Nessun articolo nel carrello

CONFERENZA ONU SUL CLIMA: PROSEGUE A DOHA LA GUERRA DEGLI UMANI CONTRO IL PIANETA

Tratto da: Adista Notizie n° 46 del 22/12/2012

36969. DOHA-ADISTA. A giudicare dalla lentezza con cui procedono i negoziati internazionali sul cambiamento climatico, sembrerebbe che l’umanità disponga di tutto il tempo del mondo per far fronte al riscaldamento globale. Peccato che tutto, ma proprio tutto, indichi invece che «non c’è tempo da perdere», come sono tornati ad evidenziare, in occasione della 18.ma Conferenza delle parti della Convenzione quadro sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Cop 18), il Consiglio Ecumenico delle Chiese e l’ACT-Alliance (Action by Churches Together, una coalizione di oltre 130 Chiese in tutto il mondo). Stando agli ultimi dati scientifici, infatti, anche l’obiettivo minimo di un aumento della temperatura mondiale entro i due gradi centigradi potrebbe non essere più alla nostra portata, lasciando il posto, per la fine del secolo, ad un incremento, davvero catastrofico, di 4-6 gradi (che si tradurrebbe in un +9 nel Mediterraneo, durante i mesi estivi, secondo uno studio promosso dalla Banca Mondiale). E se già, con l’attuale riscaldamento di 0,8 gradi centigradi, si moltiplicano eventi climatici estremi come siccità, inondazioni e uragani, un aumento superiore ai 3,5 gradi significherebbe, secondo Rajendra Kumar Pachauri, presidente del Ipcc (il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico di cui fanno parte oltre 1.800 scienziati di tutto il mondo), l’estinzione totale di un 40-70% delle specie viventi.

La strategia dei leader: rinviare

Eppure, a Doha - dove, dal 26 novembre al 7 dicembre (con uno slittamento finale di 26 ore), la Cop18 ha avuto luogo nello sconcertante silenzio dei mezzi di comunicazione italiani - un’altra pagina è stata aggiunta, come evidenzia Gerardo Honty, ricercatore del Centro Latinoamericano di Ecologia Sociale (Alai, 8/12), al libro sui «mille e uno modi di rinviare le decisioni urgenti facendo finta di assumere decisioni importanti». E questa nuova pagina è stata scritta, peraltro, in una sede oltremodo simbolica, essendo il Qatar il Paese con le più alte emissioni pro capite del mondo, e, in virtù delle sue riserve di gas e petrolio, uno dei meno interessati a una transizione verso un economia a basso consumo di carbonio (è incoraggiante, tuttavia, che a Doha si sia svolta, con l’inatteso permesso del governo, una storica manifestazione del neonato Movimento Climatico della Gioventà Araba per l’adozione di misure urgenti contro il riscaldamento globale).

Dopo i rinvii decisi lo scorso anno alla Cop17 di Durban – in cui il massimo che si è ottenuto è concordare l’adozione, nel 2015, di un nuovo piano globale riguardo a cosa fare dopo il 2020 –, in Quatar, nel quadro del pacchetto di misure denominato Doha Climate Gateway, si è raggiunto l’accordo su una seconda fase di impegni del Protocollo di Kyoto (ad oggi l’unico accordo internazionale con disposizioni vincolanti per ridurre le emissioni di gas ad effetto serra), ma destituito di ogni efficacia: se il primo periodo di applicazione, che scadrà alla fine del 2012, comprendeva tutti, e solo, i Paesi industrializzati (esclusi gli Usa che non hanno mai ratificato il Protocollo), la seconda fase, che partirà il prossimo 1 gennaio e si prolungherà fino al 2020, cioè fino all’entrata in vigore del nuovo accordo globale, potrà contare sulla sola adesione dell’Unione Europea, della Norvegia, della Svizzera e dell’Australia - che rappresentano, tutti insieme, appena il 15% delle emissioni mondiali - essendosi nel frattempo sfilati Giappone, Canada, Nuova Zelanda e Russia.

Resta escluso da Kyoto, dunque, l’85% delle emissioni mondiali, provenienti in primo luogo dalla Cina, divenuta leader mondiale nella produzione di Co2, e gli Stati Uniti, principale contaminatore storico, insieme responsabili di quasi la metà delle emissioni climalteranti (ma gli Stati Uniti con oltre 17 tonnellate procapite all’anno di Co2 e la Cina con poco più di 7 tonnellate procapite, le stesse dell’Ue). Entrambi impegnati a guidare il triste scaricabarile tra Paesi industrializzati, a cui viene giustamente rinfacciata la responsabilità di aver condotto il pianeta al punto in cui si trova, e potenze emergenti, la cui impetuosa crescita del livello di emissioni rischia oggi di produrre un incontrollato aumento della temperatura mondiale (secondo una ricerca condotta in Gran Bretagna, nel 2011 le emissioni di Cina, India e Brasile sono aumentate, rispettivamente, del 9,9%, del 7,5% e dell’1,4% rispetto al 2010). E il risultato è che secondo i dati presentati a Doha, nel 2012, malgrado il Protocollo di Kyoto e malgrado la crisi globale, le emissioni di Co2 hanno registrato un incremento del 2,6% rispetto al 2011 e addirittura del 58% rispetto ai livelli del 1990.

Scivolando su un piano inclinato

Di certo, se il punto centrale dovrebbe essere, come ha evidenziato Maite Llanos della Cta (Central de Trabajadores de la Argentina; Alai, 22/11), quello di un cambiamento dei modelli di produzione e consumo nel segno della giustizia sociale e ambientale e di un’equa divisione dello spazio atmosferico (in maniera che quanti hanno maggiormente contaminato riducano effettivamente le proprie emissioni a vantaggio di chi deve già sostenere i costi dello sradicamento della povertà, il tutto nel quadro di un aumento limitato a 1.5 gradi), tale punto è mancato a Doha esattamente come nelle conferenze precedenti. E chi pensava che le parole pronunciate dal presidente Barack Obama all’indomani della sua rielezione e ad una settimana dal passaggio devastante dell’urugano Sandy - «Vogliamo che i nostri figli vivano in un Paese che non sia (…) minacciato dal potere distruttivo del riscaldamento globale» - potessero sortire qualche effetto in sede negoziale, ha dovuto rapidamente ricredersi: come ha osservato Greenpeace, gli Stati Uniti restano fuori dal Protocollo e non mostrano «alcun segno di accresciuta consapevolezza». Una condotta tanto più scandalosa se paragonata a quella della piccola e povera Repubblica Dominicana che, sottolinea Greenpeace, «si è impegnata a ridurre del 25% le emissioni di gas serra al 2030 rispetto ai livelli del 1990, unilateralmente e attraverso fondi nazionali».

E se l’Unione Europea si è finora mostrata più disponibile a tagliare le proprie emissioni – ma a Doha molto meno di quanto avrebbe dovuto, rifiutandosi di aggiornare, come denuncia ancora Greenpeace, «il target del 20% di riduzione delle emissioni di gas serra, di fatto quasi già conseguito» – c’è chi, al suo interno, rema decisamente contro: in un’agghiacciante intervista rilasciata il 3 dicembre a Der Spiegel, il consulente economico del governo tedesco Kai Konrad sostiene la necessità di «spiegare bene alla Cina, agli Stati Uniti e ai grandi Paesi in via di sviluppo che la Germania e l’Europa non cercheranno più di salvare il clima da sole. Anziché evitare l’aumento di Co2 ad ogni costo - prosegue -, dobbiamo prepararci al persistere del riscaldamento globale. (…). Tutto ciò che sappiamo suggerisce che l’Europa centrale soffrirà relativamente poco il cambiamento climatico. Berlino avrà appena le temperature che oggi ha Roma. Gli aggiustamenti che dovremo fare sono relativamente facili».

Invano i Paesi poveri, quelli che pagheranno di più pur avendo contaminato (molto) meno - dagli Stati africani che verranno coperti dal deserto alle piccole isole che saranno sommerse dall’oceano -, hanno chiesto, da un lato, interventi più decisi per contenere l’aumento della temperatura entro i due gradi e, dall’altro, aiuti più cospicui a sostegno dei propri sforzi di mitigazione e di adattamento: se sul primo punto, stando agli impegni attuali, si giungerebbe entro il 2020 a tagliare - prendendo a riferimento i livelli del 1990 - non più dell’11-16% delle emissioni a fronte del 25-40% ritenuto necessario, rispetto al secondo punto, quello dei finanziamenti, nulla è ancora dato sapere su chi e su come finanziarà il Fondo verde per il clima stabilito nella Conferenza di Cancun, che prevede fino a 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 a favore delle nazioni più povere (fondi facilmente reperibili attingendo agli oltre 500 miliardi di dollari di incentivi ai combustibili fossili).

E mentre tutto viene rimandato al nuovo piano globale che dovrà essere negoziato a partire dal prossimo anno – tra chi suddividere i tagli alle emissioni, come e con quali risorse aiutare i Paesi poveri, in che modo e con quali mezzi avviare la transizione ad un’economia a basso consumo di carbonio – cresce in particolare l’allarme degli scienziati riguardo al disgelo nella regione artica, molto più rapido di quanto era stato previsto, con l’aggravante del fatto che lo scioglimento dei ghiacci sta già rendendo più accessibili le abbondanti riserve di petrolio, di gas e di minerali preziosi, su cui si stanno affrettando a mettere le mani Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca, ma anche Cina (per quanto non possieda alcun territorio nell’Artico) e diversi altri Paesi: «Stiamo ricevendo un trattamento assai diverso negli ultimi tempi», ha dichiarato il vice-premier della Groenlandia Jens B. Frederirksen a proposito del subitaneo e insistente corteggiamento internazionale, riconducendone la ragione al fatto che «ora abbiamo qualcosa da offrire, non certo perché all’improvviso si è scoperto che la popolazione inuit è simpatica» (O Estado de São Paulo, 23/9). «Invece di occuparsi delle cause dei mutamenti climatici – ha commentato il direttore di Greenpeace Kumi Naidoo – i nostri leader non fanno altro che assistere allo scioglimento dei ghiacci e spartirsi i profitti che ne potrebbero derivare».

Ed è allarme rosso anche riguardo allo scioglimento del permafrost (il suolo perennemente ghiacchiato che copre quasi un quarto dell’emisfero nord), il quale, cedendo, potrebbe liberare fino a 1.700 gigatonnellate di Co2, cioè il doppio della quantità presente attualmente nell'atmosfera, con conseguenze incalcolabili, e irreversibili, sul riscaldamento globale. (claudia fanti)

Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.

Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!

Condividi questo articolo:
  • Chi Siamo

    Adista è un settimanale di informazione indipendente su mondo cattolico e realtà religioso. Ogni settimana pubblica due fascicoli: uno di notizie ed un secondo di documentazione che si alterna ad uno di approfondimento e di riflessione. All'offerta cartacea è affiancato un servizio di informazione quotidiana con il sito Adista.it.

    leggi tutto...

  • Contattaci

  • Seguici

  • Sito conforme a WCAG 2.0 livello A

    Level A conformance,
			     W3C WAI Web Content Accessibility Guidelines 2.0

50 anni e oltre

Adista è... ancora più Adista!

A partire dal 2018 Adista ha implementato la sua informazione online. Da allora, ogni giorno sul nostro sito vengono infatti pubblicate nuove notizie e adista.it è ormai diventato a tutti gli effetti un giornale online con tanti contenuti in più oltre alle notizie, ai documenti, agli approfondimenti presenti nelle edizioni cartacee.

Tutto questo... gratis e totalmente disponibile sia per i lettori della rivista che per i visitatori del sito.