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Per questo li uccisero

Tratto da: Adista Documenti n° 44 del 13/12/2014

Mi è stato chiesto di parlare del tipo di società per il quale i martiri della Uca sono vissuti e sono morti. Quel che mi interessa non è solo che si conosca meglio quanto è avvenuto nel passato, neppure in relazione ai martiri, ma che, a partire dalla Uca, si facciano meglio le cose del presente, tutto ciò a cui essi aspiravano. Mi limiterò a parlare dei sei gesuiti della Uca, ma ricordando naturalmente Julia Elba e Celina, Obdulio (marito e padre delle due donne, ndt), che è morto di dolore, e Lucia (Lucia Cerna, testimone del massacro, ndt) che vive ancora in California, e anche Rutilio Grande e tutto il popolo crocifisso. Parlerò dei sei gesuiti come di un gruppo, anzi, in termini più precisi, come di un corpo, cioè un gruppo articolato che, nella diversità di capacità e di funzioni, forma un tutto. Ancor meglio, un tutto all’interno di un tutto più grande che è la Uca, che è la parola della Uca. 

Ma, prima di iniziare, vorrei dire quale titolo avrei scelto per questo intervento: “Per cosa lavoravano e perché li uccisero”.

DISSERO LA VERITÀ

Mi si chiede che cosa volevano e cosa sognavano i martiri della Uca per questo Paese. Non mi risulta facile rispondere con precisione, ma in qualche modo parleranno di questo gli altri relatori, rispetto all’economia, alla dignità dell’essere umano, alla giustizia, alla politica. Io accennerò solo alla loro utopia, alla loro visione di Paese, e in forma non diretta ma dialettica, sub specie contraria, cioè a partire da ciò che non volevano, da ciò che non sognavano, da quello che aborrivano. E infine parlerò più di ciò che facevano che di quello che dicevano e formulavano. 

È per questo che voglio ricordare le parole di un contadino a proposito di chi fosse mons. Romero. La sua risposta è stata precisa e lapidaria: «Mons. Romero disse la verità. Difese noi poveri. E per questo lo uccisero». Mettere in connessione i martiri della Uca con mons. Romero non ha nulla di arbitrario. Per tre anni essi lavorarono insieme su cose assai importanti. P. Ellacuría era felice del fatto che la Uca avesse collaborato con Monsignore, aggiungendo inoltre che in questa collaborazione «non c’era dubbio su chi fosse il maestro e chi l’aiutante, chi fosse il pastore che traccia i sentieri e chi fosse l’esecutore, chi fosse il profeta che penetra il mistero e chi fosse il seguace, chi fosse l’animatore e chi l’animato, chi la voce e chi l’eco». È una cosa buona, necessaria e possibile riferirci a Monsignore nel parlare dei martiri della Uca. Ed è un bene anche richiamare le parole del contadino per esprimere le nostre, riformulando il tema in questo modo: i gesuiti della Uca dissero la verità. Difesero i poveri. E per questo li uccisero. 

Diceva Hegel che è la fine che dà senso al processo: sapere che tipo di morte hanno sofferto i gesuiti e per mano di chi l’hanno sofferta credo sia decisivo per comprendere quale Paese volessero. Il contadino ha parlato di quello che ha fatto Monsignore e ha aggiunto un «per questo». Teoricamente, Monsignore avrebbe potuto morire a causa di un’inimicizia personale, di un furto, di un atto di follia, ma il contadino ha detto che lo uccisero perché aveva promosso due realtà magnifiche e necessarie per il Paese: quella del dire la verità e quella del difendere i poveri. Posso dire lo stesso dei martiri della Uca: i sei gesuiti furono persone che dicevano la verità. Iniziare così potrebbe sembrare un po’ troppo astratto, ma è su questo che voglio porre l’accento, tanto perché si conoscano meglio i martiri della Uca quanto perché venga superato il deplorevole stato in cui si trova la verità, nel nostro Paese e nel mondo intero. Sub specie contraria, i martiri della Uca volevano un Paese che fosse imbevuto di verità. Ed ebbero un’intuizione decisiva: “così com’è non può essere”, questo pensarono rispetto al Paese. E che non fosse possibile coprire una follia di tali dimensioni. Per sua natura, questa verità portava a invertire la realtà, a cominciare dal livello universitario, attraverso l’eccellenza accademica e, in maniera ancor più decisiva, attraverso l’eccellenza universitaria, che è qualcosa di distinto e di maggiormente inclusivo. Perché, se l’eccellenza accademica comprende la ricerca e la docenza, quella universitaria, così come essi l’intendevano, implicava la comprensione dell’università come un tutto con la società. 

In definitiva, dire la verità è assumersi il compito di far sì che la realtà diventi come deve essere e farsi carico delle conseguenze che comporta dire queste verità. Dire la verità è sentirsi chiamati a proseguire il lavoro universitario con più decisione e impegno e con maggiore gioia. 

I martiri della Uca dissero la verità pubblicamente, specialmente attraverso la rivista Eca, la radio Ysax (quella di mons. Romero) e sempre di più attraverso la televisione. Chi ha una certa età ricorderà momenti indimenticabili come il libro sulle frodi elettorali del 1972 o quello sullo sciopero dei maestri o il celebre editoriale “Ai suoi ordini, mio capitale”. Un presupposto importante, per quei gesuiti, era dato dalla concezione biblica secondo la quale dire la verità non esprime un’imparzialità oggettiva, ma significa dire quella verità che comporta la difesa del povero e senza la quale il povero continuerebbe a essere oppresso. Laddove non esiste difesa dell’oppresso è lecito dubitare, e loro dubitavano. È là dove c’è la difesa dell’oppresso che si apre la strada alla verità. La quale andava completata, evidentemente, trattandosi di un ambito universitario, con progetti di tipo economico, politico, religioso. Tenendo però fermo il criterio in base a cui verificare se tali progetti fossero buoni o no: se, cioè, difendessero o meno i poveri. 

Dissero la verità con autorità, che è condizione essenziale in un’università. Ma perché ciò fosse possibile c’era bisogno - oltre che del sapere - di credibilità e di convinzione (che è il motivo per cui tanta verità insegnata e pubblicata non riesce a cambiare davvero le cose né a coinvolgere le persone). Questa credibilità si esprimeva, nel caso dei gesuiti, nell’onestà con la realtà e nella coerenza tra il dire e il fare. In definitiva, superarono la prova più grande. In un Paese oppresso dalla povertà e dalla violenza, in un Paese in guerra, dissero la verità in maniera precisa e scrupolosa, menzionando, nella misura del possibile, nomi delle vittime, stragi e massacri, persino i corpi di sicurezza e le forze militari o paramilitari a cui appartenevano i carnefici (comportandosi allo stesso modo nei casi in cui questi appartenevano a organizzazioni popolari), le circostanze di tempo e luogo; esigendo una riparazione come obbligo di giustizia e condannando l’impunità. Ciascuno di loro, secondo il proprio temperamento, parlava delle vittime in maniera accorata: le vittime erano nel loro cuore. La pubblicazione di Proceso e di Carta a las iglesias era il veicolo di espressione del modo accorato con cui vivevano i massacri e soprattutto della bontà e della speranza. E, infine, compresero assai presto e accettarono il fatto che non c’è difesa dei poveri senza correre rischi. 

La Uca è stata espressione della verità. E questo è stato importante per il Paese. Il suo ideale è stato quello di un Paese pieno di verità. Quindi di istituzioni, associazioni, sindacati, università che dicessero la verità.

DIFESERO I POVERI

Seguendo le parole del contadino, i martiri della Uca furono difensori dei poveri. Come mons. Romero, lo fecero in molti modi. Con progetti tecnici, di insegnamento, di salute. Perseguendo la costruzione di una terza forza, quella cioè di tutti coloro che volevano la fine della guerra, della morte, delle stragi. Facendo in modo che il popolo prendesse la parola e che lo facesse con una voce unitaria. Lavorando per prima cosa per fare in modo che le due parti si parlassero, e poi per i negoziati. E questo era un modo pienamente universitario di difendere il povero. Penso che tale lavoro riflettesse un’ispirazione cristiana, tanto nel modo di pronunciare tale parola quanto nel contenuto della parola pronunciata. Va ricordato che l’ispirazione cristiana è una dimensione essenziale di questa università, come appare anche dal suo statuto, senza la quale non si garantirebbe quanto per loro era sommamente importante: il regno di Dio, l’uguaglianza tra tutti, a partire dai più piccoli, l’apertura al trascendente. Ma in tal modo non abbiamo ancora raggiunto la chiaroveggenza del contadino, quella espressa dalle parole pronunciate dai vescovi a Puebla nel 1979. Dissero quei vescovi: è per il solo fatto di essere poveri che Dio li difende e li ama. L’opzione per i poveri, non ci sono dubbi, significa amarli, aiutarli, esprimere loro solidarietà, ma, soprattutto, significa difenderli. E si difende chi ha nemici, si difende chi viene offeso dai suoi nemici, il che porta come conseguenza la necessità di scontrarsi con i nemici. Non c’è opzione senza correre pericoli. 

Come si difende qualcuno con la parola? Si difende il povero lottando contro la menzogna e l’occultamento. Un pensatore del I secolo, un tale Giovanni, autore di uno scritto intitolato Vangelo, dichiarò che il maligno è assassino e padre della menzogna. Gli assassinati sono i poveri, le vittime di una morte lenta a causa della povertà o di una morte rapida a causa della violenza. E assassinii e menzogne, migliaia di milioni di morti, vengono occultati, in grado maggiore o minore. Difendere la vita, la vita dei poveri, significa lottare contro l’occultamento e la menzogna. È quanto hanno fatto i martiri, e il Paese che volevano era un Paese in cui si difendessero i poveri.


PER QUESTO LI UCCISERO

E veniamo al terzo punto del contadino. «E per questo li uccisero». I martiri della Uca furono perseguitati in diversi modi e furono assassinati per calcolo e con odio. E una ragione c’è stata: quella che il contadino ha espresso in due parole, «per questo». Nel nostro Paese e nel mondo di oggi continuano a esistere milioni di vittime che muoiono uccise per un “per questo”. «Per questo li uccisero». La fame, la denutrizione, la mancanza di assistenza sanitaria, il vivere in realtà come quelle del Pakistan e del Congo, del Mozote, del Guatemala… È un orrore che caratterizza il nostro mondo. Eppure non parlano così le Nazioni Unite, l’Unione Europa, il G-20 e via dicendo. Possono formulare tesi generiche sul diritto dei poveri alla vita, alla salute, all’educazione, al riposo, alla libera circolazione, al lavoro, all’uguaglianza di genere, alla pace: è pur sempre qualcosa, ma ancora troppo poco per raddrizzare la realtà che produce tutto questo. E non fanno praticamente niente che possa mettere a repentaglio i loro interessi. 

Stando così le cose, vorrei ricordare le parole promunciate da Ellacuría nel suo ultimo discorso, quando disse: «Questa civiltà è gravemente malata e per evitare un esito fatale è necessario cercare di cambiarla dall’interno». E poi: «Solo con la forza dell’utopia e della speranza si può credere e avere la forza di cercare, insieme a tutti i poveri e gli oppressi del mondo, di invertire la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione». Con questo, io credo volessero un mondo deciso a invertire la storia. Secondo una logica non capovolta, persone così, i sei e tanti altri, dovrebbero essere ringraziate e lodate, ma non è questo che avviene. Anzi, proprio per il fatto di essere così, di dire la verità e di difendere i poveri vengono uccise. Questa è la magnifica intuizione del contadino: li hanno uccisi perché facevano il bene. I martiri della Uca e, ripeto, molti altri, hanno lottato perché questo non avvenisse. La nostra responsabilità è che verità e difesa del povero, e altre cose già menzionate, libertà, riconciliazione ecc., vengano garantite oggi. La nostra speranza è che loro, i martiri della Uca, Romero, e tutti i poveri e oppressi del mondo, ci diano la forza, in qualunque caso, di raccogliere la loro eredità, dicendo la verità e difendendo i poveri.

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