Lo zapatismo resiste ed è in salute
Tratto da: Adista Documenti n° 26 del 13/07/2013
Al mio arrivo in Chiapas, alla fine del 2012, la domanda che molti mi ponevano era se gli zapatisti esistessero ancora. Molte voci circolavano al riguardo. Quasi non si parlava più di loro, cosa che, per quelli che li conoscevano poco, significava praticamente la loro scomparsa. In effetti, il subcomandante Marcos aveva abituato i mezzi di comunicazione a un’intensa produzione di testi, dichiarazioni, racconti, scritti più o meno simbolici. Il silenzio di questo grande comunicatore poteva significare solo un ripiegamento o, peggio ancora, l’ammissione di una sconfitta.
Tuttavia, il 21 dicembre del 2012, il giorno dell’inizio di una nuova era maya (e non della fine del mondo come la stampa mondiale sensazionalista aveva proclamato), 40mila persone coperte dal passamontagna zapatista hanno sfilato in silenzio in cinque città dello Stato del Chiapas. (…).
L’aspetto più impressionante è stato il modo in cui si è realizzata questa manifestazione: senza aprire bocca, senza manifesti, senza slogan, senza discorsi conclusivi, solo camminando. Era la risposta alla domanda posta al principio. Il messaggio era chiaro: credevate che fossimo in declino, e invece siamo forti come 19 anni fa, quando prendemmo varie città con le armi. Siamo anzi ancora più forti, perché ora le prendiamo senza armi. Il nostro silenzio era eloquente, perché copriva al tempo stesso il consolidamento della nostra organizzazione locale e le molteplici esperienze comunitarie in corso, di fronte al disastro attuale della società messicana, sprofondata nella guerra del narcotraffico, nei meandri della politica, nel ricorso sistematico alla tortura, nel tranello delle elezioni, nell’inizio della recessione economica. Non diamo lezioni a nessuno, ma, in questa nuova era dei popoli maya, vogliamo affermare che esistiamo, che siamo vivi e che lo siamo in un territorio in cui il narcotraffico e l’alcolismo sono inesistenti. (…). Siamo collettivamente attivi, proclamando valori umani di solidarietà, convivialità, responsabilità condivisa. Il breve comunicato pubblicato dopo la marcia diceva: «Avete sentito bene. È il frastuono del vostro mondo che crolla. È quello del nostro che risorge». (…).
ALCUNI RIFERIMENTI STORICI
Cinque anni fa passai vari giorni all’Università della Terra, nei sobborghi di San Cristóbal, diventata una base importante degli zapatisti per la formazione dei giovani delle comunità negli ambiti dell’agricoltura, dell’economia locale, delle cooperative, dell’analisi sociale e politica e per l’organizzazione delle riunioni internazionali. Ero stato invitato a partecipare a un convegno in ricordo di André Aubry, intellettuale francese che era stato prete operaio ed era venuto a collaborare con il vescovo di San Cristóbal, mons. Samuel Ruiz, lavorando strettamente anche con il movimento zapatista. (…). Ed era scomparso nel 2007 in seguito ad un incidente automobilistico. Il subcomandante Marcos aveva partecipato al seminario, in cui avevano preso la parola, alla presenza di circa mille persone, l’ex rettore dell’Università Nazionale Pablo González Casanova, la giornalista canadese Noemí Klein, il sociologo nordamericano Immanuel Wallerstein e molti altri ancora. Con il suo abituale humor, Marcos aveva iniziato il suo omaggio a Aubry con un riferimento a don Durito della Lacandona (uno scarabeo della selva che si crede don Chisciotte e che considera Marcos il suo scudiero), dicendo: «Il problema con la realtà è che non sa nulla di teoria» (Jérôme Baschet, 2009, 47). Un inizio simile poteva sembrare molto strano provenendo da un membro di un’antica guerriglia di ispirazione guevarista, costituitasi dopo il massacro di studenti nel 1968 in piazza di Tlatelolco, nella capitale federale, e che si era dato alla macchia all’inizio degli anni ’80 nella Selva Lacandona in Chiapas.In realtà, nel corso degli anni passati con le comunità indigene, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) aveva appreso molto. Lo stesso Marcos, che era stato docente di Scienze della Comunicazione all’Università Autonoma del Messico, si era disilluso rapidamente rispetto alle grandi idee di un’“avanguardia giunta per annunciare alle masse il cammino da seguire per fare la rivoluzione”. Si era reso conto che il sapere è condiviso e che i popoli indigeni sono portatori di una profonda saggezza, consolidata in oltre 500 anni di resistenza all’oppressione, senza che abbiano mai perso la loro identità.
È chiaro che il riferimento a Emiliano Zapata, a colui che era stato, agli inizi del XX secolo, l’iniziatore della riforma agraria per condurre il Messico fuori da un feudalesimo ereditato dalla colonizzazione, significava che non vivevamo più in un tempo precoloniale. Bisognava guardare al futuro. Ma, invece di portare la “verità” dall’esterno, i neozapatisti intendevano scoprirla dall’interno. (…). Marcos era andato a scuola dai popoli autoctoni per vivere con loro i cambiamenti necessari.Non è che disprezzasse la teoria. Né poteva farlo, come intellettuale e lettore di Rosa Luxemburg (non esiste rivoluzione senza teoria). (…). Il Sub, come viene chiamato, è certamente critico nei confronti della Modernità, ma non cade nell’eccesso di alcuni postmoderni il cui rifiuto dei sistemi, delle strutture, delle teorie, dell’organizzazione, della storia, li trasforma nei migliori ideologi del neoliberismo, il quale, di fatto, ha bisogno di coltivare l’ignoranza riguardo all’organizzazione sistemica delle basi materiali del capitalismo e alle relazioni di potere che lo caratterizzano. Il sollevamento dei differenti popoli maya del Chiapas, il primo gennaio del 1994, con il sostegno dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, non è stato allora né casuale né spontaneo, ma è stato il risultato di questo inedito incrocio tra un gruppo di rivoluzionari esperti di analisi marxista e comunità indigene impregnate di una lunga storia di lotte di resistenza. (…).
Dieci anni di coesistenza avevano permesso ai primi di abbandonare la loro arroganza rivoluzionaria scoprendo che “si apprende camminando”; e ai secondi di capire come la loro lotta ancestrale si unisse ora a quella dei popoli del mondo contro un sistema economico di saccheggio e di morte. (…).
In relazione alla rivolta zapatista, la data del 1° gennaio 1994 non era stata scelta a caso. Non presentava riferimenti simbolici al calendario maya, come sarebbe avvenuto 20 anni più tardi, nel 2012. Semplicemente, questa data segnava l’entrata in vigore del Trattato di Libero Commercio tra Messico, Stati Uniti e Canada (TLCAN). Tale accordo, che sarebbe risultato disastroso per l’agricoltura messicana, favoriva certi settori dell’élite del Paese, ma soprattutto rispondeva agli interessi dell’agrobusiness e di alcune industrie degli Stati Uniti. Si trattava, come in tutti i casi analoghi, di un “trattato tra lo squalo e le sardine”. Trascorsi alcuni anni, sarebbe apparso chiaro come il Messico, Paese esportatore di mais, fosse diventato uno dei maggiori importatori del mais statunitense e come quasi 4 milioni di piccoli agricoltori avessero perso il lavoro, esercitando una pressione migratoria tale da indurre gli Stati Uniti a iniziare la costruzione, alla frontiera sud, del “muro della vergogna”, in cui ogni anno perde la vita un numero di persone quattro volte superiore a quello di quanti sono morti durante l’intero periodo di esistenza del muro di Berlino. (…).
Occupando le città del Chiapas, con un esercito disciplinato e un’innovativa strategia militare, gli zapatisti non avevano intenzione di prendere Los Pinos (la residenza presidenziale), ma di provocare uno scontro in grado di risvegliare le forze sociali del Paese e in particolare quelle dei popoli autoctoni, con l’obiettivo di mettere in marcia un processo di trasformazioni economiche e sociali.Nella notte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio del 1994, l’Esercito zapatista diffonde la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona, precisando le proprie rivendicazioni: terre, case, educazione, libertà, democrazia, giustizia, pace, più la richiesta di dimissioni da parte del presidente Salinas de Gortari. In effetti, la regione era una delle più depresse del Paese e 20 anni dopo la situazione non è cambiata molto. Secondo un articolo de La Jornada del 4/1/13, su 7 milioni di abitanti, 2,7 milioni di persone, pari al 40% della popolazione, vivono nella povertà estrema, soprattutto i popoli indigeni. L’analfabetismo raggiunge il 25,4% della popolazione e il 32,2 % non ha accesso ai servizi sanitari.
La reazione del governo all’insurrezione zapatista fu molto dura. Vi furono combattimenti e vittime. Dopo 12 giorni, le autorità proposero il cessate il fuoco e l’apertura di negoziati e gli zapatisti accettarono. Il loro obiettivo di richiamare l’attenzione della nazione e del mondo su una situazione intollerabile era stato ottenuto e i rapporti di forze non permettevano altra soluzione.A giocare un ruolo importante nel processo di pace fu mons. Samuel Ruiz, il vescovo di San Cristóbal de las Casas. E non a caso. In effetti, da molti anni, era stato l’ispiratore delle comunità di base tra i popoli indigeni. (…).Mons. Samuel Ruiz aveva gettato i semi di un’organizzazione religiosa partecipativa, trasmettendo alle comunità indigene il senso della loro responsabilità nella costruzione di una società differente, più in consonanza con i valori del Vangelo. (…).Le conversazioni si prolungarono per vari mesi. (…). Ne derivarono gli Accordi di San Andrés, piccola città vicina a San Cristóbal, sui diritti delle comunità indigene, firmati dall’Esercito Zapatista e dal governo il 16 febbraio 1996. Ma il presidente Zedillo si rifiutò di sottomettere a votazione la riforma costituzionale che doveva trasformarli in norma legale.
L’azione degli zapatisti proseguì in ambito nazionale e internazionale. Nel 1996 ebbe luogo una conferenza denominata dallo stesso Marcos come Intergalattica, contro il neoliberismo, che unì migliaia di partecipanti in una sorta di anticipazione dei Forum Sociali Mondiali. Lo stesso anno venne fondato il Congresso Nazionale Indigeno, allo scopo di raggruppare le forze dei popoli autoctoni del Paese in un’azione comune. (…). Nel 2001, gli zapatisti organizzarono la “Marcia del colore della terra” per rivendicare i diritti dei popoli indigeni, che li portò al Zócalo (la piazza principale) di Città del Messico e al Congresso. (…). Ma lo stesso anno il Parlamento respinse, con voto unanime dei grandi partiti, l’entrata in vigore degli Accordi di San Andrés. (…). Gli zapatisti, però, continuavano a lavorare alla propria organizzazione interna, malgrado gli attacchi sempre più violenti: l’utilizzo dei paramilitari per riprendere le terre recuperate al momento dell’insurrezione, le divisioni interne delle comunità indigene fomentate dall’esterno, l’azione di indebolimento condotta da alcuni movimenti religiosi di tipo pentecostale. (…). Nel 2003, nei territori zapatisti, si dava avvio ai Consigli del Buon Governo, la cui sede veniva fissata nei caracoles (termine che significa chiocciola e che, in quanto simbolo del tempo ciclico, indica lo spazio che accoglie l’unità amministrativa di governo, ndt) . (…). Nel 2005, veniva diffusa la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, che raccoglie i grandi orientamenti della loro lotta. (…).
L’impatto dello zapatismo sulla società messicana era una realtà. (…). Ma, sul piano politico, la situazione era stagnante. Per quanto all’inizio avesse appoggiato il PRD (il Partito della Rivoluzione Democratica, di centro-sinistra, ndt), il movimento se ne allontanò e, in occasione delle elezioni del 2006, organizzò tra gennaio e giugno l’Altra Campagna, in lungo e in largo per il Paese, al margine della lotta elettorale, che riteneva estranea ai suoi obiettivi. Si stabilirono alleanze, non solo con altri movimenti indigeni, ma anche con numerosi gruppi emarginati o subalterni, escluse le sinistre classiche, cioè i partiti che avevano partecipato o partecipavano al potere, così come i principali movimenti sindacali. (…). Fu il PAN (Partito di Azione Nazionale) a vincere, per poco, le elezioni, imponendo una politica di destra reazionaria e allineandosi agli Stati Uniti. Nel 2007, durante il seminario organizzato in memoria di André Aubry, interrogai il subcomandante Marcos, all’inizio del mio intervento, sull’opportunità di optare per l’astensione in un simile contesto nazionale, quando tale posizione poteva unicamente favorire la destra. (…). Marcos non si offese e rispose prima in francese e poi in spagnolo: «Come volete che si possa chiedere il voto per i nostri carnefici?». In effetti, il governatore del Chiapas dell’epoca, Juan Salinas Sabines, figlio di un altro governatore, Jaime Salinas Sabines, era membro del PRD e fu uno dei più selvaggi persecutori degli zapatisti. (…). Tuttavia, a livello nazionale, Andrés Manuel López Obrador (AMLO, come viene chiamato), il nuovo presidente del PRD, non presentava un programma reazionario. (…). Nel 2010, quattro anni dopo, AMLO era di nuovo in campagna elettorale, percorrendo tutti i municipi del Paese. (…). Nel corso della campagna, indicò obiettivi assai vaghi, distanti persino dalle più prudenti posizioni dei governi “progressisti” del resto dell’America Latina.Questa volta gli zapatisti non si pronunciarono, cosa che venne interpretata come un segno di debolezza. È vero che l’incitamento all’astensione durante le elezioni nazionali precedenti aveva scoraggiato una parte della sinistra messicana, e in particolare diversi intellettuali, i quali avevano preso per questo le distanze dallo zapatismo. Pensavano che gli zapatisti, se avevano senza dubbio ragione ad essere critici, non potevano ignorare la logica politica nazionale, ripiegando nel loro ambito locale. Per gli zapatisti, il silenzio adottato nel 2012, sei anni dopo l’invito all’astensione, era sicuramente l’espressione di un rifiuto delle pratiche politiche vigenti, e al tempo stesso la preparazione discreta di nuove strategie. (…).
UNA SOCIETÀ DA COSTRUIRE SU UNA BASE DIVERSA DA QUELLA CAPITALISTA
È chiarissimo per gli zapatisti che l’organizzazione capitalista dell’economia costituisce una perversione sociale, che ha distrutto i fondamenti stessi della vita comunitaria, privilegiando la proprietà individuale sulle necessità comuni e trasformando il Paese e le sue diverse regioni in “tenute” del capitale transnazionale. (…). In Messico, malgrado gli sforzi rivoluzionari dell’inizio del XX secolo, che avevano ricostituito le terre collettive dei popoli indigeni (gli ejidos) e riconosciuto una parte della loro organizzazione sociale tradizionale, i popoli originari non avevano potuto far sentire la loro presenza come parte costitutiva della società messicana. Questo è assai importante per cogliere il senso della rivolta zapatista. Il neoliberismo, predominante a partire dalla fine degli anni ‘70, aveva finito per cancellare le conquiste del passato rivoluzionario. (…).
Le cerimonie organizzate per il 500° anniversario dell’Incontro di Civiltà – secondo il governo spagnolo - o della Conquista – secondo la maggioranza dei popoli latinoamericani -, accelerò la presa di coscienza dei popoli indigeni in tutto il Continente, fornendo loro l’occasione di uscire dalla clandestinità, di affermare le proprie culture come stili di vita, di far conoscere le proprie strutture di organizzazione collettiva e i propri leader tradizionali, di affermare il valore delle proprie religioni e della propria cosmovisione. A poco a poco iniziò a intravedersi un’identità, la quale, per quanto repressa, non era mai sparita del tutto. In vari luoghi, come in Ecuador, in Bolivia e anche in Guatemala, tale identità si rivelò a partire dagli anni ‘80 come una forza politica.
Tuttavia, tanto in Messico come in altri luoghi, il risveglio dei popoli indigeni non si manifestò affatto in forma separatista. In Chiapas, i diversi popoli maya si consideravano chiaramente messicani. Ciò che rivendicavano era, questo sì, un loro posto nella società messicana. Nei municipi zapatisti e nei caracoles, tutti gli atti pubblici si svolgono sotto la bandiera nazionale. Il “pericolo separatista” dei movimenti indigeni fu per parecchio tempo uno degli slogan della borghesia urbana messicana, perché, senza dubbio, questa temeva di perdere la sua egemonia a livello di sistema politico. (…). È più che probabile che esistano desideri nostalgici di ritorno a un passato idealizzato tra i popoli originari, ma questo è l’ultimo rimprovero che si può muovere agli zapatisti, i quali sono riusciti ad operare una sintesi tra l’affermazione di un’identità indigena e la critica al capitalismo come sistema di esclusione nel seno della società messicana.
Tutto il problema risiedeva allora nel porre in pratica i principi affermati. Secondo il loro orientamento di base, gli zapatisti hanno operato al livello che potevano dominare, cioè localmente, nei loro territori. Riorganizzare la produzione della base materiale dell’esistenza umana (l’economia) al margine della logica di accumulazione è stato uno dei loro primi obiettivi. Per loro, bisognava abolire la proprietà privata della terra come rapporto di produzione nell’agricoltura. Si è portata allora a termine la riconquista delle terre collettive delle comunità indigene, insieme all’organizzazione democratica. Si sono organizzate cooperative per la produzione e la commercializzazione dei prodotti. L’eccedente è stato utilizzato per finanziare i macchinari comuni. (…). Nel primo dei tre comunicati dell’inizio di gennaio 2013, il subcomandante Marcos, a nome del Comitato clandestino rivoluzionario indigeno e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, ha insistito sul fatto che il loro modo di rispondere alle necessità delle comunità aveva dato risultati positivi negli ultimi 19 anni. (…). È chiaro che bisogna considerare il ruolo assai importante svolto dalla solidarietà internazionale in termini di finanziamenti. Ma questo tipo di aiuto, logicamente, tende a ridursi. E si sta compensando con gli sforzi locali.Le iniziative di produzione, così come l’organizzazione sociale e politica collettiva, esigevano forme adeguate alla filosofia del movimento, vale a dire la partecipazione di tutti, la democrazia diretta. Di certo, le pratiche sociali tradizionali dei popoli indigeni potevano costituire una fonte di ispirazione, ma non erano neppure esenti da “caciquismo” o da “machismo”. La ridefinizione dell’esercizio del potere divenne allora uno dei compiti fondamentali del movimento. (…).
Per evitare che il potere si trasformasse in un fine perdendo la sua funzione di mezzo, la consultazione delle comunità divenne una prassi costante. (…). Per evitare l’istituzionalizzazione del potere, si stabilì un sistema di rotazione. Nei caracoles, per esempio, il cambiamento avviene ogni 15 giorni e il servizio è volontario, senza retribuzione alcuna. Si provvede alle necessità di base (alimentazione, casa) delle persone designate dalle comunità o dalle municipalità, ma in modo austero. Non è un privilegio in sé. Si rispetta strettamente l’uguaglianza dei sessi. (…). Senza dubbio, si è trattato di “apprendere camminando”, come dicono loro stessi, e non dobbiamo idealizzare un’organizzazione sociale di gestione collettiva come se si trattasse di una realtà angelica o di un “popolo nato prima del peccato originale” (come diceva con tanta simpatia, a proposito del Nicaragua, il filosofo di origine tedesca Franz Hinkelammert). La fedeltà alla democrazia partecipativa e diretta ha un prezzo: nulla si ottiene rapidamente. Anche in virtù del concetto indigeno tradizionale del tempo, che è ciclico e non lineare. (…). Ma, perlomeno, quello che si costruisce è solido. (…).
Alcuni hanno tratto la conclusione che gli zapatisti disprezzano il potere. Il loro atteggiamento verso la politica nazionale ha rafforzato simile convinzione. Da qui l’idea che fossero fedeli discepoli di John Holloway, il quale, in un libro diventato famoso, sosteneva che si potesse cambiare la società senza prendere il potere. Nulla di più lontano dalla posizione zapatista, come evidenziano autori come Carlos Antonio Aguirre Rojas (2010, 181-184), Jérôme Baschet (2009, 31) e Bernard Duterme (2009). In effetti, nella visione degli zapatisti non si incontra alcun disprezzo per la politica come esercizio del potere, bensì il desiderio di fare un’“altra politica”. (…). Si deve ricostruire dal basso, prendendo tutto il tempo necessario per farlo.La Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona lo diceva chiaramente: «Per caso abbiamo detto che la politica non serve a niente? No, quello che vogliamo dire è che questa politica non serve. È inutile, perché non tiene conto della popolazione, non l’ascolta, non le presta attenzione e si rivolge ad essa solo quando ci sono le elezioni (…)». La base dell’organizzazione del potere è allora l’autogoverno. (…). Ma che succederà a livello degli Stati e più ancora della Federazione nazionale messicana? La dimensione geografica e demografica non rappresenta un fattore che cambia la qualità stessa dell’esercizio del potere? Evidentemente, gli zapatisti non hanno potuto sperimentarlo e la loro prassi è stata segnata dal rifiuto delle forme vigenti, cosa che li ha apparentemente avvicinati alle tesi anarchiche. Ma quando ci si sofferma con più attenzione, si coglie in loro una dose di realismo che in verità non esclude la possibilità di una formazione politica a livello nazionale, al servizio del popolo, non corrotta ed efficiente. Tuttavia, è chiaro che nelle attuali circostanze il movimento desidera di più concentrarsi sulla costruzione di un altro potere là dove oggi è possibile, vale a dire la livello locale. (…).L’esercizio della giustizia tradizionale è anch’esso a carico dei municipi e soprattutto dei Consigli del Buon Governo nei caracoles. Si tratta di una delle rivendicazioni dell’insieme dei popoli indigeni nel Continente, i quali ritengono che certe cause vengano difese meglio in questo ambito, in particolare per ciò che riguarda i beni territoriali. Pensano anche che le pene di “riparazione” (lavorare per la famiglia della vittima o per la comunità) presentino un’efficacia sociale maggiore di carceri o multe. (…).
L’ORGANIZZAZIONE SOCIOPOLITICA
Le istituzioni politiche si situano a tre livelli. Il primo è quello delle comunità, secondo la struttura e le funzioni tradizionali (…). I principi fondamentali sono l’autonomia e la democrazia diretta. Il secondo livello è costituito dai comuni autonomi o dai municipi, le cui autorità vengono elette dalle comunità. Corrispondono, trasformandola, all’entità amministrativa introdotta dalla colonizzazione e riprodotta con l’indipendenza. Hanno a loro carico le responsabilità classiche del proprio ambito, e gli organismi zapatisti condividono il loro territorio con i non zapatisti.
I Consigli del Buon Governo, organizzati dal 2003 nella modalità dei caracoles, costituiscono il terzo livello, che coordina i primi due e che è il luogo dei servizi comuni che vanno al di là delle capacità dei livelli inferiori: amministrazione, salute, educazione, esercizio della giustizia. Tuttavia, tutte le decisioni di questi Consigli devono essere approvate dalla base, dalle comunità, in virtù del principio del “comandare obbedendo”. (…). Tutto ciò ha permesso agli zapatisti di dire, nel loro comunicato del 30 dicembre 2012: «Dove ci siamo noi, malgrado i molti errori e le tante difficoltà, esiste già un altro modo di fare politica».
Una struttura particolare è quella dell’EZLN, creato nella Selva Lacandona negli anni ‘80, diretto da Marcos e composto principalmente da indigeni dei gradi più alti delle diverse nazionalità maya. È l’EZLN che ha scatenato l’insurrezione nel 1994, occupando le principali città del Chiapas. Dal cessate il fuoco, ha ripiegato nella Selva del sudest dello Stato senza più riprendere azioni militari, ma non è disposto a sciogliersi finché non verranno applicati gli Accordi di San Andrés. Per il suo mantenimento operativo, ogni comunità presenta annualmente un numero determinato di giovani, uomini e donne, che svolgono un servizio militare. È composto in primo luogo da insorti permanenti e da riservisti che aggiornano la loro formazione di tanto in tanto. (…).
LA DIMENSIONE INTERNAZIONALE
Fin dall’inizio, il subcomandante Marcos ha posto l’accento sulla dimensione internazionale dell’azione degli zapatisti. Il carattere antisistemico del movimento viene chiaramente afferrmato (il capitalismo non è solo una realtà locale). È così che l’opposizione al neoliberismo appare come punto centrale tra gli obiettivi della resistenza. La riunione “intergalattica” del 1996 ne fu un’espressione particolarmente evidente, con la presenza di numerosi partecipanti di differenti nazionalità (…). Nel 2009, per i 15 anni dall’insurrezione, si svolse il “Festival mondiale della degna Rabbia”, esprimendo la stessa preoccupazione di ampliare le prospettive e di proporre «un mondo in cui vi sia posto per molti mondi». E lo stesso è avvenuto nei seminari internazionali organizzati tra il 2007 e il 2012.D’altro lato, la solidarietà internazionale ha svolto un ruolo importante per il movimento. Migliaia di persone di tutto il mondo, soprattutto giovani, sono rimaste affascinate dagli obiettivi e dai metodi degli zapatisti. Molti si sono mobilitati per organizzare aiuti materiali. Il movimento contadino internazionale Vía Campesina si è avvicinato maggiormente agli zapatisti, considerando il carattere rurale del movimento e i metodi di coltivazione organica praticati, delegando un rappresentante permanente.
I contatti con il Forum Sociale Mondiale, svoltosi per la prima volta a Porto Alegre nel 2001, non sono stati fruttuosi. Da un lato, gli zapatisti temevano di perdere la loro autonomia impegnandosi a rispettarne i principi e, dall’altro, i principi indicati nella Carta del FSM escludevano dalla partecipazione alle attività dei Forum non solo qualunque partito politico, ma anche qualsiasi movimento di resistenza armata. Tuttavia, per quanto nel 1994 gli zapatisti si fossero levati in armi, e l’EZLN non si fosse dissolto, nessuna operazione armata è stata più intrapresa dall’inizio del movimento. Evidentemente, se ci fosse stata un’autentica volontà reciproca, si sarebbe potuto trovare una soluzione, per esempio attraverso un’ong vicina, come hanno fatto vari partiti politici.L’annuncio, nel primo comunicato della fine del 2012, che sarebbero state adottate nuove iniziative a livello internazionale ha evidentemente suscitato interesse. Il titolo del Terzo Seminario Internazionale (30-31 dicembre 2012 e 1-2 gennaio 2013), “Pianeta Terra e Movimenti antisistemici”, era evocativo. Diversi movimenti indigeni hanno partecipato a questo incontro, dai Qom dell’Argentina fino ai Mapuche del Cile, passando per la CONAIE (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador), oltre naturalmente agli zapatisti e a vari membri del Congresso indigeno nazionale del Messico. (…).
Nel corso dei primi mesi del 2013 si è insistito chiaramente sull’unità della lotta nazionale e internazionale. La Sesta Dichiarazione si ridefinisce come una rete di lotta anticapitalista. Si precisano anche gli obiettivi: passare dall’anticapitalismo alla realtà che si vuole costruire: Che mondo? Con chi? Come? (...). Relativamente alla continuità del movimento, va evidenziata la designazione di un secondo subcomandante, Moisés, indigeno tzeltal, che era fino ad allora tenente di Marcos. È incaricato dell’organizzazione di alcune delle nuove iniziative.
COSA SI PUÒ TRARRE DALL’ESPERIENZA E DALLA “RINASCITA” DELLO ZAPATISMO?
In primo luogo, è chiaro che l’identità indigena del movimento è essenziale per la sua continuità. Certamente lo zapatismo non è unicamente indigeno né tutti gli zapatisti sono indigeni, ma l’espressione della lotta per recuperare la dignità e l’identità dei popoli autoctoni è un elemento fondamentale, che può servire da riferimento ad altri Paesi in cui la plurinazionalità è una realtà importante.
La seconda constatazione è il carattere antisistemico del movimento, cosciente della necessità di formulare un altro paradigma della vita umana sulla terra madre. Tale processo esige una visione di insieme che inglobi le relazioni con la natura, la produzione materiale delle basi della vita, l’organizzazione collettiva, la cultura come lettura della realtà e la costruzione dell’etica sociale. Si può tradurre questo in diverse maniere, nel “buen vivir” o nel Bene Comune dell’Umanità.
La terza è una concezione dell’esercizio del potere fedele alla democrazia di base. Si tratta di un’altra filosofia del servizio pubblico che funziona a livello locale ma può servire da esempio, per quanto risulti fragile e difficile da mettere in pratica. La grande questione per il futuro è evidentemente quella dell’applicazione di questi principi nelle dimensioni regionali e nazionali.
La quarta riflessione tratta della “decolonizzazione degli spiriti”, che si traduce essenzialmente nel contenuto dell’educazione, sposando il riferimento al passato e la costruzione del futuro. Le trasformazioni sociali ed economiche non si producono senza cambiamenti culturali.
Infine, la leadership carismatica, che è in generale una caratteristica dei movimenti rivoluzionari, ma anche delle rivolte contadine e indigene, si rivela assai utile per l’avvio e la costruzione del movimento, ma può risultare problematica per la sua continuità, elemento di cui gli zapatisti sono ben consapevoli.
Gli zapatisti hanno offerto e continuano ad offrire una grande lezione per ripensare e costruire il socialismo. Lo stanno facendo a modo loro, con la loro esperienza, ma anche con una visione che va oltre l’orizzonte immediato. Ora, nel loro porsi l’interrogativo su quello che potrebbe essere un mondo postcapitalista, meritano che venga riservato loro un posto nel movimento altermondialista e nel processo di costruzione sociale e politico internazionale, evidentemente a condizione, come direbbe don Durito, lo scarabeo della selva, che la loro agenda e la loro geografia (cioè la loro filosofia e la loro volontà) lo consentano.
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