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I miei fratelli rom

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 21 del 08/06/2013

La presenza “invisibile” dei rom ha interessato Napoli e il suo hinterland in due ondate: la prima, negli anni ’90, in seguito alla dissoluzione della ex-Jugoslavia, era composta di rifugiati politici privi di documenti di identificazione e ha trovato sistemazioni precarie; la seconda, a partire dal 2000, causata e dalla povertà di alcune zone della Romania e dalle discriminazioni del dopo Ceausescu, ha riguardato cittadini romeni divenuti ormai neo-comunitari.
Attualmente a Napoli esistono sei campi: due a Scampia (uno attrezzato dal Comune e uno non ufficiale) abitati dai cosiddetti “serbi”; uno non ufficiale abitato da romeni, vicino al cimitero; due non ufficiali a Gianturco, abitati da romeni; e uno a Ponticelli. Non è facile una stima quantitativa: il censimento effettuato dal commissario di governo nel giugno 2008 registrava 2.784 persone. Tenendo conto dell’elevata mobilità tra i diversi campi e dei rientri temporanei nei Paesi d’origine, sono senza dubbio più di 3mila.
In mezzo alle difficoltà di regolarizzazione bisogna rilevare che in questi anni si sono succedute due o tre generazioni scolarizzate, che pongono il problema del riconoscimento di cittadinanza per ius soli.
Oltre al Comune di Napoli, si sono attivati nel tempo gruppi e associazioni di ispirazione laica (Il compare, Chi rom... e chi no, Non uno di meno) e cristiana (evangelici, fratelli delle scuole cristiane, Comunità di Sant’Egidio, Ludoteca delle Suore della Provvidenza). A livello più generale il Comitato campano con i rom svolge un’attività di monitoraggio e di promozione dei bisogni e dei diritti delle popolazioni rom, animato da p. Alex Zanotelli.
È possibile entrare in contatto con queste realtà grazie alla comunità dei gesuiti di Scampia, che, attraverso il Centro Hurtado (www.centrohurtado.it), ha iniziato ad ospitare giovani e volontari da tutta Italia, dando la possibilità durante la stagione estiva di conoscere la realtà del quartiere e le associazioni che vi operano, e di fare servizio con i bambini. Domenico Pizzuti, gesuita e sociologo ultra ottantenne, professore emerito di Sociologia alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale, si occupa da anni di rom, animando la rete tra le varie realtà. Con lo sguardo analitico del sociologo, intrecciato alla passione evangelica per la giustizia, p. Pizzuti si prodiga, insieme a p. Zanotelli, in visite nei campi e in battaglie con le istituzioni per la promozione dei diritti e dei percorsi di cittadinanza, accanto alla denuncia sociale ed ecclesiale di assenze e ipocrisie.

P. Pizzuti, come hai incontrato per la prima volta il popolo rom? Come mai sei rimasto così particolarmente legato a loro?
Nella mia prima venuta a Scampia, alla fine del ’95, mi decisi a fare una visita al vicino campo rom detto dei “musulmani”, distante qualche centinaio di metri dalla mia abitazione. Si trattava del più grande campo nomadi non ufficiale di Scampia. Fu varcare una soglia, e scrissi un articolo sull’edizione napoletana di Repubblica dal titolo “Ho trovato la capanna di Betlemme” per la condizione delle abitazioni e della vita dei rom. Sapevo di questo insediamento, ma, fino ad allora, non mi ero deciso a occuparmi di loro, per le condizioni di degrado e invivibilità in cui versavano.

Cosa ha da insegnare questo popolo al nostro stile di vita benestante, alla nostra religiosità, ai nostri rapporti familiari?
Ci insegna a prenderci cura degli ultimi, di coloro che stanno al di là della strada, degli invisibili. Soprattutto delle donne, che con i loro passeggini e nella raccolta dei rifiuti da riciclare sono tuttora una icona delle condizioni del popolo rom. Ci insegna quindi a prenderci cura di tutti loro non solo sotto il profilo assistenziale, ma per il riconoscimento dei loro diritti, per un’integrazione e accoglienza umana da parte di un quartiere e di una  città. Ci insegna a superare una religiosità “di Chiesa”, puramente cultuale e devozionale. Ancora la scorsa settimana, un venerdì dopo la celebrazione della messa, una signora mi avvicina in fondo alla cappella e mi sussurra: «Devono andarsene». Perché, con i loro roghi tossici di rifiuti, disturbano. In fondo perché sono diversi, poveri, disturbano la vista!

Quali scenari trovi più auspicabili per una buona convivenza e integrazione con le popolazioni nomadi nelle nostre città?
Il superamento dei pregiudizi attraverso un avvicinamento simpatetico e una conoscenza della loro storia e cultura. Soprattutto attraverso la scolarizzazione, l’acquisizione della nostra lingua. Insieme al riconoscimento dei diritti secondo la normativa europea e internazionale, ritengo che bisogna fare appello al cuore, alla com-passione non compassionevole. Inoltre, essendo alcune famiglie stabili a Scampia da circa un trentennio, con seconde e terze generazioni, è venuto il tempo di procedere ad un'opportuna legge per il riconoscimento della cittadinanza italiana come per gli extracomunitari. Ma prima ad una loro regolarizzazione con permesso di soggiorno, che per mia esperienza trova ostacoli quando non è richiesto per motivi di lavoro.

Sembra insopportabile che in una situazione di grande disagio come già è Scampia vi sia anche una piaga aperta riguardante i campi rom. Come si è evoluta la situazione in questi anni e quali segnali incoraggianti hai osservato?
Dopo il censimento del 2008 per la cosiddetta “emergenza rom” in alcune città italiane, l'aspetto più incoraggiante è stata la crescente scolarizzazione dei bambini rom e la frequenza dei doposcuola promossi da varie associazioni di ispirazione cristiana e non. Ogni mattina, recandomi alla messa nella nostra Rettoria, incontro madri che, come le altre del quartiere, accompagnano i figli a scuola, e spesso mi chiedono di comprare loro le merendine.

Cosa hai capito in questi anni, cosa hai provato tutte le volte che, da gesuita, da credente sei entrato in un campo rom?
Non so come rispondere a questa domanda, perché è un'obbedienza ad una ispirazione interiore e riguarda una coerenza con l'ispirazione evangelica. Occorre prestare attenzione alle distorsioni di una religione che intrappola e non libera, e camminare verso una fede cristiana liberante e che conferisce fiducia. Cioè, accogliere il grido della “creatura oppressa” nel corpo e nello spirito.

* Studente in Comunicazione interculturale e multimediale e in Scienze Religiose, cura il blog di p. Pizzuti (domenicopizzuti.blogspot.it).

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