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IL VOLTO INDIO DI DIO

Tratto da: Adista Documenti n° 35 del 06/10/2012

(…) EL CAMINANTE

Don Samuel Ruiz García venne definito da molti come “el caminante”, “il viandante”, per l'instancabile assolvimento dei compiti che l'incarico gli richiedeva, affrontati sempre con fede, speranza e grande sabiduria, condite spesso, anche nei momenti più critici, con un humor sdrammatizzante.

Samuel Ruiz. El caminante è anche il titolo di un libro del suo miglior biografo, Carlos Fazio, il quale, pur non condividendone la fede, era un suo grande ammiratore, perché, come scrisse nel suo necrologio, «don Samuel ci insegnò il cammino dell'accompagnamento degli indigeni del Chiapas e del popolo povero del Messico».

Scrive Fazio: «Figlio di immigrati clandestini negli Stati Uniti, venne ordinato sacerdote a Roma, nel 1949. Dieci anni dopo, Giovanni XXIII lo nominò vescovo di San Cristóbal. Aveva appena 35 anni. Era stato educato per essere un vescovo tradizionale, di potere. Ma, iniziando a poco a poco a percorrere la diocesi, quella realtà di miseria e di privazioni lo percosse. Erano tempi in cui si praticava un indigenismo paternalista, nel quale l'indio era oggetto dell'azione pastorale. Grazie al Concilio Vaticano II, cominciò ad intuire che quello non era il suo cammino di pastore. Fu il suo percorrere i sentieri reali della selva Lacandona che lo incamminò alla propria conversione. Non poté restare indifferente di fronte a tanta oppressione, miseria, fame, discriminazione e morte».

Continua Fazio: «Nell'ultimo terzo del XX secolo il Chiapas era un baluardo di possidenti terrieri, commercianti di legname e produttori di caffè, in una realtà di “peones acasillados” (i lavoratori rurali che vivevano tutto l’anno nel territorio della hacienda, ndr) come ai tempi della colonia. Per un certo tempo don Samuel fu un vescovo simile a un pesce: passò con gli occhi aperti in mezzo all'oppressione senza vederla. Finché scoprì l'indio emarginato. […] In realtà, come raccontava spesso, a convertirlo furono gli indigeni. Da allora visse la conversione come un continuum, convertendosi continuamente nel corso di 40 anni. Non fu un cammino facile. Dovette lasciare indietro inerzie, onori, comodità. Nessuno opta per gli indigeni senza convertirsi agli indigeni, quelli che fra Bartolomé de Las Casas definiva i Cristi maltrattati. Don Samuel fu un vescovo con le porte aperte. Ma non fu mai un vescovo seduto. Al contrario, fu e continuerà a essere, per coloro che lo conobbero, un pastore in cammino. Lo chiamavano El Caminante. Infatti gli indios del Chiapas lo videro giungere nei loro villaggi, instancabile, sul suo cavallo Sette Leghe o a dorso di mulo, in jeep o più semplicemente a piedi».

Fin qui Carlos Fazio. Nell'annuario diocesano risultano più di 4mila le visite pastorali da lui effettuate. La metafora del pesce che dorme a occhi aperti ma senza vedere è dello stesso don Samuel, come suo è il racconto della sua prima predica nella cattedrale di San Cristóbal, imperniata sul pericolo comunista - era l'anno del trionfo castrista a Cuba -, episodio che avrebbe ricordato sorridendo. (…).

UNA SCELTA DI CAMPO RADICALE

Ruiz ricordava spesso: «La domanda che Dio ci farà alla fine della nostra esistenza sarà: da quale parte siamo stati? Chi abbiamo difeso? Quali abbiamo scelto? Domande che nessuno, neppure i potenti, potranno eludere alla fine della loro vita».

Ma la conversione non fu solo di carattere etico, di scelta di campo. Essa comportò anche un profondo cambiamento culturale. Un altro suo biografo, John Womak jr., scrive: «Mentre organizzava la nuova azione pastorale per gli indigeni, il vescovo Ruiz a volte si domandava se in realtà fosse consapevole di ciò che stava facendo. Sostenne un angoscioso dialogo nel corso di un incontro di vescovi missionari, a Melgar, in Colombia».

Il dialogo cui Womack si riferisce fu quello con l'antropologo Dolmatoff, così descritto dallo stesso Ruiz: «Mi alzai e domandai all'antropologo: “Nelle culture indigene che lei conosce vi sono cose secondarie ed elementi primari. La religione è qualcosa di secondario o di fondamentale?”. Dolmatoff mi rispose: “In tutte le culture indigene che io conosco, la religione è un elemento assolutamente agglutinante per tutti i fattori culturali”. Mi sentii pieno di disperazione e con una gran quantità di domande nella testa. Mi assalì un dubbio terribile: cosa significava quindi evangelizzare? Distruggere culture? Dovevo sedermi a contemplare le culture e far sì che rivivessero nel loro splendore pre-colombiano? Perché Dio aveva permesso l'esistenza di tante culture? Aveva fatto sì che esistessero per essere distrutte? Egli stesso si era fatto uomo abbracciando una cultura determinata, arrivando perfino a parlare con il dialetto dei nazareni della regione di Galilea». 

Ancora più intrigante fu la riflessione che, in seguito a questo dialogo, Samuel Ruiz propose a una commissione di sabios indigeni della sua diocesi per conoscere il loro giudizio sull'operato della Chiesa nelle loro comunità. Analfabeti e parlanti solo la lingua tzeltal, essi, dopo qualche tempo, tornarono non con la risposta attesa ma con tre domande da porre al vescovo:

Il Dio del vescovo poteva salvare solo le anime o anche i corpi?

La parola di Dio è come una semente che può essere trovata dovunque, ed è un seme di salvezza. Non è possibile pensare che queste sementi si incontrino là dove viviamo, sulle montagne o nelle foreste?

Voi avete vissuto con noi e condiviso le nostre vite. Noi vi consideriamo nostri fratelli e nostre sorelle. Avete voi il desiderio di essere nostri fratelli e sorelle per sempre?

Nominato nel 1968 responsabile della pastorale indigena dal CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, egli mostrò nell'incarico notevoli doti di organizzatore. Rientrato a San Cristóbal, delegò a un collaboratore il suo incarico per quanto riguardava la città e si immerse totalmente nella vita del mondo indigeno delle cañadas, le impervie vallate della regione di Ocosingo. Fu qui che prese forma la pastorale india.

IL POTERE COME SERVIZIO

(…) Pablo Romo, che fu uno dei suoi più stretti collaboratori, così ha scritto di lui: «(…). Don Samuel non lavorava solo, creava costantemente gruppi di lavoro, sempre consultava e chiedeva opinioni, faceva sì che tutti prendessimo parte alle decisioni. Generava sempre consenso, tesseva decisioni collettive. Non so se era un suo carisma o se lo aveva imparato dal mondo indigeno [dove] le decisioni si prendono per consenso e si possono impiegare giorni interi prima di arrivare a un accordo. (…). Ora lo vedo con più chiarezza. Don Sam fu un grande tessitore, un grande costruttore di ponti e di consensi (…)».

In realtà l'insegnamento veniva dagli indios. In Chiapas, ha scritto don Sam, «ho imparato tante cose. A fare domande anziché distribuire risposte. A capire, prima di spiegare. Piano piano la mia cultura è penetrata nella cultura maya. I principi della dottrina restano saldi, ma il modo di leggere il Vangelo ha trovato intonazioni diverse. Siamo cresciuti assieme».

Così modificò la struttura classica delle parrocchie, in una diocesi con centinaia di comunità disperse in un territorio enorme, certo in numero assai superiore a quello dei sacerdoti di cui la diocesi disponeva. Pablo Romo ad esempio doveva seguirne alcune decine. (…).

La vita della diocesi venne organizzata secondo modelli orizzontali di lavoro, come racconta Pablo: «Formò sette gruppi di lavoro a livello diocesano [...] che si convertirono negli anni '70 in un nuovo modello ecclesiologico, consentendo l'assunzione di decisioni in maniera più orizzontale; [...] l'autorità era condivisa non solo congiuntamente ma anche secondo situazioni di genere, poiché la maggior parte degli agenti pastorali erano donne, sia religiose che laiche».

Così nacque e si sviluppò il III Sinodo diocesano convocato nel 1995 e conclusosi nel 1999: un processo di costruzione di una Chiesa autoctona, liberatrice, evangelizzatrice, animata da uno spirito di servizio, in comunione e sotto la guida dello Spirito. Sono, questi, i sei tratti distintivi della Chiesa chapaneca fissati dal III Sinodo Diocesano, sullo sfondo delle grandi opzioni pastorali della diocesi: la creazione, nello spirito della collegialità conciliare, di strutture di comunione più vicine allo spirito evangelico; l'accompagnamento pastorale integrale al popolo di Dio nella concretezza della sua realtà terrena; la ricerca del dialogo e della riconciliazione come unico cammino per risolvere i conflitti. E, naturalmente, l'opzione per i poveri.

UN MODELLO DI CHIESA

Nella lettera indirizzata nel 2000 da Ruiz al card. Medina, il quale stava concludendo il giudizio vaticano sulla sua nomina di diaconi permanenti sposati, scrive: «Quando arrivammo, quarant'anni fa, nella diocesi del Chiapas, che comprendeva la diocesi di Tuxtla Gutierrez e l'attuale di San Cristóbal, avevamo tredici sacerdoti in una situazione di estremo isolamento, duro lavoro, mancanza di comunicazione, insicurezza e ristrettezze economiche. C'era una dimensione di povertà accettata e vissuta da parte dei sacerdoti, che, grazie a Dio, continua anche oggi. Queste condizioni sono state benedette da Dio attraverso una grande quantità di catechisti e di altri ministeri laicali». 

Quando, giunto ai 75 anni di età, lasciò la diocesi (le sue dimissioni furono prontamente accolte), vi erano 84 sacerdoti, 800 diaconi in gran parte sposati e 8mila catechisti per 50 parrocchie e 1 milione e mezzo di abitanti. Ma il problema per Ruiz non era solo quantitativo bensì di modello di Chiesa da realizzare. Con umiltà aveva chiarito a se stesso il senso profondo del sacerdozio e del modo di esercitarlo, ancorandolo alla tradizione biblica. Nella stessa lettera scrive ancora: «Se vogliamo parlare con precisione e rigore, dopo 500 anni non ci sono sacerdoti indigeni; ci sono indigeni che sono stati ordinati come sacerdoti, ma che nel processo della loro formazione hanno subito l'imposizione di una “cultura estranea” con conseguente crisi di identità».

Nel commiato, traccia così il bilancio del proprio lavoro: «Al termine dei miei 75 anni di vita e dei 40 di ministero episcopale in questa diocesi di San Cristóbal de las Casas, mi resta la profonda soddisfazione che questo lavoro non sia stato isolato, ma sia stato svolto nello spirito del Concilio, in conformità con ciò che si fa in tutto il Continente. Così, la riflessione che la teologia degli indigeni ha condotto, dai versanti delle differenti confessioni, sulla fede precolombiana o sulla fede cristiana a partire dalle loro culture, ci fa capire l'ansia e l'opportunità attuali di dare una risposta a questa situazione che riguarda tutto il Continente. (…). Vi è l'impressione che il sacerdozio cattolico non abbia seguito la linea del sacerdozio suggerita da Melchisedec, anteriore al sacerdozio levitico. Alle origini il sacerdozio cristiano non si esercitò nel tempio di Gerusalemme. L'Eucarestia si celebrò, come ricorda Paolo, in casa dei “discepoli del nuovo cammino”. Crediamo che l'incarnazione della Chiesa nelle culture indigene ci consoliderà nella sequela del sacerdozio vissuto da Gesù Cristo: secondo l'ordine di Melchisedec».

LA PASTORALE INDIA

Il tema della pastorale india è stato affrontato da don Samuel in una lunga intervista concessa a una studiosa delle religioni mesoamericane, Sylvia Marcos.

Il termine “teologia india”, dice Ruiz, «non è del tutto soddisfacente perché non parliamo esattamente di teologia nel senso occidentale. Nel colloquio di Cochabamba (1997), gli indigeni hanno preferito parlare di sabiduria piuttosto che di teologia india. Però questa sabiduria india per un certo tempo venne chiamata teologia perché è una riflessione sulla fede, sia sulla fede ereditata dall'epoca pre-colombiana che su quella cristiana. Da un punto di vista culturale essa ha alcune caratteristiche che non appartengono alla teologia occidentale».

E prosegue: «La teologia india è una teologia comunitaria. Non vi sono teologi rilevanti nell'ambito della teologia o, meglio, della sabiduria, perché questa è una riflessione dell'intera comunità. Certamente in questi tempi di dialogo necessario fra le culture indigene (ancorate a una tradizione precolombiana) e la religione cristiana, è necessaria una sistematizzazione. La si sta tentando, ma non deve essere la spina dorsale della teologia india».

«La sabiduria india si è mossa finora in termini transecumenici o interreligiosi. Da un lato è una riflessione sulla religione precolombiana e dall'altro aspira anche ad essere una teologia o riflessione cristiana che consiste nel guardare al messaggio cristiano dal versante della propria cultura. Credo che non si sia tenuto in sufficiente considerazione il fatto che vi è una presenza salvifica di Dio in tutte le religioni e quindi anche in quelle precolombiane».

Dopo un approfondimento di queste affermazioni (…), Ruiz  afferma: «Tutto questo è ciò che viene chiamato il “movimento” della teologia india. Pertanto, esso è molteplice, e presenta una gamma assai ampia. Non è solamente teologia cattolica bensì cristiana, e anche interreligiosa».

Il movimento oggi «inizia un dialogo che non ha mai avuto luogo nei 500 anni dalla prima evangelizzazione, la quale, per comunicare l'Evangelo, impose un'altra cultura su quella indigena. Non vi fu reciprocità di ascolto. Questo dialogo non ci fu perché si scontrava con un presupposto teologico che di fatto negava ciò che era culturalmente differente [...]. Questo grave errore comincia a essere corretto solo oggi, dopo il Concilio Vaticano II. [...] Dio si rivela in modo tale che il cammino intrapreso da ogni popolo trova un punto di incontro nell’invito diretto da Dio a tutti i popoli per costruire un popolo di popoli, che è il nuovo popolo di Dio, costituito dalla traiettoria salvifica e dalla rivelazione di Dio alle diverse culture e arricchito da tutte le esperienze dei popoli particolari. L'Evangelo e l'esperienza cristiana portano a maturazione la rivelazione antecedente presente in queste culture. Ma non viene annunciato un Dio differente. È lo stesso Dio conosciuto in modo diverso quello che si annuncia posteriormente con maggiore chiarezza».

L'intervista è molto lunga e non è possibile qui soffermarcisi oltre. Ci limitiamo a rilevare la differenza fra “teologia india” e “teologia della liberazione”, della quale essa è spesso considerata, erroneamente, una branca. Errore nel quale cadde lo stesso Giovanni Paolo II, il quale, in un’intervista in occasione di un suo viaggio in Messico, le assimilò affermando che entrambe erano una aberrazione del marxismo. Nella teologia della liberazione, precisa Ruiz, «la priorità è per noi la liberazione, più che la teologia». Teologia india e teologia della liberazione «richiamano due momenti storici diversi [...]. L'importante è sapere che vi sono teologi della liberazione che oggi riflettono a partire dalla teologia india, il che non vuol dire che esse siano la stessa cosa. [...] Se la teologia non è liberazione, essa non è teologia».

L'IMPEGNO CIVILE

La notte del primo gennaio del 1994 migliaia di indigeni appartenenti all'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, col volto coperto da un passamontagna, occuparono 6 capoluoghi municipali del Chiapas, fra cui San Cristóbal. «Abbiamo il volto coperto affinché ci vediate», dissero, «dato che in tutti questi anni ci avete reso invisibili». (…). La reazione governativa fu violenta e scomposta, con bombardamenti di villaggi e scontri armati in vari luoghi. Una grande protesta popolare, in Messico e nel mondo, impose però un rapido armistizio e l'inizio di trattative di pace fra insorti e governo. Occorreva però trovare il mediatore e il luogo.

Indicato dagli insorti e da molte organizzazioni della società civile, Samuel Ruiz fu nominato presidente della Conai, la Commissione Nazionale di Intermediazione, e la chiesa cattedrale divenne il luogo dei difficili colloqui, nella cui complessa vicenda non possiamo entrare. Ruiz ricorda: «Feci sapere pubblicamente che questa funzione di intermediazione che mi si richiedeva non prescindeva in alcun modo dalla mia opzione evangelica per i poveri e gli indigeni. Nonostante ciò, entrambe le parti accettarono una mia mediazione così caratterizzata».

L'opera del mediatore, «imparziale ma non neutrale», fu lunga e difficile. (…). Di fronte alla chiara volontà del governo di non giungere a una soluzione, nel giugno del '98 Ruiz, in un duro comunicato, denunciò l'impossibilità di proseguire nell'incarico a causa della mancanza di volontà di una delle parti.

Ruiz era stato accusato di avere fomentato e addirittura diretto la rivolta (il “comandante Sam” veniva chiamato), la quale aveva certo trovato terreno fertile nel grande lavoro sociale realizzato dalla diocesi nelle cañadas di Ocosingo, dove l'Esercito Zapatista, in gestazione clandestina fin dal 1983, aveva reclutato molti suoi quadri fra gli stessi catechisti della chiesa locale.

Gli avversari di Ruiz lo sfidavano con due domande cruciali: aveva saputo dell'insurrezione che già prima del 1994 si stava preparando? E, se lo aveva saputo, perché aveva taciuto?

Ruiz affronta con franchezza queste domande nell'ultimo capitolo del suo libro Mi trabajo pastoral en la Diócesis de San Cristóbal de Las Casas. Principios Teológicos (1999) (…): «Chi trascorre gran parte del proprio tempo in mezzo al popolo che in maniera filiale gli apre il proprio cuore, è naturale che sappia che cosa questo popolo ha intenzione di fare. Sarebbe stato immensamente grave, dal punto di vista pastorale e della responsabilità episcopale, che il vescovo non sapesse alcunché, perché ciò avrebbe significato che egli aveva abbandonato il suo gregge. Ho sentito, con tutta l'etica evangelica necessaria in un caso come questo, che il vescovo è un pastore e non un delatore; e che, in ogni caso, durante più di 16 anni, noi vescovi (del Chiapas, nda) avevamo segnalato […] anche in conversazioni con le più alte autorità, che, nella regione, […] “si dovevano mettere in atto soluzioni audaci, profondamente innovatrici… intraprendere senza ulteriori attese riforme urgenti…”». (…).

CONCLUSIONE

Concludiamo questo che è solo un breve flash sull'opera multiforme di don Samuel, ricorrendo di nuovo a Carlos Fazio, osservatore esterno, e a Pablo Romo, suo intimo collaboratore.

Il primo, nel necrologio sul quotidiano La Jornada, ha scritto: «(…) Uomo di frontiera e di accompagnamento, si trasformò in leader senza esserselo proposto, con un patrimonio morale enorme, essendosi schierato sulla frontiera fra la vita e la morte. Oltre a questo, il fatto di essersi impegnato a comprendere le lingue tzeltal, tzotzil e un po’ anche il chol e il tojolabal, le quattro lingue indigene predominanti nella sua diocesi, mostra quale fu il suo atteggiamento pastorale: non dall'alto e dal fuori, ma dal dentro e alla pari».

Il secondo ha scritto: «Poche volte don Samuel faceva parte del gruppo di coordinamento delle Assemblee, che erano quasi sempre condotte da rappresentanti dei 7 gruppi che preparavano l'agenda e lo svolgimento. Don Samuel si sedeva con umiltà incredibile fra le seggiole degli altri e delle altre per ascoltare e seguire le dinamiche. Perché scrivo questo? Perché penso che coloro che intendono cambiare il mondo debbano sedersi dietro, come don Samuel, e ascoltare, più che essere protagonisti […], ascoltare per poi costruire assieme». Un insegnamento prezioso, tanto più oggi.

Consentitemi un'ultima citazione.

Di fronte allo sbiadito telegramma formale di condoglianze inviato dalla Segreteria di Stato a nome di Benedetto XVI, assume ben altro spessore il cordoglio che espresse l'Esercito Zapatista: «Al di sopra di tutti gli attacchi e le cospirazioni ecclesiali, don Samuel Ruiz García e le/i cristiane e cristiani come lui, hanno avuto, hanno ed avranno un posto speciale nel cuore delle comunità indigene zapatiste. Ora che è di moda condannare tutta la Chiesa cattolica per i crimini, gli eccessi, le commistioni e le omissioni di alcuni dei suoi prelati… Ora che il settore che si autodefinisce "progressista" si sollazza e si fa scherno della Chiesa cattolica tutta… Ora che si incoraggia a vedere in ogni sacerdote un pederasta potenziale o attivo… Ora sarebbe bene tornare a guardare in basso e trovare lì chi, come don Samuel, ha sfidato e sfida il Potere».

Don Samuel stimolava i suoi interlocutori a guardare al di là dei singoli fatti per cogliere i processi in corso e scrutare i segni del tempo. In questo è stato un grande maestro di educazione politica per tutti coloro che, credenti o non credenti, sono impegnati per la liberazione dell'essere umano, impegno cui dedicò la vita.

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