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Lo sguardo sul mondo dalla periferia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 20 del 31/05/2014

Caro papa Francesco, mi chiamo Francesca e sono parte della Comunità di base delle Piagge, che si trova nell’estremità nord-ovest della città di Firenze, in una periferia sorta dal nulla intorno alla metà degli anni ‘70 del secolo scorso. (…) Quando pensiamo alla città di Firenze, è difficile immaginare altro rispetto al centro storico con i suoi palazzi rinascimentali e il fiume Arno che l’attraversa, che a guardarlo dalle colline, al tramonto, toglie davvero il respiro, tanta è la sua bellezza.

Ma Firenze è anche altro, purtroppo e per fortuna. È agglomerati di palazzi senza connotazione storica ed umana, è spazio vuoto che non invita ad uscire di casa, è insediamenti che relegano e non liberano, è assenza di piazze e di identità, è mancanza di luoghi di incontro. Firenze è anche altro e stenta a riconoscersi in esso, fa finta che non ci sia, lo rimuove e lo oscura.

La periferia delle Piagge non è un’eccezione, ma una triste consuetudine (come se ne vedono molte in Italia ed oltre) di amnesia urbana, di rimozione dell’obiettivo primario della costruzione di un insediamento urbano, che è quello di farvi abitare le persone e di dare loro un’ulteriore possibilità di felicità. Ecco, alle Piagge la sensazione è che chi le ha progettate e costruite non avesse in mente che in esse un popolo avrebbe dovuto insediarsi, vivere, crescere, nascere e morire; si è costruito senza un criterio, senza un piano sociale ed umano, senza la consapevolezza di star facendo una parte di città. Ed infatti ciò che più di tutto connota Le Piagge sono le assenze: è più facile descriverla per mancanze, è più facile esporre quello che non è, rispetto a quel che è.

Alle Piagge, come in altre periferie urbane, non c’è la piazza, sostituita da grandi spazi verdi inutilizzati e dal centro commerciale, che vorrebbe esserne il surrogato. Non c’è la piazza e quindi non c’è il luogo identificativo di un insediamento urbano, non c’è l’ambiente di tutti nel quale riunirsi, parlare, giocare e passeggiare, e la vita di ognuno è spinta e si esaurisce nel privato, in un privato sempre più ristretto ed impaurito. Alle Piagge, in poco tempo, sono venute ad abitare tante persone, tante famiglie, provenienti da altrettante parti di Firenze e d’Italia, che portavano con loro molteplici complessità, pesantezze e difficoltà. In uno spazio delimitato, ristretto ed isolato sono state assommate vite e storie senza nessun tipo di sostegno e di aiuto. Tutte queste vite, tutte queste storie hanno allora avuto tanta difficoltà ad amalgamarsi, ognuno ha cercato di proseguire la propria strada e chi non ne aveva più una ha provato a tesserla di nuovo, ma non c’era nessuna identità comune a cui sorreggersi, e tante storie sono andate perdute.

Quel che più di tutto manca alle Piagge, è la consapevolezza di essere parte di un territorio, di una realtà umana che oltrepassi la propria ristretta cerchia familiare (…). La periferia urbana diventa allora anche periferia sociale ed umana, nella quale la città è meno città ed anche i progetti di futuro personali e collettivi sono filtrati attraverso le maglie strette della marginalità e del sentirsi spinti fuori le mura.

Dentro a questo estremo lembo di città, nel 1994, è nata un’esperienza di Comunità di base (…). Era il tentativo di provare a sviluppare, in un contesto di periferia urbana, una diversa modalità pastorale, che sorgesse dal basso, incarnandosi ed immergendosi nella vita reale delle persone. L’obiettivo principale di questa esperienza era, e tuttora è, creare comunità, a partire dal proprio territorio di residenza, riacquistare voce e restituire dignità ai luoghi che si abitano e all’umanità viva e varia che in essi si muove.

In questo percorso di rinascita e di liberazione civile, umana e spirituale, in senso pieno ed ampio, si sono riconosciute tante persone che attendevano un segno di primavera. Dal poco che c’era si è tentato di ricostruire ambienti di socialità, di presa di coscienza e di assunzione di responsabilità, personale e collettiva, e le persone hanno cominciato a riprendere coraggio, parola e speranza. Ci siamo soprattutto resi conto che è essenziale modificare il punto di vista dal quale osserviamo il mondo intorno a noi: una cosa è guardare la città, e tutto ciò che in essa si muove, dal centro, altra cosa è guardarla a partire dalla periferia. Tutti i punti di riferimento si confondono, cambiano le valutazioni ed i giudizi sul reale. L’ottica della periferia spande una luce diversa su ogni ambito del vivere civile, umano e spirituale, perché è l’ottica di chi non ha, di chi non ha mai avuto o di coloro cui è stato tolto, è l’ottica del resto, dal quale è necessario ripartire per tessere storie umane nuove.

Le Piagge sono costituite da grandi palazzi in cemento armato, che non invitano al contatto umano e che rinchiudono, chi vi abita, dentro i propri spazi privati. Sono, come tante altre periferie, il luogo in cui le istituzioni, civili e religiose, hanno purtroppo mostrato i loro lati peggiori, che sono quelli della distanza, della disattenzione, dell’opportunismo e della noncuranza. Si è allora resa tangibile la necessità di ridurre ogni soglia che potesse impedire il libero accesso, l’entrare e l’uscire, per permettere ad ognuno di sentirsi accolto ed atteso nella gratuità. 

La comunità delle Piagge è diventata un punto di riferimento per tutti coloro che si riconoscono resto, che sono messi ai margini e non sanno come uscirne, che sono tenuti lontano per il loro orientamento sessuale, il loro stato sociale o la loro origine culturale; perché è così facile relegare l’altro, diverso da noi, in un angolo, trattandolo con accondiscendenza ma senza mai mostrargli la parte più vera di noi stessi. In questo modo il resto si sente accolto a metà, circondato dalla superbia, esplicita o celata, di chi si ritiene dalla parte giusta della barricata, di chi rimane, protetto, dentro le mura. Sono convinta che ogni essere umano abbia diritto alla bellezza, bellezza estetica ed interiore, bellezza sociale e spirituale. Con bellezza intendo tutto ciò che spinge ad alzare lo sguardo da terra, che fa respirare ed uscire da noi stessi e porta a sentirci parte di qualcosa che ci oltrepassa e ci contiene. Quando cammino per le strade storiche della mia città la bellezza mi pervade, perché mi sento dentro ad una storia che mi accomuna a tutti coloro che hanno contribuito a costruire la città, tutti coloro che lì hanno vissuto, sorriso e sofferto, coloro che hanno posto pietra su pietra, storia su storia. Quando cammino per le strade delle nuove periferie invece ogni muro, ogni strada sembrano muti, non raccontano storie, non rimandano a niente; ci si sente perduti, soli in un contesto che non accoglie e non raccoglie il nostro passato, ma ha invece la presunzione di negarlo, di omologarlo: in periferia il luogo che abitiamo non ci chiede niente e non ci riconosce. Questo senso di estraneità e di non-cura, dall’esterno entra dentro e si deposita in chi si trova ad abitare la periferia: l’assenza di un passato riconosciuto che si fa storia collettiva, intacca anche la possibilità di vivere insieme il presente e di progettare un futuro comune.

Ed allora in questi luoghi è sempre più necessario aprire cantieri di bellezza e di umanità, che sradichino la rassegnazione, l’abitudine al brutto e svelino la sapienza dei luoghi e delle persone, per riportare al centro di ogni azione, non il denaro, non l’istituzione, non le regole senz’anima, ma l’essere umano nella sua integrità e pienezza. E tutto ciò significa aprire ed abbracciare, accogliere e perdonare, sempre.

La comunità delle Piagge prova, con tanti errori, cadute e battute d’arresto, ad essere un cantiere che, partendo dalle assenze e dalle mancanze proprie della periferia, lavora con il poco, con il piccolo. Abbiamo scoperto che il percorso non può più essere quello di partire dal poco per arrivare al molto, dal piccolo verso il grande, dal differente per arrivare all’uguale, dalla comunità verso la parrocchia, in un continuum orizzontale; viceversa il poco rimanga tale, in una pastorale del minimo dove la costruzione della comunità umana e cristiana viva e si fortifichi dando spazio al minimo, al minore di Francesco d’Assisi. Solo così credo sia possibile scendere in profondità, lasciare un segno, trovare l’essenziale e, intorno ad esso, costruire percorsi di dignità e di liberazione di se stessi e degli altri.

Io, allora, non posso che ringraziare per avere la possibilità di vivere dentro questa esperienza di comunità umana di periferia, anche se tante volte è difficile continuare a camminare, (…) anche se certe volte la sensazione di essere minoranza pesa sulle nostre schiene come un macigno e ci fa tremare le gambe. Non posso che ringraziare perché immergermi nella periferia mi ha fatto cambiare il modo di vedere il mondo: ho aperto gli occhi e ho visto un’umanità ripiegata dagli stereotipi, dal pregiudizio, dalla povertà subìta e non scelta. Ho scoperto quanto sia determinante il luogo nel quale si vive: non è vero che l’importante è come si è dentro, no, l’importante è anche com’è l’intorno a noi, su che cosa si posano i nostri occhi e che cosa ascoltano le nostre orecchie. Ho sperimentato il valore di una ecologia umana che nasca dalle relazioni con gli altri, la base di ogni percorso di liberazione. Non si impara da soli, non si cresce da soli, serve sempre qualcun altro, qualcuno che ci abbia a cuore, qualcuno che ci sogni e che sogni insieme a noi; perché, ne sono convinta, ciascuno cresce solo se sognato, come si legge in una poesia di Danilo Dolci.

* Insegna italiano agli stranieri nella scuola primaria e secondaria di primo grado. La lettera è tratta dal volume “Caro Francesco. Venticinque donne scrivono al papa” (v. box accanto)

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