre Youssef Sidhom, caporedattore del settimanale cristiano Watani, pur ammettendo che fra i cristiani esiste una certa preoccupazione in relazione alla quantità di potere che Morsi ha accumulato nella sua persona, ha parlato di una situazione tuttora piuttosto sfumata. «Dare ad un presidente civile i pieni poteri», ha sostenuto Sidhom «ha significato porre un rimedio ad una situazione anomala. È stato un passo verso la democrazia». Se la storia gli darà ragione, è ancora presto per dirlo.

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