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La memoria viva del 25 aprile

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 16 del 26/04/2014

Il senso di unità, la percezione del costituire una comunità e non soltanto una sommatoria di individui, la dimensione dell’essere nazione non solo per essere contenuti negli stessi confini geografici sono tutti elementi che dovrebbero contribuire a far sì che un Paese sia realmente tale. 

Chi scrive non è affatto sedotto dalle sirene nazionaliste. Ma un’identità va posseduta, proprio per andare incontro alle altre e comunicare: la pace non è soppressione artificiale della differenza, ma educazione al meglio di sé nella reciprocità, proprio perché siamo radicalmente segnati dall’alterità, genetica e culturale. 

Non c’è identità che possa prescindere dalla memoria. Si deve essere implacabili nel ricordo dei propri errori, ma non si nascondano le pagine luminose, scritte negli inchiostri del darsi coraggio, verità, libertà.

In questa parte di mondo in cui abbiamo radici – remote o prossime, nei vari modi di essere italiani – molto dobbiamo tutelare dall’oblio e dall’ignoranza, impedendo che, almeno nella narrazione collettiva, le nefandezze vadano in prescrizione: si tramandi con intelligenza il significato dei tempi di riscatto, le donne e gli uomini che dovettero farsi carico del disastro e riassumersi in una stagione di cambiamento.

Si dimentica il 25 aprile se ci si è assuefatti alla libertà fino a non rendersi conto che in troppi non la conoscono o che noi stessi forse non la viviamo fino in fondo, per nostra scelta o perché ce la stanno erodendo addosso. C’è chi non festeggia questa data perché è figlio di quella mentalità che dichiara le felicità possibili solo per sottrazione ad altri, continuando a pensare che i fascismi siano incidenti o minimalismi della democrazia, così affaticata da doversi permettere delle pause. Poi, intendiamoci, ci sono proprio i fascisti, che continuano a sussistere, si moltiplicano trasformandosi nei normotipi ma non certo nella genetica politica e sociale, prodotti da pessimi cromosomi di negazione dell’altrui diritto, ieri come oggi affezionati a cosiddetti valori che comprendono discriminazione, razzismi, machismi ed omofobia, tutela del privilegio, sacralizzazione di violenze e soprusi. Sacralizzazione di alcuni disvalori: la Chiesa cattolica, nelle sue gerarchie e in buona parte della sua base, non è stata mai univoca in tal senso riguardo al fascismo, non ne ha che raramente sconfessato alcuni presupposti ideologici, ha consentito pericolose coabitazioni, ha taciuto quando una parola fondata sul Vangelo non poteva che esprimere con chiarezza la fedeltà all’umano, senza scivolare nei consueti parzialismi.

È mia radicata convinzione che l’antitotalitarismo, e in dettaglio l’antifascismo, siano parti integranti dell’identità di fede. Poche comunità cristiane hanno fatto proprie le dimensioni valoriali di un patrimonio che sarebbe dovuto essere assolutamente comune, come quello della Resistenza. Confrontarsi con la storia è dichiarare con chiarezza il torto del carnefice e la ragione delle vittime, senza ambiguità, con molta onestà, con un senso autentico di verità e quindi di futuro. Tanto per levarsi il pensiero con un esempio: quel Beato ecclesiale che dichiarava il sangue versato da Pinochet in Cile «sangue necessario» (Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, nel 1974 disse: «Pinochet ha sparso molto sangue, ma era sangue necessario», ndr). Non mi convincerete mai che lo sia davvero. Nel Martirologio del clero italiano 1940-1946 troviamo (con qualche difficoltà su fonti e criteri) 425 preti uccisi, 191 dai fascisti, 125 dai nazisti, 109 per mano partigiana, presentando un dato indicativo che non vuol dimenticare i membri laici cattolici e chi apparteneva ad altre Chiese. Su questo ed altri elenchi ci sia volontà di una riflessione che superi le dietrologie per rifondarsi su una fedeltà alla tutela delle persone e dei loro diritti.

Essere componente di Libera-Associazioni, nome e numeri contro le mafie, mi consente, per averla conosciuta, di raccontare una storia di oggi, che attiene al senso profondo di quanto di prezioso avvenne 69 anni fa. Il 19 gennaio è morto Michele Liguori, che – da solo – costituiva il nucleo ambientale della polizia municipale di Aversa: sto quindi parlando della cosiddetta Terra dei fuochi e di chi, da tempo, analizzava, studiava, indagava e denunciava su questo orrendo sopruso, questa rapina continuata del futuro di un territorio vastissimo e splendido. Denunciava, ma senza esito, e i camorristi, come sentiamo nelle intercettazioni telefoniche, lo prendevano in giro, chiamandolo con disprezzo «O’ vigile chiatto co à barb», forti di quelle collusioni che rendevano inutili le sue denuncie. Dopo 7 anni di indagini lo hanno spostato ad aprire il castello del paese perché era considerato troppo zelante. Poi, per due anni, è tornato al suo incarico. Michele si è ammalato di cancro, per quel che respirava toccava e calpestava facendo il suo lavoro. Nella sua ultima intervista quest’uomo fa due affermazioni, una terribile, l’altra bellissima. «Tornassi indietro, non lo so. Non lo so se lo rifarei. Il mio lavoro non è servito». Ma poi aggiunge: «Questa è la terra di mio padre e di mio figlio, non potevo far finta di non vedere. A me i vigliacchi non sono mai piaciuti».

Mi piace pensare che le donne e gli uomini che dissero con le loro vite no alla barbarie del totalitarismo fossero in questa logica e che Michele Liguori li abbia raggiunti, nel qualche dove di bellezza in cui amiamo pensare i giusti. Di certo, essere antifascisti oggi, insieme a molte cose, significa di sicuro voler continuare a vedere e narrare con decisione quel che si è visto. Significa ricordare che quella parte di noi, che vigliacca passa oltre a dove si commette ingiustizia senza compromettersi nell’affrontarla, non ci deve piacere, non ci piace, non ci piacerà mai. Ora e sempre. Resistenza: come riesistere ad ogni forma di morte, resuscitare contro ogni potere di morte.

* Parroco a Sant’Andrea in Percussina (Fi), giornalista, fa parte del direttivo della rivista “Testimonianze” e del Comitato tecnico-scientifico della Fondazione “Ernesto Balducci”

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