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DON PUGLISI BEATO E MARTIRE: NON UN SANTINO, MA UN TESTIMONE DELLA FORZA SOVVERSIVA DEL VANGELO

Tratto da: Adista Notizie n° 22 del 15/06/2013

37198. ROMA-ADISTA. Don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dai killer di Cosa Nostra il 15 settembre 1993, è beato. È stato proclamato “martire” di mafia lo scorso 25 maggio, a Palermo, in una celebrazione presieduta dall’arcivescovo di Palermo, il card. Paolo Romeo, e dal suo predecessore nel capoluogo siciliano, card. Salvatore De Giorgi. È la prima volta che una vittima della mafia diventa martire della Chiesa cattolica. Il percorso che ha portato alla beatificazione di Puglisi è stato accidentato, fino quasi ad arenarsi, come ha raccontato anche il postulatore della causa, l’arcivescovo di Catanzaro mons. Vincenzo Bertolone: vi erano «legittimi dubbi» – poi superati – sulla questione dell’assassinio in odium fidei (in odio alla fede), elemento ritenuto imprescindibile dalla Chiesa per il martirio cristiano (v. Adista Notizie n. 27/12).Del resto si trattava anche di fare i conti con alcune contraddizioni che hanno caratterizzato la storia delle relazioni secolari fra Chiesa cattolica e mafia: quella dei mafiosi che rivendicano pubblicamente la loro fede religiosa e la loro appartenenza alla Chiesa (dalla simbologia del codice mafioso mutuata dalla ritualità cattolica, alle Bibbie trovate nelle case dei mafiosi, fino alla partecipazione dei boss in prima fila alle processioni religiose, occasioni importanti per rafforzare il proprio consenso sociale e il loro potere); e quella degli uomini di Chiesa che hanno intrattenuto relazioni ambigue con i mafiosi, come l’esemplare caso del cardinale di Palermo Ernesto Ruffini che nel 1963, all’indomani della strage di Ciaculli in cui vennero uccisi sette fra poliziotti e carabinbieri, respingendo l’invito di Paolo VI a prendere iniziative contro la mafia – come aveva fatto il pastore valdese Pietro Valdo Panascia – scrisse che associare la «cosiddetta mafia» alla Chiesa «è una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti» che «accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata dalla mafia». Dagli anni ’90 le cose hanno iniziato lentamente a cambiare: nel 1993 ci fu l’anatema di papa Wojtyla nella Valle dei templi; e nel 2010 il documento della Cei sul sud d’Italia nel quale la mafia è definita struttura di peccato.Ma silenzi, omissioni e letture minimaliste restano. Come le parole del presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, che alla vigilia della beatificazione ha voluto precisare: «Don Puglisi è stato ucciso in odium fidei, per odio della fede, non per anti-mafia. Per questo motivo è stato dichiarato martire. Una lettura diversa, legata solo alla lotta alla mafia, è una lettura sociologica ed è gravemente riduttiva». Toni piuttosti diversi da quelli utilizzati da papa Francesco il quale invece, nell’Angelus del 26 maggio, all’indomani della beatificazione, si è nettamente differenziato da Bagnasco: «Ieri, a Palermo, è stato proclamato beato don Giuseppe Puglisi, sacerdote e martire, ucciso dalla mafia nel 1993. Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto». «Preghiamo il Signore – ha aggiunto – perché converta il cuore di queste persone. Non possono fare questo! Non possono fare di noi, fratelli, schiavi! Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano», «lodiamo Dio per la luminosa testimonianza di don Giuseppe Puglisi e facciamo tesoro del suo esempio!».Della questione del martirio si è parlato all’Istituto Augustinianum di Roma lo scorso 31 maggio, durante un’iniziativa organizzata insieme a Libera, l’associazioni antimafia guidata da don Luigi Ciotti. E se Francesca Cocchini (docente di Storia del cristianesimo all’università La Sapienza di Roma) ha messo in collegamento l’assassinio del parroco palermitano con quello dei primi martiri cristiani – entrambi «testimoni fedeli di Cristo» –, il filosofo Augusto Cavadi (autore di diverse monografie sulle relazioni fra Chiesa e mafia) si è soffermato soprattutto sull’attualità e sul modello di Puglisi come prete e come cittadino. «Puglisi è stato un po’ come mons. Oscar Romero, il vescovo di San Salvador ucciso dai sicari della giunta militare nel 1980», spiega Cavadi. «Mandato a Brancaccio dal card. Pappalardo, vescovo di Palermo, per normalizzare e riportare all’ordine una parrocchia troppo progressista, Puglisi, come Romero, quando ha visto la realtà di Brancaccio, si è detto: “Sono un prete, quindi faccio antimafia”. Evangelizzazione e promozione umana si intrecciano e si danno senso a vicenda. Puglisi ha capito che fare antimafia non era un optional a Brancaccio, anzi fare il prete ha comportato per lui fare antimafia come dovere del suo stesso ministero. Adesso, con la sua beatificazione, è evidente che per la Chiesa e i cattolici non è più possibile essere neutrali e i pastori devono difendere la dignità delle loro pecore». Ma Puglisi, secondo Cavadi, è un modello anche come cittadino. «Al di là della retorica di queste settimane in cui tutti confessano di essere stati dalla parte di Puglisi – si chiede Cavadi – mi domando se sarebbe stato ucciso se il suo “ordine”, ovvero la Chiesa e la Chiesa palermitana in particolare, fosse stata da sempre concorde con le sue posizioni e i suoi comportamenti. Il medico Paolo Giaccone – ricorda Cavadi – è stato ucciso a Palermo nel 1982 perché aveva rifiutato di firmare una diagnosi falsa a beneficio di un mafioso, ma siccome da 150 anni i medici falsificavano i certificati per far scarcerare i mafiosi, Giaccone venne ucciso perché costituiva un’eccezione. E così Libero Grassi, il commerciante che per primo si ribellò e denunciò in pizzo, era l’eccezione che andava eliminata. E questo vale anche per la Chiesa: se don Pino avesse fatto quello che tutti, o quasi, i preti facevano, da 150 anni, non sarebbe stato ucciso. “Se l’è cercata”, avrebbe detto Andreotti di lui, così come fece per Giorgio Ambrosoli. Quella di Puglisi è una testimonianza sovversiva che deve spingere Chiesa, istituzioni e cittadini a non girarsi dall’altra parte, a non accettare collusioni, omissioni e silenzi complici».Don Marcello Cozzi, vicepresidente di Libera, riferisce le parole di un pentito di mafia: «Non è che con la beatificazione di don Puglisi state mettendo a disposizione della mafia un altro santino da bruciare?». Affermazione paradossale – che fa riferimento al rito dell’affiliazione a Cosa Nostra, durante il quale viene bruciato un santino – ma non troppo distante dalla realtà. Per cui don Cozzi ammonisce: «Attenzione ai santini, attenzione a certi modelli di santità per cui alcune persone vengono tolte dalla polvere della storia, innalzate in una nicchia in modo tale da sembrare distanti e quindi irraggiungibili. Puglisi non deve diventare il “delegato” della Chiesa ad estirpare la mafia. I santi non sono delegati a risolvere i problemi, ma devono costituire un esempio per gli uomini e le donne all’insegna dell’evangelico “come ho fatto io fate anche voi”. Ai santi va restituita la loro umanità per capire profondamente il messaggio che hanno lasciato. Nello stesso modo, solo se viene restituita l’umanità a Gesù è possibile capire la forza sovversiva del Vangelo». (luca kocci)

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