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Delitto e castigo

Tratto da: Adista Documenti n° 44 del 13/12/2014

È giunto il momento di mettere in scena un’opera salvadoregna incompiuta, iniziata 25 anni fa. 

Il primo atto si è consumato in una sola rappresentazione, il 16 novembre 1989. Sì, avrete già indovinato di cosa si tratta. All’alba di quel giorno, varie decine di militari appartenenti al feroce e sanguinario battaglione Atlacatl – unità d’élite delle forze armate salvadoregne – penetrarono nella struttura della Uca per assassinare con la peggiore crudeltà possibile due donne e sei gesuiti, persone pacifiche e disarmate che non avrebbero reagito in maniera violenta. Era, dunque, un’operazione “facile”, eppure pianificata e coordinata al più alto livello. Se non fosse stato così, sarebbe risultato impossibile realizzarla. Questo gruppo di soldati che si introdusse nel recinto accademico non avrebbe potuto infatti muoversi così liberamente, dal momento che da giorni, permanentemente, l’università era circondata da cordoni di sicurezza della polizia e delle forze armate.

Il secondo atto, assai più lungo, iniziò immediatamente dopo il crimine collettivo. Si tratta dell’insabbiamento e dell’impunità istituzionali a protezione di tutti i responsabili. Gli stessi carnefici provvidero a simulare uno scontro e a lasciare appeso a un portone, al momento della ritirata, un foglio con la scritta: “Il Fmln ha giustiziato i nemici spie. Vittoria o morte, Fmln”. Questa iniziale e primitiva versione fu poi sostenuta dall’alto comando e dal governo e, in forma già più elaborata, ripetuta innumerevoli volte all’interno e all’esterno del Paese.

Quando si rovesciò il mondo addosso ad Alfredo Cristiani, allora presidente della Repubblica e comandante generale delle forze armate, questi se ne uscì con una mossa “geniale”: presentò i risultati delle indagini realizzate da una “commissione d’onore” – non così onorevole, veramente – la quale si incaricò di indicare i soldati che avevano sparato contro teste pensanti e corpi indifesi, gli ufficiali che avevano diretto l’operazione sul terreno e il colonnello che aveva trasmesso l’ordine proveniente dallo Stato Maggiore. Ma sempre senza toccare l’intoccabile.

Dopo indagini condotte in maniera irregolare, si svolse un processo farsa contro questo gruppo di militari, sempre mantenendo fermo il fatto che l’idea era stata di un uomo solo: Guillermo Alfredo Benavides Moreno. Di lui e di nessun altro. Nel pieno di una guerra cruenta come quella che si combatteva nel Paese dal gennaio del 1981, questo ufficiale non era precisamente conosciuto come un grande militare di prima linea. Ciononostante, era stato nominato capo del “comando di sicurezza” più importante nel bel mezzo della maggiore offensiva guerrigliera, iniziata alcuni giorni prima. Nell’area sotto il suo comando si trovavano la sede dello stesso Stato Maggiore delle forze armate, quella del Ministero della Difesa e della Sicurezza Pubblica, la Direzione Nazionale di Intelligence e il centro residenziale in cui vivevano alti ufficiali, oltre alla Uca e all’abitazione dell’ambasciatore statunitense.

“Strana” decisione, come anche il fatto che a questo impacciato colonnello era stato assegnato il meglio del meglio dell’esercito senza che gli venissero però assegnati incarichi di rilievo. L’unico compito svolto dall’unità del battaglione “Atlacatl”, arrivata lunedì 13 novembre del 1989 alla Scuola Militare diretta da Benavides, fu di ispezionare la residenza dei gesuiti all’interno della struttura universitaria. Quindi quei soldati super selezionati passarono senza far niente il 14 e il 15 novembre, mentre i loro colleghi erano impegnati in sanguinosi scontri con le forze ribelli. Questo comando speciale lasciò l’ozio in cui era stato tenuto per entrare nuovamente nell’Uca e assassinare a sangue freddo due donne e sei sacerdoti all’alba di giovedì 16 novembre. Immediatamente dopo venne mandato là dove doveva stare: sul campo di battaglia, ad affrontare il “nemico”.

Tanto all’interno come all’esterno del Paese, le famiglie delle vittime e la Compagnia di Gesù denunciarono i mandanti e i loro complici. Il sistema nazionale operò in diversi modi, ma solo per favorire i criminali. Quello regionale, invece, agì diversamente: la Commissione Interamericana per i Diritti Umani raccomandò a El Salvador di condurre le indagini e punire tutti i colpevoli, risarcire le vittime e revocare la legge di amnistia. Ma né Francisco Flores, oggi agli arresti per corruzione, né gli altri capi di Stato che gli sono succeduti si sono spinti a fare quello che dovevano: dare seguito a tali raccomandazioni. Fine del secondo atto.

E il terzo atto non è ancora concluso. È iniziato il 13 novembre del 2008 a Madrid, quando due organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno presentato una denuncia presso la Audiencia Nacional de España. Poiché alle vittime è stata negata giustizia all’interno di El Salvador, il Centro per la Giustizia e la Responsabilità, statunitense, e l’Associazione per i Diritti Umani, spagnola, la stanno cercando al di fuori. Lo fanno malgrado gli ostacoli che anche lì si incontrano, dal momento che tutto il mondo è paese: quanti devono rispondere in questi tribunali ad accuse relative a gravi violazioni dei diritti umani e a crimini contro l’umanità molte volte, infatti, hanno goduto o godono di un grande potere o contano sull’appoggio di altri poteri forti impegnati a proteggerli e a proteggersi.

Come che sia, l’applicazione del diritto internazionale in quel Paese è finita nella mira di tali poteri, che però non sono riusciti a sottrarre il caso del massacro della Uca alla Audiencia Nacional, la quale ha disposto alcuni giorni fa che il giudice Eloy Velasco porti avanti il processo. È per tale motivo che quest’ultimo atto è ancora incompiuto. Come si intitolerà l’opera? Elementare: “Delitto e castigo”. Non c’è alcuna speranza che, al pari di Rodia, il protagonista del celebre romanzo di Dostoevskij, i principali responsabili di questo crminine collettivo confessino. Non li ha morsi neppure una volta quella vipera salvadoregna chiamata “giustizia” perché possano provare pentimento.

Esiste però la fiducia nel fatto che verranno puniti. Perché il perdono delle vittime non deve fermare il processo giudiziario contro i loro carnefici. Giovanni Paolo II fece visita a chi cercò di ucciderlo nel 1981: il turco Mehmet Ali Agca. Lo fece quando già stava scontando la sua pena. Potè perdonarlo, ma non farlo uscire di progione. È troppo pericoloso frenare il funzionamento delle istituzioni. Nel caso del massacro della Uca, sono quelle legate al diritto internazionale che devono agire, perché all’interno di El Salvador il sistema blinda – attraverso l’impunità – i criminali di alto livello. (...).

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