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«CHIEDEVA GIUSTIZIA, MA IN TERMINI SPIRITUALI». MONS. ROMERO RILETTO DA S. EGIDIO

Tratto da: Adista Notizie n° 6 del 14/02/2015

37981 ROMA-ADISTA. «Il timore che beatifichino un monsignor Romero annacquato è scomparso», affermava Jon Sobrino lo scorso novembre: «Oggi è difficile manipolarne la figura». Tuttavia, che il rischio sia tutt’altro che infondato lo ha rivelato nella maniera più chiara il briefing tenuto, il 4 febbraio scorso, presso la Sala Stampa della Santa Sede, da mons. Vincenzo Paglia, il postulatore della causa di beatificazione, lo storico Roberto Morozzo della Rocca, autore di una controversa biografia dell’arcivescovo (Primero Dios) e Jesús Delgado, vicario generale di San Salvador, già segretario personale di mons. Oscar Romero. I primi due membri della Comunità di Sant’Egidio e il terzo convinto estimatore del movimento, del quale ha scritto recentemente (Vatican Insider, 30/1): «È la comunità di Sant’Egidio che si è presa carico del lavoro che ha richiesto la causa di beatificazione di monsignor Romero. (…). Sopra ogni cosa, ammiriamo il lavoro immenso, amorevole e perseverante che ha svolto per promuovere e portare a termine la causa (...). Tra i membri di Sant’Egidio spicca il nome di mons. Vincenzo Paglia, infaticabile promotore della causa di beatificazione. Sono sicuro che dal luogo del suo riposo mons. Romero leva la sua voce per cantare “Come ricambiare il Signore per tutto il bene che mi ha fatto?” (salmo 116)».

Non sorprende dunque che da una così perfettamente omogenea tavola dei relatori sia giunta una lettura a senso unico, a cominciare dall’enfasi sul martirio in odium fidei, «esemplificato – ha sottolineato Morozzo della Rocca – nell’uccisione all’altare nonché nel far tacere la voce pubblica che autorevolmente chiedeva conversione dal male e rigetto del peccato». «In lui – ha gli ha fatto eco mons. Paglia – si voleva colpire la Chiesa che sgorgava dal Concilio Vaticano II. La sua morte fu causata non da motivi semplicemente politici, ma dall’odio per una fede impastata di carità che non taceva di fronte alle ingiustizie che implacabilmente e crudelmente si abbattevano sui poveri e sui loro difensori». Del resto, ha proseguito Paglia, è stato lo stesso Giovanni Paolo II a ricordare come l’assassinio sia avvenuto «nel momento più sacro, durante l’atto più alto e più divino»: l’assassinio di «un vescovo della Chiesa di Dio mentre esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’eucarestia». Ed è «con vigore» che il papa polacco, «più volte», ha ripetuto «Romero è nostro, Romero è della Chiesa!».

Neppure è corretto, secondo i relatori del briefing, parlare di una vera discontinuità tra il Romero nominato arcivescovo con il sostegno dell’oligarchia e l’arcivescovo che l’oligarchia ha deciso di assassinare: Romero, infatti, ha evidenziato Paglia, «da sempre ha amato i poveri. Giovanissimo sacerdote a San Miguel, veniva accusato di comunismo perché chiedeva ai ricchi di dare il giusto salario ai contadini coltivatori di caffè. (…). Certo, frequentava anche i ricchi, ma chiedeva loro di aiutare i poveri e la Chiesa, come una via per salvare la loro anima». E lo ha ribadito con convinzione anche Jesús Delgado, esprimendo la speranza che la beatificazione di Romero aiuti «tutti i salvadoregni a superare ogni divisione politica, sociale ed economica»: «Mai – ha assicurato – ha smesso di amare i ricchi». 


Romero “made in Sant’Egidio”

A completare il ritratto da perfetto “santo di Roma”, Paglia ha ricordato come l’arcivescovo fosse «un uomo di Dio, un uomo di preghiera, di obbedienza e di amore per la gente», «severo con se stesso, legato ad una spiritualità antica fatta di sacrifici, di cilicio, di penitenza, di privazioni», nonché «un vescovo fedelissimo al Magistero».

Quanto al ruolo giocato dall’arcivescovo nella tragica congiuntura del Paese, Morozzo della Rocca non ha dubbi sul fatto che Romero si trovasse «stritolato nella morsa» tra l’oligarchia e una «guerriglia di ascendenza castrista» dalle «pratiche violente», la cui opzione rivoluzionaria risultava «alternativa alla richiesta di giustizia» (allo stesso modo in cui Paglia pone sullo stesso piano «violenza dell’oligarchia contro i contadini, violenza dei militari contro la Chiesa che difendeva i poveri, violenza della guerriglia rivoluzionaria»). Tant’è che, ha sottolineato lo storico, Romero «confidava che neppure sapeva se lo avrebbe ucciso l’estrema destra o l’estrema sinistra, che lo contestava negli ultimi tempi per la sua contrarietà alla rivoluzione. Fu poi lo squadrone della morte organizzato dall’ex maggiore D’Aubuisson a ucciderlo, ma Romero questo non lo poteva sapere in anticipo». Solo un caso, insomma, secondo Morozzo, che l’assassinio sia giunto per mano dell’oligarchia.

Riguardo poi alle celebri parole attribuite all’arcivescovo da un giornalista guatemalteco – «Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno, il mio sangue sia seme di libertà, la mia morte sia per la liberazione del mio popolo» – «tutto lascia credere», secondo Morozzo, «che siano aprocrife», contribuendo in maniera sostanziale al «mito ideologico di Romero profeta del popolo e messia a sfondo politico».


Romero “made in San Salvador”

Ben più difficile, tuttavia, riuscire a inquadrare nella descrizione di Paglia e di Morozzo altre parole pronunciate da Romero, sistematicamente ignorate e rimosse nell’operazione di accaparramento istituzionale della figura dell’arcivescovo martire. Difficile far combaciare il Romero che, secondo Morozzo, «chiedeva giustizia, ma in termini spirituali, in nome del Vangelo e della pace», con il Romero che, parlando della dimensione politica della fede espressa nel Magnificat, affermava: «Maria arriva a dire una parola che diremmo oggi “insurrezionale”. Rovescia dal trono i potenti quando questi sono un ostacolo alla tranquillità del popolo! Questa è la dimensione politica della nostra fede: l'ha vissuta Maria, l'ha vissuta Gesù, che era un autentico patriota di un popolo che stava sotto una dimensione straniera e che lui, senza dubbio, voleva libero» (omelia del 17/2/79).

Così, per esempio, anziché limitarsi alla generica condanna di ogni violenza come vorrebbero Paglia e compagnia bella, ne distingueva la provenienza in maniera netta (per esempio nella “Lettera pastorale sulle organizzazioni popolari” del 1978), indicando come radice fondamentale di ogni altra violenza quella che chiamava violenza istituzionalizzata – quella cioè di una struttura sociale talmente iniqua da negare alle grandi maggioranze i diritti più elementari – e ritenendo che solo in risposta ad essa si sviluppasse la violenza reattiva delle organizzazioni, per quanto «pensata erroneamente come ultimo e unico modo efficace di cambiare la situazione sociale». Di più: richiamandosi al concetto di violenza legittima presente nella Populorum Progressio di Paolo VI, Romero sottolineava anche che, finché si fossero mantenute «le cause dell'attuale miseria e l'intransigenza delle minoranze più potenti», la situazione non avrebbe fatto che peggiorare, rendendo «meno ipotetico e più reale il caso in cui il ricorso alla forza, come legittima difesa», avrebbe potuto «essere giustificato».

Allo stesso modo, lungi dall'assumere una comoda posizione intermedia tra gli “estremi”, mons. Romero, in maniera prima confusa, poi sempre più lucida e netta, denunciava le responsabilità della Democrazia Cristiana salvadoregna, che con la sua presenza nel governo (sostenuto dalla forze armate e dagli Usa) muoveva «Paesi come Venezuela e Stati Uniti ad appoggiare un'alternativa che si dice antioligarchica, ma che in verità è antipopolare» (omelia del 17/2/80), respingendo il tentativo governativo di mettere sullo stesso piano estrema destra ed estrema sinistra, «perché l'estrema sinistra non è tanto estrema quando si legge il suo Programma di Governo Rivoluzionario» (omelia del 9/3/80) e perché «la sinistra non è in opposizione ai progetti che realizzano il bene del popolo. Infatti le sinistre, come vengono chiamate le organizzazioni popolari, propugnano una linea che converge nettamente verso il bene del popolo» (Diario del 9/3/80).

Né Romero si limitava a condannare in blocco il comunismo come molti pretenderebbero: nella sua “Lettera pastorale Missione della Chiesa in mezzo alla crisi del Paese”, sosteneva, per esempio, che non si potesse riservare al marxismo «un trattamento di semplice condanna», potendo esso intendersi come un sistema di analisi scientifica dell'economia e della società senza alcun danno per i principi religiosi o come «una prassi politica di lotta per il potere» che invece avrebbe potuto «portare a conflitti di coscienza nell'utilizzazione di mezzi e modi non sempre conformi a quello che prescrive ai cristiani la morale evangelica». Senza neppure mancare di evidenziare come, «di fatto, alcune delle dichiarazioni e azioni antimarxiste» dei cristiani si traducessero in «un appoggio al capitalismo, il quale concretamente è quello che configura la nostra società in un senso ingiusto e anticristiano». Così, nell'omelia del 2 marzo 1980, parlava dell'«interessante» notizia che a Roma vi sarebbe stato «un dialogo tra filosofi cristiani e marxisti», criticando «quelli che si spaventano tanto facilmente di fronte al comunismo non per motivi cristiani ma per interessi egoistici, perché non si vede mai tanto zelo anticomunista come quando si trovano in pericolo» questi interessi. 

Che poi l’estrema sinistra pensasse di ucciderlo, bastano a smentirlo gli affettuosi resoconti degli incontri che si svolgevano, con una crescente fiducia reciproca, anche settimanalmente – concludendosi sempre con la benedizione dell’arcivescovo –, tra mons. Romero e i rappresentanti delle organizzazioni guerrigliere, uno dei quali, Antonio Cardenal, raccontava a María López Vigil che tutte le domeniche, in tutti i collettivi delle Fpl (le Forze Popolari della Liberazione), si ascoltavano le omelie di Romero, del viejito (il vecchietto) e che, a volte, risuonavano persino gli applausi. (claudia fanti) 

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