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Crisi e stabilità

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 44 del 14/12/2013

«Ce lo chiede l’Europa!»: è questa la frase che sempre più spesso ascoltiamo ripetere dai presidenti del Consiglio avvicendatisi in questi ultimi anni, dai vari rappresentanti di governo, nonché dai leader dei maggiori partiti di maggioranza e, spesso, pure da quelli di opposizione.Le condizioni economiche del nostro Paese peggiorano di anno in anno, i dati della disoccupazione relativi a ottobre 2013 ci dicono che il 12,5% è senza lavoro e, se guardiamo ai giovani dai 16 ai 25 anni, la percentuale dei disoccupati sale addirittura al 41,2%. Sono i peggiori dati occupazionali dal lontano 1977. Le disuguaglianze di reddito e ricchezza tra i cittadini continuano a crescere, la povertà è in aumento, il disagio abitativo pure, e una famiglia su quattro è a rischio povertà. 

La recessione è ormai un dato di fatto, anzi c’è già chi ipotizza che sia in atto una “stagflazione”, cioè una stagnazione dell’economia e contemporaneamente un pericoloso rialzo dei prezzi.

Eppure sono anni che si continua con la stessa ricetta, cioè con politiche di austerità. E l’attuale legge di stabilità italiana è su questa linea, del resto «è l’Europa che ce lo chiede!». Ma l’Europa non è solo la Troika (Banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale), bensì tutti i cittadini. Coloro che stanno realmente pagando le conseguenze della crisi che, iniziata coi fallimenti bancari legati agli scellerati mutui subprime statunitensi, poi si è abbattuta sull’economia reale contagiando il sistema economico di tutto il pianeta.

Le ricette legate alle politiche del rigore nei conti economici non hanno dato i frutti sperati. La situazione della Grecia ne è esempio lampante, addirittura il Fmi ha fatto mea culpa in merito. Infatti gli aggiustamenti fiscali, cioè i tagli alla spesa pubblica, hanno provocato una caduta del Prodotto interno lordo più veloce della riduzione del debito. Ecco allora che gli indicatori macroeconomici, come il rapporto debito/Pil, invece di migliorare, peggiorano. Cosa che sta avvenendo anche in Italia, dove nel 2011 tale rapporto era al 120% e ora ha raggiunto quasi il 130% e in termini assoluti il debito pubblico ha superato la soglia dei 2mila miliardi di euro. Eppure si continua a stringere la cinghia. E anche la recente legge di stabilità è improntata a un profondo taglio della spesa pubblica, con drammatici risvolti su settori fondamentali come l’istruzione, i servizi essenziali e i beni comuni in generale.

Forse tali politiche di austerità andrebbero viste non come la soluzione del problema, ma come una delle cause della mancata uscita dalla crisi. Sono politiche vecchie, che hanno fatto il loro tempo, di stampo neoliberista, come quelle adottate negli anni ’80, basate sul contenimento della domanda, specie quella costituita dalla spesa pubblica, il controllo del credito e dei salari reali e, dal lato dell’offerta, attraverso liberalizzazioni,  incremento del ruolo del mercato e riduzione dell’intervento pubblico. Invece bisognerebbe cambiare totalmente l’impostazione. Non è vero che non ci sono i soldi, perché le risorse per ristabilire in parte l’eguaglianza andrebbero ricercate lì dove stanno. Quindi una tassa sui patrimoni, una seria tassa sulle transazioni finanziarie, una sui capitali scudati e magari la riscossione, senza ulteriori sconti, delle multe ai gestori delle famigerate slot-machine. Tutte operazioni più eque rispetto al recente aumento dell’aliquota Iva dal 21 al 22%, perché l’Iva è un’imposta non fondata sui criteri di progressività, colpisce tutti i contribuenti indipendentemente dal reddito, per il solo fatto che consumano determinati prodotti e quindi, in proporzione, maggiormente i più poveri. E come la mettiamo con la Costituzione che prevede un sistema fiscale improntato a criteri di progressività?

Quella stessa Costituzione nella quale ora è stato inserito il pareggio di bilancio che vincola inevitabilmente le scelte del governo al rispetto del rapporto deficit/Pil allo 0,5%, ben al di sotto del 3% stabilito dai criteri del Trattato di Maastricht. Questo rende praticamente impossibile realizzare quegli investimenti pubblici fondamentali per la ripresa dell’economia e che avrebbero benefici effetti soprattutto sulle classi più disagiate del Paese. Da questo punto di vista appare poco più che una goccia nel mare la riduzione del cuneo fiscale di 10 miliardi di euro in tre anni di cui dovrebbero beneficiare in parte i lavoratori e in parte le imprese. Di ben altro ci sarebbe bisogno per far ripartire l’occupazione e di conseguenza l’economia in recessione da anni. Bisognerebbe concentrare le risorse sulla messa in sicurezza degli edifici pubblici, per esempio le scuole, sul riassetto idrogeologico, sulla reale valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico e culturale italiano, sui servizi alla persona e investire nell’istruzione e nella ricerca. Altro che aerei e navi militari o svendita del patrimonio pubblico per 20 miliardi di euro al solo fine di far cassa!

Sarebbe ora che i cittadini la smettessero di sentirsi sudditi amministrati dall’alto (e ormai forse neanche più dal proprio governo; a proposito: qual è il ruolo e, soprattutto, quali i poteri di Carlo Cottarelli, ex dirigente del Fmi, e ora commissario straordinario alla revisione della spesa pubblica?), e ci si ricordi dell’art. 1 della Costituzione italiana, quello che affida la sovranità al popolo. Perché dietro ogni scelta di politica economica ci sono precise conseguenze per i cittadini e i loro diritti.

* Giornalista, aderente al gruppo romano di Noi Siamo Chiesa

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