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La festa della Costituzione

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 21 del 08/06/2013

Il 2 giugno 2013 la festa della Repubblica cade in un momento tristissimo per la vita delle istituzioni. Le speranze di un grande cambiamento che ridesse dignità alla politica, riavvicinasse le istituzioni ai cittadini, restituisse valore ai beni pubblici repubblicani, facendo entrare nelle stanze del Palazzo «l’aria pura delle montagne» (come avrebbe detto Calamandrei) generate da quel sussulto di dignità che aveva portato alla caduta del regime berlusconiano, travolto dalla sua stessa putrefazione morale, sono andate infrante nel giro di due mesi.
I risultati delle elezioni del 24 e 25 febbraio scorsi hanno confermato quanto sia prevalente nel popolo italiano la volontà di un forte rinnovamento della politica e delle istituzioni ma nello stesso tempo hanno mandato in frantumi la camicia di forza del bipolarismo che le leggi elettorali avevano cercato di costruire attorno al fortino della governabilità, mettendo a nudo l’irrealizzabilità del progetto di un governo preconfezionato, garantito dai meccanismi maggioritari posti a presidio del più forte.
In questa tornata elettorale, pur avendo il porcellum realizzato alla Camera la massima distorsione possibile fra i voti espressi ed i seggi conferiti alle forze politiche, fino al punto che l’alleanza di centro-sinistra ha ottenuto quasi il doppio dei seggi rispetto ai voti ricevuti, ciò non è stato sufficiente per assicurare alla coalizione vincente la maggioranza in tutte e due le Camere. Sarebbe stato necessario ritornare alla politica, cioè al mestiere che la Costituzione ha assegnato ai rappresentanti del popolo: quello di confrontare in Parlamento i bisogni e le domande politiche provenienti dalla società e trovare una sintesi virtuosa.
Questo processo non è stato possibile perché ha trovato due ostacoli che, pur muovendo da presupposti radicalmente differenti, si sono rivelati convergenti sul medesimo risultato: far fallire il progetto di un governo del cambiamento proposto da Pierluigi Bersani.
La responsabilità di questo fallimento va attribuita in parti uguali al deficit di cultura istituzionale di un movimento che si è trovato proiettato, a furor di popolo, nelle istituzioni ed al gioco politico praticato dal presidente della Repubblica. Napolitano ha ostacolato il difficile tentativo di Bersani di formare un governo coerente con le aspettative di cambiamento manifestate dal popolo italiano, pretendendo numeri certi prima di conferirgli l’incarico e Grillo, dal canto suo, ha partecipato alla partita, negando questi numeri al governo del centro-sinistra.
La volontà di cambiamento espressa in modo nettissimo dal popolo italiano è stata completamente disattesa dal Palazzo, e il capo dello Stato non ha esitato a proporre una soluzione di governo che proiettasse nuovamente nelle istituzioni il cancro del berlusconismo. Ciò è stato favorito dall’esito stupefacente ed autodistruttivo per il centro sinistra delle elezioni presidenziali, che non solo hanno visto il Pd respingere la candidatura prestigiosa di Rodotà, una figura ideale di presidente della Repubblica come garante della Costituzione, ma hanno visto celebrarsi addirittura il “parricidio”, con la bocciatura di Romano Prodi, artefice del progetto di centro sinistra e padre putativo del Pd.
Malgrado le buone intenzioni di Letta, questo governo nasce condizionato da un alleato che introduce un pesante inquinamento nella vita delle istituzioni democratiche ed impedisce ogni forma di rigenerazione dell’asfittica democrazia italiana, poiché, senza pulizia morale, non è possibile alcun rinnovamento della vita pubblica.
Il presidente della Repubblica, in un discorso commemorativo di Gerardo Chiaromonte, l’8 aprile del 2013, ha espresso un forte apprezzamento per quella scelta inedita di solidarietà nazionale che portò il Pci di Berlinguer ad una politica di collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana in un momento di grave crisi della Repubblica. Qualcuno ha inteso trasferire quell’apprezzamento per le coraggiose scelte di Berlinguer e Moro alla politica di larghe intese (fra Pd e Pdl) che Napolitano ha propugnato nei fatti, anche attraverso l’espediente del comitato dei “saggi”.
Senonché, considerare le larghe intese odierne come qualcosa di simile al compromesso storico, è un vero e proprio falso storico ed un assurdo costituzionale. Nel 1976 il Pci e la Dc erano i titolari delle principali culture politiche che avevano originato la Costituzione e sviluppavano la loro azione politica all’interno dell’arco costituzionale. La Costituzione dava legittimazione politica a quell’operazione. Nel 2013 l’alleanza avviene fra una forza politica che si trova all’interno del quadro costituzionale ed una forza politica che, per la sua stessa struttura, oltre che per le ideologie fasciste di cui è portatrice una parte del suo corpo sociale, vede nella Costituzione il suo principale nemico e l’ostacolo da abbattere per realizzare i suoi obiettivi politici.
Se nella gestione politica corrente può essere necessario ricorrere a dei compromessi, quello che è assurdo è la pretesa di legittimare una alleanza fra forze politiche così profondamente differenti, attribuendo a questa coalizione un compito costituente, secondo la missione che i saggi nominati da Napolitano hanno indicato alla politica e che il governo ha fatto propria, preparandosi ad adottare un percorso di riforma costituzionalmente illegale, perché contrario alle regole costituzionali che disciplinano l’esercizio del potere di revisione.
In questo modo il 2 giugno 2013 rischia di trasformarsi da festa della Costituzione in un’occasione per fare la festa alla Costituzione. Proprio ciò che bisogna impedire: il 2 giugno è la festa della Costituzione, che costituisce l’anima della Repubblica. Non permetteremo a nessuno di strapparcela.

* Giudice della Corte di Cassazione

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