Il volto rimosso della buona notizia
Tratto da: Adista Documenti n° 9 del 08/03/2014
AGLI INIZI: GENESI
Se la rappresentazione dei primordi dell’umanità è di regola assai squilibrata rispetto ai due sessi, in quelle stesse pagine dei libri IRC c’è però una donna che non manca mai; non è raffigurata propriamente come primitiva, ma certamente ha a che fare con le origini: è Eva.
(…) La prima scelta che autrici e autori si trovano ad affrontare è: Genesi capitolo 1 («…a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò») o Genesi capitolo 2 («Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda»)? La differenza tra i due racconti è nota e notevole, ma in entrambi sono presenti spunti importanti per il messaggio che si vuole trasmettere. Il secondo, inoltre, da una parte sconta un fardello pesante in termini di storia della ricezione, essendo stato usato, già a partire da testi compresi nel Nuovo Testamento, come legittimazione del patriarcato; ma dall’altra ha il vantaggio dell’articolazione narrativa, ed è stato rappresentato in opere d’arte che si possono riprodurre e analizzare.
I libri IRC oscillano tra i due, associandoli in vario modo. La maggior parte sceglie di presentare, letteralmente o tramite adattamenti, il racconto di Genesi 1 accompagnato da disegni che raffigurano la coppia in Eden (…). Altre volte a Genesi 1 è affiancato un particolare della creazione di Adamo dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina, oppure della creazione di Eva che si ammira nei mosaici del Duomo di Monreale. L’accostamento non resta senza conseguenze, perché l’impressione della secondità e soprattutto della funzionalità di Eva al benessere di Adamo (…) finisce per sovrastare il messaggio del “due” originariamente a immagine di Dio. Ben diverso sarebbe il quadro se il termine che in Genesi 2 identifica l’essere plasmato da Dio con la polvere del suolo fosse tradotto e illustrato in modo da rendere trasparente il suo senso proprio, quello cioè di umano indifferenziato; nessuno dei testi consultati sembra però preoccuparsene, preferendo usare il termine «uomo» e disegnare appunto un uomo.
LA STORIA CONTINUA: UOMINI E DONNE NEL PRIMO TESTAMENTO (...)
Patriarchi senza matriarche
(...). Sara, Rebecca, Rachele e Lia: il nome di queste madri di Israele va imparato a memoria e ripetuto di generazione in generazione perché senza di loro, narra la Bibbia, la Promessa non può trasmettersi e realizzarsi.
Nei libri IRC che raccontano le vicende di Israele (sette, degli otto presi in considerazione) l’unica citata da tutti è Sara. Sia che compaia in una riga, sia che la narrazione sia più distesa, in nessun caso c’è modo, per chi legge, di capire che, secondo la Scrittura, nel progetto di Dio la promessa non si realizza in Abramo, ma in Abramo e Sara insieme, sebbene il futuro padre della discendenza numerosa come le stelle del cielo ne rida mentre è prostrato di fronte al Signore, e provi a suggerire alternative più realistiche (Gen 17,15-21). Il risultato è che la maternità di Sara è presentata alla stregua di un fatto biologico, per quanto straordinario, e il protagonista della storia dell’alleanza è solo Abramo (…).
Coerente con questo modo di concepire la vicenda dell’inizio del popolo Israele è allora il discorso in prima persona che un libro mette in bocca ad Isacco: «Mio padre Abramo attraverso di me, Isacco, diede vita alla discendenza degli ebrei che ancora oggi lo considera quindi come il proprio “padre”». Ma dimenticare Sara non fa problema solo alla biologia: fa problema anche alla Bibbia e alla teologia.
Quanto a Rivkà/Rebecca, il suo nome compare in quattro dei sette testi, mentre nei rimanenti si nomina solo Isacco, con cui ella generò Esaù e Giacobbe. Di queste quattro occorrenze, soltanto una racconta dell’inganno che ordì perché il marito benedicesse Giacobbe e non il fratello (una sostituzione a cui Dio porrà il suo sigillo). In un altro libro, dell’inganno non si parla affatto; e nei due restanti esso è attribuito a un’idea di Giacobbe stesso.
Anche nel caso di questa madre di Israele, dunque, il racconto dei libri di testo – quando non la nasconde del tutto – la riduce a un nome senza storia e senza importanza.
Si passa poi a quel che accade a Giacobbe dopo la fuga in Mesopotamia. Ciò che tutti i libri intendono trasmettere verte sui figli maschi di cui divenne padre. Alle donne che generarono con lui questi figli, come anche all’unica figlia che gli nacque, non è data alcuna importanza. La figlia, Dina, è menzionata solo da due testi (…).
Per tutti gli altri, Giacobbe di figli ne ebbe dodici. Il che è vero se si considera la parola “figli” in senso proprio, cioè maschi; ma essendo abituale, in questi libri, l’uso del maschile come falso neutro, è difficile per chi legge immaginare che il numero non sia completo. Anche limitandosi ai maschi, comunque, chi era la loro madre? Lia è nominata in due soli libri, come sposa e non come madre; Rachele è nominata una volta come sposa, una come sposa e come madre solo di Giuseppe, poi una volta come madre di tutti e dodici i ragazzi; in quattro testi, infine, non è presente. (…).
Dal Nilo al Mar Rosso
Sarà forse per esigenze di sintesi che nella sezione dedicata alla persecuzione che Israele subisce in Egitto nessun libro pensi di ricordare Sifra e Pua, le due levatrici che ingannarono il Faraone violando il suo ordine di uccidere i piccoli ebrei al momento della nascita, e che Dio stesso beneficò (Es 1,15-21). Si tratta però di una storia molto interessante, che mostra due donne che si oppongono un potere ingiusto e molto più grande di loro.
Sarà forse ancora per esigenze di sintesi che tutti i testi in cui si parla della nascita di Mosè raccontano l’idea della madre di affidarlo al fiume Nilo e il ritrovamento da parte della figlia del Faraone, ma nessuno dà spazio a quanto avvenne fra il ritrovamento e il giorno in cui l’ebreo salvato dalle acque fu effettivamente portato a palazzo e «fu per lei come un figlio». I due eventi vengono presentati come immediatamente successivi uno all’altro, ma così non è. Fra i due, infatti, la Scrittura racconta l’iniziativa autonoma della giovanissima Myriam, sorella del neonato, che seguì la figlia del Faraone, le propose di trovare una balia per il bambino e condusse da lei la madre, la quale così poté rimanere con il figlio ancora per un po’ di tempo e continuare ad allattarlo, ricevendo per questo anche un salario (Es 2,4-8). Una sorella coraggiosa e astuta, un bel modello che però non viene raccontato.
Da adulta Myriam (o Maria, ndr) ebbe un ruolo importante nella storia che segue la liberazione dalla schiavitù egiziana – «Ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, ti ho riscattato dalla condizione servile e ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria», ricorda il Signore secondo il testo di Michea (6,4) – e la sua presenza autorevole si nota già nel momento in cui le acque del Mare dei Giunchi si richiudono sopra gli egiziani:
«Quando i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri furono entrati nel mare, il Signore fece tornare sopra di essi le acque del mare, mentre gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare. Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: “Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!”» (Esodo 15,19-21).
Questi versetti – che testimoniano fra l’altro il protagonismo liturgico delle donne – sono tutto ciò che resta di un canto ben più antico rispetto a quello attribuito a Mosè e agli Israeliti che compare nei versetti precedenti, e sono esclusi dal Legionario della Veglia pasquale, che si ferma al v. 18. Dei cinque libri che parlano dell’esultanza del popolo sopravvissuto indenne al passaggio del mare, uno è generico e privo di rimandi al testo biblico, due si riferiscono solo al cantico di Mosè, mentre un altro rimanda alla lettura dei versetti fino al 21. L’ultimo libro è l’unico a menzionare esplicitamente Myriam, e propone nel Quaderno Operativo un’attività sulle parole del suo canto, preceduta dalla citazione letterale dei versetti con cui esso è introdotto nel testo biblico. Troviamo perciò in questa scheda l’attributo che le è proprio, quello di profetessa, assente invece nella pagina del libro a cui l’attività si riferisce, dove Myriam è appellata semplicemente come «sorella di Mosè».
Profetessa e giudice: non pervenuta
Myriam è dunque profetessa solo una volta, e nemmeno nelle pagine del libro di testo; ma le altre profetesse di Israele non compaiono affatto. Se è comprensibile che i percorsi IRC riservino un certo spazio ai profeti “maggiori” o comunque a quelli che danno il nome a uno dei libri canonici, è più difficile capire come mai la profezia femminile attestata nella Bibbia non sia mai citata nei punti in cui si spiega il significato del termine “profeta” e il suo ruolo nella vita del popolo Israele: la profezia è sempre attribuita a uomini pieni di coraggio e di fede, inviati da Dio per parlare in suo nome; anche l’unico caso in cui si legge «Profeti: uomini e donne scelti da Dio per annunciare al popolo il suo messaggio» è contraddetto dalle illustrazioni, che mostrano solo maschi, e dai testi immediatamente successivi, che tornano al concetto esclusivo di «uomini di fede».
Profetessa è anche Debora, che ricopre inoltre la carica di Giudice (annoverata fra i “grandi”) ed è protagonista assieme a Giaele – «benedetta tra le donne» – di una clamorosa vittoria con cui «Dio umiliò [...] Iabin, re di Canaan, davanti agli Israeliti» (Gdc 4,1-23). Un testo la esclude implicitamente affermando che «dopo Giosuè il popolo fu guidato da uomini saggi detti Giudici per guidarli contro i nemici», ma il suo nome non compare nemmeno in un altro libro che parla esplicitamente di questo ufficio e menziona come esempi Sansone e Gedeone. Debora non è citata neppure nelle pagine in cui uno dei libri si propone di «far conoscere alcuni personaggi meno noti della Bibbia», e parla di Giosuè, Samuele e Geremia.
NUOVO TESTAMENTO: PER CHI È LA BUONA NOTIZIA?
(…) Amicizie e discepolato
Uno dei tratti dominanti con cui viene rappresentato Gesù nei primi tre anni di scuola Primaria è quello dell’amico: amico dei poveri, degli emarginati e dei malati, amico dei piccoli e dei grandi. L’amicizia è però anche una delle categorie in cui viene iscritto il discepolato e, soprattutto, ciò che connota la formazione del gruppo dei Dodici. Questi ultimi sono in alcuni casi definiti come “gli” amici di Gesù, mentre tutte le altre persone ricevono da lui gesti di amicizia rimanendo fuori, però, da una relazione scambievole e duratura; il messaggio che implicitamente può passare è quindi che l’amicizia propriamente detta con Gesù sia riservata agli uomini.
In altri casi, invece, i Dodici sono definiti amici «speciali» o «con un incarico speciale» o «che stavano sempre con lui» o «i primi», ma ci sono altre persone con cui Gesù è presentato in relazione di reciprocità; in realtà questa categoria di persone si riduce, nei testi così impostati, a Marta, Maria e Lazzaro di Betania, ma è importante perché introduce l’idea che un’amicizia vera con lui fosse possibile e concreta per persone di entrambi i sessi. In una terza area sembra siano collocati coloro che vengono chiamati «discepoli», nei casi in cui questo termine non viene usato come sinonimo per i “Dodici” o gli “Apostoli”. Un libro definisce come discepoli «i molti (che) lo ascoltano, credono in lui e lo seguono»; in un altro vengono citati i settantadue mandati in missione. E ancora, in uno dei volumi: «Molti discepoli di Gesù continuarono a vivere dove erano sempre vissuti e a esercitare la loro professione; come Nicodemo, Marta, Maria e Lazzaro». Il discepolato riguarda quindi, pare di capire, sia uomini che donne, ma raramente questa duplice presenza viene esplicitata: oltre all’esempio di coloro che rimanevano nel proprio villaggio, troviamo solo un altro testo che spiega: «Poi (dopo i Dodici) aveva chiamato altri discepoli e tra essi anche alcune donne» (nell’illustrazione si vede Gesù attorniato da un gruppo compatto in cui sono presenti, oltre ai Dodici, tre uomini e una donna). In soli due libri ho registrato riferimenti, per quanto molto generici, al discepolato itinerante femminile al seguito di Gesù (…). Attenzioni importanti, che tuttavia non restituiscono il senso attribuito dai vangeli, pur nell’estrema sintesi delle formulazioni, al gruppo di discepole che saranno poi messe in primo piano nei giorni della Pasqua, dopo essere salite con Gesù dalla Galilea a Gerusalemme.
Dal punto di vista dell’impatto complessivo, l’impressione è che, per i temi trattati dai libri IRC in questa fascia d’età, l’innegabile rimozione di questi volti e nomi di donne dal gruppo che seguiva stabilmente Gesù non dia luogo, rispetto al maschile-femminile, a un’immagine particolarmente asimmetrica. Nelle pagine dedicate al Nuovo Testamento prevalgono infatti quelle in cui in primo piano c’è Gesù a diretto contatto con la gente comune: un mondo che – come vedremo – ci viene restituito con un’attenzione piuttosto equilibrata sia alla presenza dei due sessi che alla coesistenza di diverse generazioni.
Tuttavia non si può affermare che quella stessa rimozione resti senza conseguenze. Lo vedremo più avanti nelle pagine dedicate alla Pasqua e alla Pentecoste, ma anche il caso di Marta, Maria e Lazzaro offre un segnale. Le due sorelle e il fratello di Betania rientrano nella categoria del discepolato solo nel caso citato poco sopra; normalmente sono considerati “amici”: «Quando Gesù sentiva il bisogno di riposare un po’ stando in compagnia di amici veramente cari, era solito andare a Betania, dove vivevano Marta e Maria assieme al fratello Lazzaro». La categoria affettiva fa premio sull’altra, e così – mentre in almeno un caso è ricordata la disputa sulla “parte migliore” – nessun libro menziona la professione di fede messianica pronunciata da Marta e riferita in Gv 11,27 («Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo»): né quando Marta è presentata come personaggio a sé, né raccontando la risurrezione di Lazzaro, e nemmeno in occasione di un riepilogo su cosa vari individui e gruppi (da Pietro agli spiriti immondi) pensassero di Gesù. (…)
Dal Golgota a Pentecoste: chi c’era e chi non c’era
Un disegno a tutta pagina in cui si vede Gesù in croce, morto, osservato con meraviglia e pensosità da un gruppo di cinque uomini, di cui uno abbigliato da centurione, con un piccolo cartiglio che dice: «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre Gesù gridò molto forte e morì»; e un piccolo disegno che raffigura, ai piedi della croce su cui Gesù è morto, tre donne e un uomo, di spalle. (…) Fra tutte quelle dei libri esaminati, queste sono le immagini della crocifissione più aderenti ai testi del vangelo, nella duplice versione dei sinottici da una parte e di Giovanni dall’altra. La tendenza prevalente che si riscontra, infatti, è quella di fondere in vario modo le due tradizioni, oppure di recepirne una (quella giovannea) apportando però sostanziali modifiche rispetto al testo biblico, con conseguenze sulla presenza o assenza delle figure maschili e femminili e sul suo significato, così come accadrà nelle pagine dedicate alla risurrezione di Gesù.
La maggior parte dei libri segue Giovanni nel porre «presso la croce di Gesù», con un testo e/o un disegno, la madre di lui. In un caso (...) viene a mancare la presenza del «discepolo che amava», e la scena, per quanto riguarda il seguito di Gesù, perde l’unico rappresentante maschile citato nella Bibbia. Nel disegno, poi, le donne diventano una sola, inginocchiata in atteggiamento orante e affiancata da un perplesso centurione.
In tutti gli altri casi avviene una distorsione in senso contrario. Il «discepolo che amava» (sempre impropriamente identificato con Giovanni) c’è; in uno dei libri, anzi, di questa presenza si dà notizia in anticipo, diverse pagine prima, quando alcuni dei Dodici si presentano e Giovanni dice di sé: «Tra tutti i Dodici io ero il più giovane. Quando Gesù fu crocifisso sono rimasto accanto alla sua croce assieme a Maria, sua madre». Il che corrisponde a quanto riferisce il quarto vangelo. Ma corrisponde solo in parte, perché «stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre Maria di Cleopa e Maria la Maddalena. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse....».
Ecco, di queste altre due “Maria” i libri non parlano. Rimangono solo la madre di Gesù e “Giovanni”. (…). Giunge l’alba del primo giorno della settimana, e quasi tutti i libri riferiscono che «le donne» o «alcune donne» andarono al sepolcro, e lì ricevettero da uno o più angeli la notizia della risurrezione di Gesù. È difficile, per chi legge, capire l’identità di queste donne e il motivo per cui sono lì, dal momento che i libri non le hanno nominate nel seguito itinerante di Gesù, e neppure quando stavano sotto la croce, né mentre «osservavano da lontano» (Mc 15,40-41) e poi seguivano Giuseppe d’Arimatea e fissavano bene in mente il luogo e il modo dell’affrettata sepoltura. È come se fossero capitate lì per caso.
(…) Quel mattino, ad annunciare alle donne ciò che è accaduto, non ci sono solo l’«angelo», o il giovane «vestito d’una veste bianca», o i due uomini «in abito sfolgorante» (…). C’è Gesù stesso. La narrazione più famosa in questo senso è quella giovannea dell’incontro fra il Risorto e Maria Maddalena, che diversi libri (…) prendono in considerazione. Tuttavia questa non è l’unica, perché Gesù – nominato come tale – appare a Maddalena e all’«altra Maria» anche nel testo di Matteo (28,9-10): il Risorto «venne loro incontro»; esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono; «Allora Gesù disse loro: Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vado in Galilea: là mi vedranno». Di questo incontro Luca non parla. I libri che non seguono il quarto vangelo scelgono sempre tra Luca e Matteo, escludendo Marco forse perché, interrompendosi subito dopo l’annuncio che Maria Maddalena, Maria di Giacomo e Salome ricevono dal giovane al sepolcro, pone maggiori problemi per il collegamento con il seguito della storia. Ma, appunto, tra Luca e Matteo c’è una differenza non irrilevante. La scelta però cade sempre su Luca, ad eccezione di un unico caso in cui è dato ampio spazio alla narrazione di Matteo. Gli altri, anche quelli che rappresentano solo due donne al sepolcro, e quindi dovrebbero riferirsi al primo vangelo, rimandano invece alla lettura del terzo, in cui il Risorto non si manifesta alle donne. Nella sintesi che danno di quest’ultimo, inoltre, trascurano qualunque accenno al «ricordate come parlò a voi quando era ancora in Galilea… e ricordarono le parole di lui», che è parte integrante dell’annuncio riferito da Luca. Viene così a mancare un’altra significativa conferma del fatto che le discepole avessero fatto parte del gruppo stabile più vicino a Gesù.
In diversi casi i libri scelgono invece di seguire il testo di Giovanni, a volte integrato con l’aggiunta di angeli o altre donne; da esso traggono questi elementi: Maria Maddalena va al sepolcro ma lo trova vuoto. Piange, le appare un uomo che lei scambia per il giardiniere. Poi lui la chiama per nome, lei capisce che è Gesù, lui la manda ad annunciare quello che è successo. Il giusto rilievo che viene dato all’esperienza straordinaria della Maddalena (quando le bambine e i bambini saranno più grandi potranno capirne la struttura paradigmatica e come non sia casuale che il racconto si trovi nel quarto vangelo) fa però perdere per strada qualcosa. O meglio, qualcuno. Di Pietro e “Giovanni” che corrono al sepolcro i libri quasi sempre si dimenticano, sebbene nel vangelo la loro corsa sia collocata proprio fra la scoperta che il sepolcro è vuoto e il colloquio con il giardiniere-Gesù. I due momenti sono invece presentati come consecutivi: la prima conseguenza è che viene annullata, appunto, la presenza maschile al sepolcro; la seconda è che anche l’esperienza della Maddalena risulta in qualche modo alterata, perché non emerge il fatto che il Risorto le si manifesta appena i due uomini se ne sono andati, facendo di lei l’inviata portatrice di un messaggio che invece lui stesso avrebbe potuto trasmettere direttamente ai due arrivati di corsa. (…).
DA DUE A UNO
Tutto era iniziato in quel Giardino in cui, in un modo o nell’altro, si era capito che «maschio e femmina li creò» (…). Senza il “due”, si doveva intuire da quelle pagine sugli inizi, non c’è umanità.
Adamo e Eva ricompaiono proprio a Pasqua, grazie a un libro che spiega i riti ortodossi della notte della Risurrezione. Ad accompagnare il testo c’è la fotografia di una croce pasquale che presenta, ispirandosi a miniature armene del X-XI secolo, le tappe fondamentali dell’ultima settimana di Gesù. Una di queste è la Discesa agli inferi. Il Cristo, vittorioso sulla morte, afferra il polso di Adamo, raffigurato più in basso con le ginocchia piegate, vestito di una tunica marrone; la figura del primo uomo è sovrastata da quella di Eva, «la madre dei viventi», che sta dietro di lui, in piedi, e indossa un abito di colore rosso acceso (il sangue, la vita); la mano, coperta dalla veste in segno di adorazione, è appoggiata sul polso del compagno, alla congiunzione con la stretta del Risorto. Come leggere questa icona? Secondo la Guida per l’Insegnante, «Cristo... è sceso agli inferi per riportare al Padre l’intera umanità rappresentata dalla figura di Adamo che sta sollevando». Possiamo dunque congedarci da Eva, che pare non serva più: nella nuova creazione il due è diventato uno, e si chiama Adamo. (...).
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