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Il dovere della Chiesa è incontrare e accogliere

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 01/02/2014

Dobbiamo prima di tutto fare un’osservazione: il testo del questionario ci è giunto a metà novembre, quindi, dovendo inviare le risposte in diocesi entro il 15 dicembre, abbiamo avuto poco tempo a disposizione, assolutamente insufficiente per fare un’indagine seria. Così si rischia di perdere un’occasione importante. Ce ne dispiace perché l’iniziativa è positiva e segna una novità nella prassi della Chiesa, che chiediamo continui.

Sul tema della famiglia, da anni, è in atto una spaccatura profonda nella Chiesa: da un lato il magistero che ribadisce la dottrina classica, dall’altra molti cattolici che hanno scelto di non seguire le indicazioni ufficiali e non per lassismo, ma perché non corrispondono al loro modo di vivere la fede.

Per stendere queste risposte abbiamo tenuto un paio di incontri aperti a tutti e, riguardo all’omosessualità, ci siamo riferiti anche a precedenti assemblee tenute di recente, a cui hanno partecipato alcune centinaia di persone.

Obbligati dal poco tempo a disposizione, rispondiamo soltanto ad alcune domande.

4a) La convivenza ad experimentum è una realtà pastorale rilevante nella Chiesa particolare? In quale percentuale si potrebbe stimare numericamente?

Nella nostra Comunità parrocchiale è una realtà rilevante (negli ultimi anni riguarda circa il 40-50% delle coppie che partecipano agli incontri) ma a noi non risulta che si possa chiamare ad experimentum, nel senso di “tentativo” o di “prova” per vedere se il rapporto funziona. In genere la decisione di condividere la vita è già presa con la convivenza; i motivi per cui se ne rimanda la celebrazione sono i più vari, e difficili da elencare in questo documento.

4c) I separati e i divorziati risposati sono una realtà pastorale rilevante nella Chiesa particolare? In quale percentuale si potrebbe stimare numericamente? Come si fa fronte a questa realtà attraverso programmi pastorali adatti?

Nella nostra parrocchia i separati e i divorziati sono una realtà rilevante. A partire dal 1983 fino al 2012, i matrimoni avvenuti nell’ambito della Comunità sono stati 508. Su un totale di 508, 64 sono le coppie divorziate (il 12,60%); 264 sono le coppie che conosciamo, la cui esperienza continua (51,96%); 180 le coppie che hanno cambiato residenza o che abbiamo perso di vista, di cui non sappiamo più nulla (35,42%).

Non vediamo alcuna necessità di fare una pastorale diversa per i separati e i divorziati risposati; noi li consideriamo parte viva della Comunità sotto ogni aspetto.

4d) In tutti questi casi: come vivono i battezzati la loro irregolarità? Ne sono consapevoli? Manifestano semplicemente indifferenza? Si sentono emarginati e vivono con sofferenza l’impossibilità di ricevere i sacramenti?

Sono tutt’altro che indifferenti! Anzi molti sono addolorati e delusi perché si sentono non accolti e discriminati dai pastori della Chiesa e pensano che finora non sono stati considerati con adeguata comprensione.

4f) Lo snellimento della prassi canonica in ordine al riconoscimento della dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale potrebbe offrire un reale contributo positivo alla soluzione delle problematiche delle persone coinvolte? Se sì, in quali forme?

La maggioranza delle persone della nostra Comunità parrocchiale ritiene che l’iter per dichiarare nullo il vincolo matrimoniale da parte della S. Rota, crei più problemi di quanti ne risolva. Inoltre indurre a considerare inesistente o a banalizzare un rapporto di amore passato, che avrà pure avuto momenti veri, per esser liberi di sposarsi di nuovo, a noi sembra veramente immorale.

5b) Quale è l’atteggiamento delle Chiese particolari e locali sia di fronte allo Stato civile promotore di unioni civili tra persone dello stesso sesso, sia di fronte alle persone coinvolte in questo tipo di unione?

Come Chiesa, non siamo entrati in merito alla regolamentazione legislativa sulle unioni civili di persone dello stesso sesso. Riteniamo che questa valutazione non competa alla Chiesa come tale. Invece di recente abbiamo riflettuto a lungo sul significato della vita di coppia di persone dello stesso sesso, provocati e interpellati da chi vive questa condizione. Insieme ad altre parrocchie, abbiamo posto questo problema anche sul giornale della nostra diocesi e abbiamo interpellato personalmente il vescovo. Abbiamo avuto poche e timide risposte e il vescovo non ci ha presi nemmeno in considerazione, dicendo che la dottrina della Chiesa è già chiara su questo punto.

Noi siamo del parere che compito della Chiesa, anche in questo caso, sia incontrare ed accogliere, e noi ci stiamo comportando così. Riteniamo che la condanna dei rapporti omosessuali che c’è, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, nasca da una interpretazione e valutazione dell’omosessualità che gli studi degli ultimi decenni costringono a rivedere radicalmente.

Riportiamo un brano del documento che abbiamo inviato al giornale della diocesi e al vescovo, nel settembre e nell’ottobre 2012, firmato da diverse centinaia di persone, che descrive la nostra posizione, in modo abbastanza chiaro: «In questi ultimi anni è maturato un modo di comprendere l’omosessualità che ormai, con varie sfaccettature è accettato da quasi tutti. Si parla dell’omosessualità come di un elemento pervasivo della persona che la caratterizza nella sua profonda identità e le fa vivere la sessualità in modo “altro”. È importante che la Chiesa riconosca positivamente il cammino della scienza nella conoscenza dell’uomo e non dichiari verità assolute quelle che poi dovrà riconoscere errate, come è accaduto in passato. Questi fatti ci inducono a vedere l’omosessualità in un orizzonte nuovo e ad affrontarla con uno sguardo morale diverso (…). A noi sembra che proprio dalla Chiesa dovrebbe arrivare un riconoscimento del modo nuovo di comprendere l’omosessualità, con un segno di accoglienza e di profondo rispetto per i sentimenti di amore di chi vive personalmente questa condizione. Due persone che si amano non sono un attentato alla società né il tradimento del Vangelo. Gli scandali vanno cercati altrove!».

7) Qual è la reale conoscenza che i cristiani hanno della dottrina della Humanae vitae sulla paternità responsabile? Quale coscienza si ha della valutazione morale dei differenti metodi di regolazione delle nascite? Quali approfondimenti potrebbero essere suggeriti in materia dal punto di vista pastorale?

Nel nostro ambiente l’enciclica Humanae vitae non è molto conosciuta e chi la conosce in genere ritiene che non risponda alle domande più urgenti delle coppie di oggi. Ci lascia perplessi il contesto in cui viene posta questa domanda: la famiglia viene vista come oggetto che i pastori della Chiesa devono evangelizzare e non come soggetto che aiuta tutta la Chiesa, pastori compresi, a intendere lo specifico del messaggio cristiano. È proprio l’amore fra i genitori e per i figli che testimonia in modo concreto l’amore paterno di Dio per le sue creature.In merito alla domanda, l’opinione prevalente fra di noi è questa: è fondamentale che l’amore sia vissuto in maniera feconda e non solo quello di coppia, ma ogni rapporto di amore. Ma la fecondità è una realtà spirituale prima che biologica e non può essere definita dal generare figli, né tanto meno dal vivere ogni singolo amplesso aperto alla vita. Fecondità è soprattutto generare amore e speranza nel mondo in cui si vive. Comunque ci sembra che la contraccezione sia vissuta serenamente senza sentirsi per questo “non fecondi”. Negli ultimi tempi una delle esperienze più belle che si sta affermando è l’adozione o l’affidamento di figli che, per vari motivi, non hanno più o non sono seguiti dai genitori naturali. È un’esperienza assai frequente nella nostra parrocchia.

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