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Costretti o consapevoli, comunque marginali

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 26 del 12/07/2014

Giovanni carissimo, grazie per la tua Autobiografia di un cattolico marginale: mi ha riempito di consolazione e di speranza (v. Adista Notizie n. 20/14; il libro può essere richiesto ad Adista, tel. 06/6868692; e-mail: abbonamenti@adista.it; sito internet: www.adista.it, ndr). Il sentimento di gratitudine è personale, ma i motivi che lo suscitano sono di interesse comune: la tua autobiografia è del tutto trasparente e rende ragione e testimonianza di quella marginalità che è dimensione tanto sommersa quanto vitale in una Chiesa a cui possono riferirsi le parole di Mt 23,29-30: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: “Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti”». La tua voce non è solo mera rievocazione o semplice rivendicazione, ma risuona forte in un deserto di perbenismo e di autosufficienza che rende impermeabile l’intera Chiesa, in cui domina il conformismo e in cui non c’è posto per una qualsiasi dialettica. Ecco perché la tua vicenda e la tua testimonianza non devono essere coniugate solo al passato, ma devono aprirci gli occhi sul presente e orientare lo sguardo verso il futuro. Quello che tu hai vissuto e quello che ha preso vita intorno a te non sono che la traccia di quella dimensione di marginalità senza cui la Chiesa sarebbe un corpo inanimato, magari con una sua collocazione sociale di prestigio ma non più sale o lievito della terra.

È proprio questa istanza di fecondazione che tu hai raccolto come consegna dal Concilio ed hai cercato di sperimentare con tutti i crismi per dare vita a quel modo di essere Chiesa che non poteva rimanere pronunciamento magisteriale o acquisizione teologica, ma postulava una giusta materializzazione. In questo senso il tuo cammino è emblematico di un’epoca al tempo stesso in cui rimane indicazione di marcia anche oggi: la tua testimonianza ci fa capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di esemplare e punto di riferimento rispetto a molteplici esperienze e situazioni simili più o meno riuscite o abortite: fino a riproporre, a rilanciare la medesima istanza oggi, per uscire criticamente da situazioni di stallo e di acquiescenza che permangono “nonostante Francesco”, preferendo pensare che si tratti di “cose di altri tempi” date ormai per risolte o superate.

Le tue lucide e serene parole rafforzano la mia convinzione sulla necessità di raccogliere l’eredità che potremmo chiamare riduttivamente “delle Comunità di Base”, per un ripensamento critico e dialettico di quell’“aggiornamento” programmatico che sappiamo da dove nasce. Mi riprometto di tornare ad attingere dalle tue memorie per farne tesoro anche per il dibattito attuale, che sembra però non avere interlocutori, tanta appunto è la sicumera di una Chiesa trionfante che non si rende conto di quanto sia essa stessa marginale e di quanto disattenda o misconosca chi cerchi di rientrare nel mondo, che sembrava essere stato rimesso al suo ordine del giorno. Per il momento mi soffermo su un aspetto particolare, anche perché mi sembra che, tra le tante situazioni critiche del dopo-Concilio, la vicenda di San Paolo Fuori le Mura sia l’unica o una delle poche che metta a fuoco la questione vita religiosa-Concilio.

Trovo espressa questa problematica in due parole chiave che evochi nel libro, claustrum e forum: cioè il ruolo di monasteri e conventi in ordine al movimento di riforma che attraversava tutta la Chiesa. Si trattava, come scrivi, di «un più vasto pubblico interessato a fruire della cultura e degli spazi architettonici del claustrum… consentendo ai monaci che lo avessero voluto di porsi come interlocutori tra il claustrum e lo spazio che si chiamava forum». E giustamente osservi: «Qui c’è il nucleo di ogni successivo, anche inatteso sviluppo. Parlandone con Paolo VI lo trovai tuttavia tiepido verso l’ipotesi di un’apertura al forum, forse perché lui aveva sperimentato l’uso del claustrum per ritiri con élite religiose e spirituali e voleva che fosse conservato a questo scopo». È una ambiguità permanente mai risolta!

Ho colto questo punto per una ragione semplice: anche nel nostro caso – mi riferisco a quanto può richiamare il nome Koinonia – siamo partiti da questa precisa istanza, sollecitati come frati domenicani dal clima generale dei primi anni ’70, dalla partecipazione alla vicenda dell’Isolotto e anche dall’influsso della comunità di San Paolo con cui eravamo in contatto. Dicendo chiaramente che per noi l’ipotesi di lavoro claustrum-forum è più che mai aperta, mi permetto di rilevare qualche differenza di percorso o di accentuazione.

Tu sei stato indotto o costretto alla marginalità a partire da responsabilità istituzionali di vertice (dall’alto del Concilio!), sapendola accettare personalmente e valorizzandola come stile di Chiesa. Per noi la marginalità è stata una scelta di fondo iniziale, quasi un’avventura, che ci ha portati a vivere ed operare al di fuori di strutture conventuali e pastorali riconosciute, nella convinzione che avere lo stesso odore del gregge (come viene detto oggi) fosse la condizione primaria per poter condividere il Vangelo. Ci siamo mossi al di fuori di qualsiasi ruolo, senza alcuna qualifica e identità, in piena libertà di spirito per quanto sempre sotto squalifica e richiami di esautoramento da parte delle istituzioni. Questo però non ci ha impedito di vivere ed agire per quanto “non esistenti”, così come non impedisce di andare avanti ora in tutta precarietà ma con la stessa passione nel cuore. In fondo, non si tratta di una scelta che un’istituzione in quanto tale stenta a condividere senza mettere in discussione se stessa?

In ogni caso si spiega così come non solo sia mancata una collocazione ecclesiale e pastorale riconosciuta, ma anche il fatto che l’impegno espresso non abbia avuto rilevanza sociale o politica precisa, non per mimetizzarsi ma per lasciare che ciascuno traesse liberamente da una comunione vissuta ispirazione e orientamento evangelici, facendo leva sulla maturità e responsabilità di tutti. Non ci siamo lasciati inquadrare in schemi preconfezionati di convalida ufficiale, evitando al tempo stesso di indossare i panni che questo o quell’altro ti mettevano addosso a proprio piacimento. Si direbbe che la materia prima del nostro lavoro è offerta dai rapporti umani interpersonali, sempre banco di prova di ogni vissuto e di ogni iniziativa a più vasto raggio: in ultima analisi è qui il piano in cui si verifica il senso stesso della vita attiva e associata, là dove «né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano» (Mt 6,20), là dove ciascuno abbia la sua dignità e sia nella sua pace. Là dove il Padre vede nel segreto! Che è interiorità senza essere intimismo!

La cosa importante, comunque, è che da punti di partenza diversi ci ritroviamo poi a condividere la stessa condizione di marginalità, non importa appunto se indotta e accettata o se voluta per scelta.  Sento risuonare questa convergenza nella tua narrazione da tutto l’insieme di una esperienza condivisa e soprattutto in queste parole: «Noi dobbiamo lavorare faticosamente per un mondo migliore, ma questo non coincide con la sua effettiva realizzazione. Gesù Cristo non ebbe questa visione: non era un progettualista. Ci chiese: “Credete che quando il figlio dell'uomo tornerà troverà la fede sulla terra?”. Ha buttato via la sua vita senza sapere se sarebbe servito. Se fosse stato una persona assennata sarebbe rientrato a Gerusalemme a cavallo e si sarebbe ripresentato dal sommo sacerdote. Gesù non agisce mai politicamente, non è suo interesse farlo. Non è un rivoluzionario, è un sovversivo: urta il potere, ma non ha il concetto del piano quinquennale, degli alleati, delle tattiche. È suo interesse costruire una comunità di fede che riproponga il suo regno».

Una comunità di fede è quella che si ritrova in comunione effettiva nello spazio e nel mondo del credere, prima ancora che come fatto celebrativo e non importa se in maniera visibile o invisibile! È la sfida che abbiamo davanti e cioè quella di un possibile aggancio di credenti senza Chiesa e di una Chiesa di praticanti: la fede insomma non più come monopolio ma ponte! È così che la dimensione di laicità, lo spessore ecumenico, l’attitudine al dialogo non sono più appendici o surrogati dell’esistente, ma si trovano nello stesso dna di ogni comunità di credenti, ridotta sì ai minimi termini come apparato, ma la cui forza è prima di tutto nella fede del cuore.

Proprio nella marginalità si ritrova quel tesoro della fede che «messa alla prova, molto più preziosa dell'oro, destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà» (1Pt 1,7). Nessuna deriva spiritualistica o liturgistica, ma realismo estremo di una Chiesa che “vive di fede” come ogni giusto e non si sostiene invece con altre forze: ed è di questa sua povertà che può fare ricco il mondo, rimanendo o rimettendosi ai margini!

Se un po’ di quel fuoco che ci ha animato in anni lontani può essere ancora acceso non è per rimpianto o nostalgia ma per condividere tra noi e con gli altri la stessa ansia di Gesù: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). La tua testimonianza e il tuo libro alimentano questo fuoco!

*Monaco domenicano, animatore della rivista “Koinonia” (intervento tratto dal Forum Koinonia del 22 giugno)

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