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Concilio: il balzo in avanti mancato

Tratto da: Adista Notizie n° 32 del 15/09/2012

Sulla scia dell’interpretazione del Concilio Vaticano II avanzata da Benedetto XVI nel celebre discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 («due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti»: la prima è «l’ermeneutica della discontinuità e della rottura», la seconda è «l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità»), il dibattito su quell’evento è stato egemonizzato dallo scontro tra ermeneutica della rottura e della continuità. Ci si può tuttavia chiedere se queste categorie siano legate più alle prospettive di politica ecclesiastica di quanti le sostengono che alla volontà di restituire l’effettivo significato storico di quanto allora è successo. Da parte vaticana i ripetuti tentativi di giungere ad un accordo con la Fraternità sacerdotale San Pio X, che, erede di mons. Lefebvre, si è attestata su intransigenti posizioni anticonciliari, lasciano abbastanza nitidamente intendere l’uso politico del richiamo alla continuità. D’altro canto in alcuni ambienti “progressisti” la rivendicazione della “svolta epocale” rappresentata dall’assise ecumenica ha costituito la via con cui si è cercato di legittimare un riformismo ecclesiale, più o meno radicale, ma assai poco presente nella lettera dei documenti allora approvati (non a caso il richiamo allo “spirito del Concilio” diventa qui la chiave per attribuire all’assemblea quel che nelle sue determinazioni ufficiali è difficile rinvenire).

A mezzo secolo dal Vaticano II l’analisi di quella vicenda può ormai essere sottratta dalle valutazioni che hanno la loro radice in scelte politiche, estranee ad uno spassionato interesse per la sua precisa conoscenza storica. Ovviamente lo sfruttamento attualizzante del Concilio è in certa misura inevitabile: si tratta però di tenere distinti i piani (propagandistico/polemico/apologetico o critico-scientifico) su cui si intende collocare il discorso. Non è possibile in uno spazio ristretto presentare un’approssimazione a quell’accadimento che risponda ai rigorosi canoni della storiografia. Si può tuttavia cercare di definire alcune ipotesi interpretative attorno a cui lavorare per verificarne la fondatezza e meglio articolarne la portata conoscitiva.

Un primo elemento riguarda la ragione generale che spinse Giovanni XXIII a convocare il Concilio ed i padri ad intervenirvi con intensa partecipazione. Come emerge da diverse indicazioni, si trattava di aggiornare le posizioni della Chiesa. Diffusa era la percezione che gli schemi di giudizio e d’intervento elaborati a partire dalla Controriforma, in particolare dopo la Rivoluzione francese, e via via messi a punto in un serrato confronto con il divenire del mondo moderno, fossero ormai inadeguati per assicurare alla Chiesa un’efficace presenza tra gli uomini. Imperniati sulla contrapposizione ai principi della modernità e sull’utilizzazione di tutti i suoi strumenti in vista di ricostruire una società cristiana, in cui al papato spettava definire gli istituti fondamentali della comunità ecclesiale e della vita civile, quegli orientamenti, soprattutto quelli ereditati dall’intransigentismo ottocentesco, apparivano ormai inadatti ad un’azione pastorale che, secondo il mandato apostolico ricevuto dal fondatore, doveva assicurare all’istituzione ecclesiastica una proiezione universale. In effetti, sul piano quantitativo, il cattolicesimo mostrava a livello planetario una stasi ed anche, almeno in certe aree, un arretramento: per ritrovare capacità di proselitismo e di espansione occorreva dunque una rivisitazione delle posizioni tradizionali. Solo un opportuno adeguamento della sua proposta all’uomo contemporaneo poteva mettere la Chiesa in grado di compiere quel “balzo in avanti” che nuovamente l’avrebbe resa protagonista di un decorso della storia che lentamente, ma inesorabilmente, sembrava emarginarla.

Un secondo aspetto concerne le dinamiche che, nella realizzazione di questo programma, attraversarono l’insieme degli oltre duemila padri convenuti a Roma da tutti i continenti. Furono molteplici: dallo scontro tra assemblea e Curia per la direzione dei dibattiti conciliari, ai complessi rapporti tra portatori di istanze particolari, geo-politiche come religiose, e fautori di prospettive generali; dalla dialettica tra esigenze di governo dell’assise ecumenica e istanze dei vari gruppi di pressione che si erano aggregati in aula ai conflitti sulle modalità di utilizzazione degli agenti esterni, in primo luogo i mezzi di comunicazione di massa, che potevano, e talora volevano, condizionare l’andamento dei lavori. Ma un dato sembra ben presto sovrapporsi a tali polarità: la frattura tra quanti (la maggioranza dei padri, pur divisa su singoli temi) ritenevano che occorresse superare l’eredità dell’intransigentismo otto-novecentesco sui vari argomenti in discussione – la liturgia, la concezione della Chiesa, il ruolo della Bibbia, il rapporto con le altre religioni, le relazioni con la società contemporanea, la funzione dei sacerdoti e dei laici, ecc. – e quanti (una minoranza, la cui consistenza variava a seconda delle questioni) reputavano invece che tale eredità potesse essere rivista, ma solo per renderla appetibile all’uomo moderno, quindi senza metterne in questione i fondamenti portanti.

Su questa discriminante si innesta un terzo e decisivo fattore: la volontà di Paolo VI di condurre i dibattiti assembleari, spesso farraginosi, confusi e ripetitivi, ad un esito positivo. A tale scopo occorreva certo sventare le manovre dilatorie e ostruzionistiche dei settori conservatori che puntavano al rinvio o alla sospensione dell’assemblea; ma era anche necessario giungere ad un compromesso: la votazione di documenti che raccogliessero, se non l’unanimità, la più larga maggioranza possibile. In quest’ottica si capiscono le numerose mediazioni, promosse dal pontefice, che permisero l’inserimento negli schemi in discussione di rivendicazioni, suggerimenti, indicazioni provenienti dalla minoranza. Si potrebbero enumerare i casi in cui – in particolare sulle questioni più controverse, ad esempio la dichiarazione sulla libertà religiosa – l’intervento papale, pur salvaguardando un impianto complessivo del testo volto all’aggiornamento, conducesse all’accoglimento di precisazioni e distinzioni sostenute dai settori preoccupati del cambiamento. Quando poi – è il caso, ad esempio, della Nota explicativa praevia alla costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium, con cui si riservava al papa la facoltà di scegliere se ricorrere o meno alla collegialità nel governo della Chiesa universale, svuotando di fatto la deliberazione assembleare – l’operazione non sembrava sufficiente, fu lo stesso pontefice a sovrapporre una sua personale dichiarazione allo schema votato in assemblea, per consentirne una lettura accettabile a coloro che si erano autoproclamati guardiani della tradizione.

Possiamo così identificare nel segno dell’ambivalenza il carattere generale dell’insieme delle costituzioni (quattro), decreti (nove) e dichiarazioni (tre) che nel dicembre 1965 venivano approvate dall’assemblea e promulgate dal papa. È senza dubbio vero che l’orientamento complessivo di tali testi era indirizzato verso l’aggiornamento, ma solo in alcuni punti un reale superamento della tradizione intransigente era stato raggiunto e molto spesso, proprio su questi punti, alle proposizioni che portavano verso un abbandono di quella eredità, venivano giustapposte frasi che per contro ne costituivano una conferma. Era dunque evidente che sarebbe spettato a chi deteneva le redini del governo della Chiesa determinare l’indirizzo che avrebbe assunto la concreta applicazione di deliberazioni conciliari che non apparivano univoche. Paolo VI assunse la prospettiva della “innovazione” contrapposta a quella della “riforma”, vale a dire lesse nel Concilio una complessiva intenzione di ringiovanimento della Chiesa che non ne mutava le strutture di fondo, ma si volgeva ad un cambiamento «morale, personale, interiore» dei credenti.

Alla luce di queste considerazioni si può concludere che inseguire la dialettica tra ermeneutica della continuità ed ermeneutica della rottura appare fuorviante: entrambi gli elementi sono presenti negli stessi documenti conciliari, in cui il pur prevalente accento sul rinnovamento è comunque controbilanciato da richiami alla persistenza di formulazioni del passato. Appare inoltre svuotato il paradigma storiografico proposto dai tradizionalisti che, ricevendo sempre maggiori e autorevoli consensi, attribuiscono al Vaticano II l’approfondirsi di una catastrofica crisi ecclesiale. Il Concilio era stato chiamato ad affrontare carenze e ritardi con un aggiornamento che, proprio grazie alle resistenze conservatrici, non venne compiutamente portato a termine: le ragioni del mancato “balzo in avanti” si possono individuare proprio nell’aver mancato la svolta necessaria per conseguire tale obiettivo.

Daniele Menozzi insegna Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato diversi saggi sul rapporto tra cattolicesimo e società in età contemporanea, tra cui Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti (Il Mulino, 2008) e Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni (Il Mulino, 2012).

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