Per accompagnare il processo di cambiamento
Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 09/11/2013
Ha suscitato profonda indignazione, anche in Europa, la notizia della chiusura dell’ufficio di Tutela Legale da parte dell’arcivescovo di San Salvador. Come si spiega tale decisione?
Mons. Alas, il cui passato non è molto conosciuto in El Salvador, è sicuramente una figura conservatrice e di destra (tenendo conto che in ambito religioso non è la stessa cosa essere di destra ed essere conservatori). Già vescovo di San Vicente, mons. Alas è conservatore e di destra come lo sono stati mons. Oscar Arnoldo Aparicio e la sua copia fedele, mons. José Oscar Barahona, i due vescovi che hanno guidato prima di lui la diocesi di San Vicente. Possiamo dire che Alas raccolga l’eredità di mons. Aparicio, implacabile avversario di Oscar Romero (non a caso ribattezzato dal popolo Tamagás, dal nome di un serpente velenoso, ndr). L’avversione di Alas nei riguardi di Romero sembra però essere svanita di colpo dopo la sua nomina ad arcivescovo di San Salvador, quando, in conferenza stampa, ha avuto parole di grande ammirazione per l’arcivescovo ucciso sull’altare.
Di Alas bisogna anche ricordare la decisione di rimuovere dalla facciata della cattedrale il mosaico dell’artista Fernando Llort, un’opera di proprietà del popolo salvadoregno, in quanto pagata, tessera per tessera, proprio dalla gente più povera, che aveva risposto a un appello dell’arcivescovo Sáenz Lacalle (il quale, perlomeno, aveva un più spiccato senso artistico rispetto all’attuale arcivescovo). Per rendere più bella la cattedrale di mons. Romero, molti poveri avevano voluto offrire il loro contributo, versando chi un dollaro, chi 5 colones. Ma, all’improvviso, senza consultare nessuno, senza dare alcuna spiegazione, Alas ha ordinato di rimuoverlo. Le proteste sono state molte, ma la lotta non ha avuto seguito, perché vi sono cose più urgenti e più drammatiche a cui pensare, come la fame, la disoccupazione, la bassa qualità del sistema sanitario: è come se la mia casa andasse a fuoco e io mi preoccupassi prima di tutto delle scarpe. Proprio contando su questo, l’arcivescovo ha creduto che sarebbe avvenuto lo stesso con l’ufficio di Tutela Legale: se agisco rapidamente e in silenzio, non succederà niente. Ma l’arcivescovo non ha fatto bene i suoi conti: se il mosaico della cattedrale era un’opera pagata con i soldi del popolo, l’ufficio di Tutela Legale è stato pagato con il sangue del popolo.
In realtà, Tutela Legale ha preso il posto del Socorro Jurídico, il quale, con mons. Romero, aveva assunto un profilo forte e combattivo. Roberto Cuéllar, che lo dirigeva, era un uomo battagliero e di grande levatura, che aveva relazioni con il Fronte Democratico Rivoluzionario (nato nel 1980 con l’obiettivo di rovesciare la dittatura militare dell’oligarchia e dell’imperialismo Usa, costruendo un’alternativa di governo democratico rivoluzionario con ampia base sociale, ndr). Alla morte di Romero, il nuovo arcivescovo Arturo Rivera y Damas ridimensionò Socorro Jurídico sostituendolo con l’ufficio di Tutela Legale e affidandone la guida a María Julia Hernández. L’arte di Rivera y Damas era quella di barcamenarsi tra il legittimo e il legale: queste cose sono legali e dunque possiamo farle; queste cose sono legittime ma illegali e quindi farle è pericoloso.
Ma perché l’arcivescovo è giunto a tanto?
In base a quanto riferito dalla stampa, mons. Alas ha fornito tre differenti versioni: che Tutela Legale non aveva più ragione d’essere, che aveva riscontrato fenomeni di corruzione, che avrebbe creato una nuova struttura per la difesa dei diritti umani. In realtà, non c’è né volontà, né capacità di creare una struttura nuova. Dietro questa decisione c’è probabilmente l’Opus Dei. Non dimentichiamo che Alas è stato proposto da Sáenz Lacalle. Se fosse stato scelto un altro rappresentante dell’Opus Dei il popolo sarebbe insorto, e lo stesso si può dire se la scelta fosse caduta su un altro spagnolo. E allora è stato nominato un vescovo non molto conosciuto, conservatore e di destra, convinto che il compito della gerarchia cattolica sia quello di difendere l’immagine di Cristo Re. L’Opus Dei è alleata con l’oligarchia e questa vuole evitare a ogni costo l’apertura di indagini su fatti avvenuti durante la guerra. Per questo è necessario spazzare via l’ufficio di Tutela Legale; nessuno, neppure la Uca (l’Università centroamericana retta dai gesuiti, ndr), dispone della documentazione di cui è in possesso Tutela Legale.
Il problema si è posto in questo momento perché la Corte Suprema di Giustizia ha ammesso il ricorso di costituzionalità presentato da almeno 20 organizzazioni sociali contro la Legge di Amnistia promulgata dal governo nel 1993? L’oligarchia ha paura dell’apertura dei processi?
Esattamente. Qualsiasi strumento possa consentire un riesame del passato deve essere soppresso. Sono circa 50mila le denunce contenute nell’archivio di Tutela Legale. Ciò vuol dire che tutta questa documentazione potrebbe essere usata per risalire, ad esempio, ai responsabili della strage di El Mozote del 1981, il peggiore dei massacri di civili compiuti dall’esercito durante la guerra, o di quella realizzata congiuntamente nel 1980 dai soldati salvadoregni e honduregni sul Rio Sumpul, al confine tra i due Paesi centroamericani o, ancora, dei massacri commessi a Guazapa dai militari.
La causa di canonizzazione di mons. Romero pare sia ormai in dirittura d’arrivo. C’è il rischio di una istituzionalizzazione della figura dell’arcivescovo? Cosa può aggiungere e cosa può togliere la proclamazione ufficiale della santità di Romero alla canonizzazione già decisa dal popolo?
Hanno sempre detto che per facilitare la causa di canonizzazione fosse necessario evitare ogni forma di culto pubblico. Ma il popolo non ha dato mai retta alla gerarchia. Perché Romero è il popolo. Ciò va molto al di là della gerarchia e pure della religione. Ricordo che molti sacerdoti erano costretti a cambiare l’orario della loro messa, se questa coincideva con quella di Romero, perché non si sarebbe presentato praticamente nessuno. Tutti ascoltavano le sue omelie alla radio, la sua parola riecheggiava in autobus, in taxi. E oggi la sua foto è ovunque. Mi hanno persino donato un’immagine di Romero con la scritta in cambogiano.
È possibile che il popolo si lasci sottrarre Romero? Sicuramente proveranno a rinchiuderlo nel tempio, ma non ci riusciranno. Non sono più i tempi di Francesco di Assisi, diventato famoso dopo essere stato proclamato santo, quando Roma lo aveva ormai già addomesticato. Prima della sua canonizzazione, Romero è infatti già conosciutissimo. Molti altri aspetti devono essere considerati: i vantaggi economici che la gerarchia potrà trarne; gli ostacoli che sono stati posti dai governi di Arena, decisi a impedire che siano scoperti i veri assassini... Non è facile dare una risposta univoca, ma io penso che ufficializzare la voce di un profeta sia sempre una buona cosa. E penso, d’altra parte, che il popolo dovrà raddoppiare i suoi sforzi per difendere la memoria di Romero fatto popolo. Ci sono di sicuro sia luci che ombre.
Il prossimo 2 febbraio si svolgeranno in El Salvador le elezioni presidenziali. Quali sono le possibilità di vittoria del candidato del Fronte Farabundo Martí, Salvador Sánchez Cerén?
È una persona di grande valore. Ma gli Stati Uniti non sono disposti a tollerare, per di più alle porte di casa loro, un nuovo Evo Morales o, peggio ancora, un nuovo Hugo Chávez. Si muoveranno dietro le quinte per impedire la vittoria del Fmln. Al contrario, l’attuale presidente non rappresenta alcun pericolo per gli Stati Uniti: Mauricio Funes ha abbandonato completamente il programma del Fronte. Quanto a Sánchez Céren, avrà la forza di portarlo avanti, resistendo a tutte le pressioni provenienti dall’esterno (dal Trattato di libero commercio tra Stati Uniti e America Centrale alla crisi economica Usa fino all’ipoteca del debito estero)? Io credo che, finché non ci sarà un popolo organizzato, sarà molto difficile che ciò possa accadere. Tuttavia, non si tratterebbe più di un governo isolato come era quello sandinista dei tempi della rivoluzione. Ora c’è l’Alba e ci sono i processi di integrazione dell’Unasur e della Celac. E persino l’Oea, l’Organizzazione degli Stati Americani, non è più la stessa di prima.
Che bilancio si può tracciare del governo Funes?
Per quanto la maggioranza del Fronte sia consapevole del fatto che Funes ha tradito il popolo che lo ha eletto, qualcosa di buono il suo governo lo ha comunque realizzato. Viene definito come un governo di transizione. È di destra? No. È di sinistra? Neppure. Bisogna tuttavia fare una distinzione tra un governo di transizione e la transizione di un governo. Questo governo non è transitato verso una nuova tappa, è rimasto un semplice governo di transizione. Cuba sta operando la sua transizione e anche Chávez ha fatto lo stesso. Funes no, non ha mostrato alcuna volontà di cambiamento: si è limitato a piccoli aggiustamenti. In tal senso, ha fatto anche cose che hanno prodotto speranza, soprattutto nel campo della salute e in quello delle opere pubbliche. E non ci sono dubbi che i migliori ministri siano stati quelli del Fmln.
In tutta l’America Latina si assiste al dilagare del modello estrattivista, basato sull’esportazione di materie prime non lavorate e su ampie concessioni minerarie a società transnazionali. Cosa sta avvenendo al riguardo in El Salvador?
L’impatto di questo modello in El Salvador è disastroso. Il caso salvadoregno è molto diverso, per esempio, da quello del Venezuela, la cui economia è da sempre centrata sul petrolio. 45 anni fa ascoltai un gesuita venezuelano descrivere in questo modo il suo Paese: il Venezuela è un mare di petrolio solcato da una nave d’oro con l’equipaggio morto. L’intera struttura del Paese dipende dal petrolio. In questo quadro, è impensabile che il Venezuela rinunci all’estrazione petrolifera. Quello che deve fare è regolamentarla.
Dovrebbe avviare però una transizione verso un modello post-petrolifero…
Credo che in Venezuela la volontà politica ci sia. Questa è almeno l’idea che mi sono fatto parlando con dirigenti chavisti. In ogni caso, si è posto un freno alla deforestazione. E sono state operate numerose nazionalizzazioni, a cominciare da quella dell’industria petrolifera. E lo stesso sta avvenendo in Bolivia. Non si tratta, insomma, di un estrattivismo colonialista: se in questo momento non è possibile superare tale modello, perlomeno vengono socializzati i profitti. Nel nostro Paese è il contrario. Qui la produzione di energia elettrica ha finora colmato il nostro fabbisogno, anzi lo ha addirittura superato, ma il Trattato di Libero Commercio tra Stati Uniti e Centroamerica ci obbliga a produrre energia per l’esportazione, a beneficio esclusivo delle imprese, nazionali e straniere. L’impatto ambientale e sociale della costruzione di mega dighe, come quelle sul fiume Lempa, o quella di El Cheparral, è devastante: enormi estensioni di terra, e di terra fertile, sono state inondate. E il livello di deforestazione è altissimo. L’estrattivismo in El Salvador è una cosa nuova ed è una cosa che non porta alcun progresso. Come si può in un Paese con una superficie tanto limitata (il più piccolo del Continente) e così sovrappopolato fare spazio all’attività mineraria? La dignità e la vita della persona dovrebbero venire prima. Eppure il popolo viene espulso per far spazio allo sfruttamento dei giacimenti minerari. I Paesi latinoamericani spendono molto di più per la Difesa che per l’educazione e la salute. In El Salvador non c’è industria, tutto è maquila, non si fa ricerca, non si investe in agricoltura. E così il 25% della popolazione è stato costretto a emigrare.
I gesti e le parole di papa Francesco hanno prodotto un’ondata di entusiasmo nella Chiesa. Come si valuta dall’America Latina il clima nuovo generato dal papa argentino?
In America Latina, l’episcopato aveva risposto con grande entusiasmo al Concilio Vaticano II, offrendone una traduzione genuinamente latinoamericana nelle Conferenze di Medellín, nel 1968, e di Puebla, nel 1979. Poi, però, è subentrato il lungo inverno dell’involuzione ecclesiastica. Da allora tutte le nomine dei vescovi e dei cardinali sono avvenute nell’interesse della politica di restaurazione vaticana, anziché della fede del popolo. È da allora che la gerarchia cattolica latinoamericana - parlo di gerarchia, non di corpo ecclesiale - è diventata incapace di produrre speranza, consolidando la tradizionale alleanza con i governi conservatori. Quando nasce un governo non dico nemmeno popolare, ma semplicemente progressista, la gerarchia cattolica è quasi sempre schierata con l’opposizione. Basti pensare al Venezuela o alla Bolivia.
È dal letame, però, che nascono i fiori. Francesco si è formato nel tempo del regime militare: gli sarà forse mancato un maggiore coraggio, forse non avrà fatto tutto quello che poteva, ma di sicuro non è stato un complice della dittatura. Non è stato un rivoluzionario, è apparso forse persino come un conservatore, ma ha vissuto quell’esperienza ed è cresciuto. I papi che lo hanno preceduto hanno fatto anche cose buone, ma mai cose nuove. Credo che Bergoglio sia in grado di farle. La sua normalità è un’anormalità a Roma. Francesco vive normalmente, non va in papamobile, guida una Renault 4, saluta normalmente le persone. Tutto questo a Roma produce cambiamento. Quando in Brasile andavi dal cardinale Arns, non dovevi aspettare 15 giorni per farti ricevere. È in Europa che i vescovi vivono reclusi. È qui da voi che diventa difficile persino incontrare il parroco. Oggi la Chiesa ha un papa che produce speranza. Ma se cambia l’imperatore, cambia anche l’impero? Se cambia il papa, cambia anche il Vaticano? Francesco non è un papa della transizione, ma un papa che vuole la transizione, che ha la volontà di realizzarla, che è disposto a correre dei rischi. Cosa penseranno Cielle, l’Opus Dei, la lobby vaticana? Difficile immaginare che restino inattivi: è più facile pensarli come leoni pronti a sbranare la loro preda. Già non si è tenuto conto come si doveva della reale portata della rinuncia di Benedetto XVI: un atto di profonda protesta per le attuali condizioni della Chiesa. Di Ratzinger si possono ricordare molte cose tutt’altro che positive, ma la sua ultima decisione è un atto di redenzione della verità.
Ritieni che papa Francesco sarà in grado di promuovere tutte quelle riforme di cui la Chiesa ha bisogno?
Credo che egli abbia la volontà di realizzare una riforma strutturale della Chiesa. Scegliere il nome Francesco è stato già un atto di ribellione, così come definirsi vescovo di Roma. Questo papa ha parlato di una Chiesa diversa. E ha esortato gli stessi vescovi a cambiare atteggiamento. Ha esortato la gerarchia, non il popolo. La volontà c’è. Tuttavia, se per tanto tempo sono stati nominati vescovi nella linea della restaurazione, la situazione non cambierà in pochi anni. Ci vorrà tempo.
Cosa pensi della decisione di Bergoglio di nominare il card. Oscar Rodríguez Maradiaga come coordinatore del gruppo degli otto cardinali incaricato di aiutare il papa a riformare la Chiesa? In America Centrale non sarà passata sicuramente inosservata la decisione di chiamare a presiedere la commissione cardinalizia colui che il popolo honduregno ha ribattezzato “cardeMal” per il sostegno prestato ai golpisti e il silenzio completo sulle violenze commesse contro il popolo…
Penso che egli abbia voluto scegliere il cardinale che in America Centrale è più conosciuto, che gode in Europa di grande prestigio, che ha persino la fama di progressista e che in America Latina è senz’altro appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche. Forse le comunità ecclesiali di base, i contadini, gli operai centroamericani avrebbero dovuto presentare una petizione al papa chiedendogli di rimuoverlo dall’incarico.
Oggi si parla tanto di opzione per i poveri. Non pensi, però, che tale concetto sia stato fortemente ridimensionato e addomesticato rispetto alla sua formulazione originaria?
L’opzione per i poveri deve diventare opzione per gli oppressi, gli sfruttati, gli emarginati. E gli oppressi devono approfittare quanto più possibile degli spazi che si aprono. Qui si entra nel terreno della lotta di classe. E della strategia che il debole deve mettere a punto per sfidare il potente. La lezione ci viene dallo stesso Gesù: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace» (Lc 14,31-32). È il momento di applicare questa lezione di Gesù. Nessuna delle sue parabole ha un carattere religioso: sono tutte lezioni politiche. Se si è deboli, bisogna unirsi e condurre il nemico là dove possa essere combattuto. Non bisogna scontrarsi con Bergoglio, per quanto anche lui, come esponente della gerarchia, carichi su di sé una parte della colpa. Non possiamo attaccare Bergoglio, perché elimineremmo l’unica possibile speranza che abbiamo oggi. Non dobbiamo distruggere la speranza.
Mi tornano in mente le celebri parole di Chávez, “por ahora” (pronunciate all’indomani del fallito colpo di Stato contro il corrotto e liberista presidente Carlos Andrés Pérez, quando apparve in televisione per spiegare che “por ahora” gli obiettivi non erano stati raggiunti e, di nuovo, all’indomani della sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale del 2007, ndr). “Por ahora”è la chiave.
Penso a ciò che ho vissuto con mons. Romero. Io mi dichiaro assassino di Monsignore. Perché io e altri non facevamo che spingerlo a parlare più forte e più chiaramente. Mons. Romero si trovò stretto tra le pressioni della destra e quelle del nostro gruppo di 36 sacerdoti, di noi che eravamo pronti a dare la vita per lui, ma che lo spingevamo fino al limite. Per questo dico che sono anch’io colpevole della morte di Romero. Dobbiamo combattere Bergoglio ed esigere da lui più di quanto egli faccia? No, dobbiamo accompagnarlo. Dobbiamo saperlo accompagnare. E dobbiamo fare attenzione a possibili imboscate. Perché le forze della reazione non esitano a uccidere. In gioco, poi, non è nemmeno la difesa di Francesco, ma la difesa di ciò che lui rappresenta. Non possiamo confidare in una persona, ma nella causa che questa persona rappresenta. Ho appreso da un contadino che la chiave che chiude le porte della prigione è la stessa chiave che serve ad aprirle. Bisogna che ci appropriamo degli spazi disponibili a favore di una riforma strutturale della Chiesa.
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