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Il monaco che amava il jazz e la giustizia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 7 del 21/02/2015

A cent'anni dalla nascita di Thomas Merton (31 gennaio 1915) ho ripreso in mano La montagna dalle sette balze, nella prima edizione della Garzanti del 1970. Mi sono immerso nella lettura e mi ha improvvisamente afferrato alla gola un doppio sentimento di vertigine e nostalgia. Da una parte la vertigine di una scrittura travolgente, che sembra come gettarti addosso le contraddizioni insanabili dell'uomo: la violenza, l'egoismo, la dannazione, il male che incombe come uno spuntone di roccia. Dall'altra la nostalgia di un secolo, il Novecento, dov'era ancora possibile l'utopia, ossia la ricerca spasmodica di un senso della storia che potesse tenere insieme l'asse verticale dell'ascolto di Dio con le attese orizzontali degli uomini. 

Merton ha succhiato fino in fondo il midollo della vita, per dirla con le famose parole di Thoreau. E ha sentito il richiamo di Dio salire dal fusto di un sax. Perché questa è stata la grande lezione del monaco che ha deciso di entrare nella solitaria trappa del Kentucky: rovesciare il tavolo della fede, trascinarla in basso seguendo l'itinerario di Gesù, farla vivere del godimento estatico di un dipinto, di una danza, di una serata jazz in qualche pub di New York, toglierla da quell'alone di sacralità metafisica che troppi guai stava causando nella storia del mondo di cui il giovane Merton era un “colpevole testimone”. 

Com'era possibile la carneficina della Grande guerra e subito dopo il nazismo? E Auschwitz? E l'orrore di Hirsohima e Nagasaky? E i gulag russi con i terribili anni della enzòvscina, il terrore dell’apparato staliniano di cui la grande poetessa Achmatova aveva cantato il Requiem per il figlio imprigionato a Leningrado? Com'era possibile il silenzio di così tanti credenti mentre si compivano tali malvagità e dove singoli cristiani maturi, come l'obiettore al nazismo Franz Jägerstätter – di cui Merton fu uno dei primi a citare l'esempio nel libro Fede e violenza – venivano ghigliottinati o impiccati per il semplice fatto di tener saldi i valori profondi della propria coscienza? «Il monaco maturo – scrisse ne Il viaggio della verità – è una persona estremamente capace e poliedrica, che conduce una vita di libertà e gioia sotto lo sguardo dello Spirito Santo piuttosto che della paura servile. In realtà il servilismo è l'esatto opposto dello spirito monastico e cristiano».

Silenzio e musica, santità e dannazione, bellezza e malvagità, schiavitù e liberazione, amore della carne e passione dello spirito. Tutto si tiene nel flusso vitale verso la sorgente. Perché la vita è un dono che abbatte ogni natura malvagia, cresce e si dilata fra le ombre oscure della società. Proprio così venne al mondo il piccolo Tommy: «L'ultimo giorno di gennaio del 1915 – questo l'incipit del  capolavoro autobiografico del 1948 – in un anno di grande guerra, al confine con la Spagna, nell'ombra dei monti francesi, io venni al mondo. Fatto a immagine di Dio, quindi libero per natura, tuttavia schiavo della violenza e dell'egoismo, ad immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il quadro dell'inferno, pieno di uomini come me, i quali amavano Dio eppure lo odiavano e, nati per amarlo, vivevano nel timore e nella disperazione di contrastanti appetiti».

Molto vicino ai vagiti di Tommy, la guerra copriva di fango le vite di giovani mandati al macello nell'inutile strage. Forse è da quel disgusto per il fracasso di ossa e scheletri imputriditi che negli anni ‘60 il monaco oramai famoso assunse su di sé la responsabilità di porsi come punto di riferimento della pace e della nonviolenza in opposizione alla guerra del Vietnam. Non è un mistero che la morte di Merton a Bangkok in quell'angosciante e incredibile anno 1968 (dopo gli omicidi di Bob Kennedy e Martin Luther King) sollevò il sospetto che dietro la banalità dell'incidente provocato dal ventilatore difettoso che lo fulminò al termine della conferenza dal titolo “Marxismo e prospettive monastiche”, si agitasse la mano repressiva della Cia. Paolo Giuntella, nel suo libro Il fiore rosso, ricorda l'attivismo militante di Merton e come egli si fosse esposto pubblicamente e con coraggio: «Per mesi e mesi aveva coltivato l'idea di trasferirsi come ostaggio per la pace in Vietnam. I suoi amici, i due fratelli gesuiti Dan e Phil Barrigan, nel maggio del 1968 erano stati condannati a sei anni di carcere per aver bruciato molti contenitori degli archivi per la chiamata alla leva militare a Cantonville (Maryland). Merton era, con la vecchia amica Doroty Day, il padre spirituale di tutti i giovani cattolici obiettori, renitenti alla leva, disertori, pacifisti cristiani, non solo americani ma anche europei».

Eppure oggi, a distanza di cent'anni dalla nascita e a 47 dalla morte, rileggendo i libri di Merton emerge la figura di un uomo assolutamente incatalogabile. Un uomo totalmente libero e allo stesso tempo radicalmente soggiogato da Dio. Un uomo che ha preso la vita a morsi camminando sul filo di un equilibro instabile, messo a dura prova dall'uso di droghe e da tendenze, che avrebbero potuto farlo precipitare se non avesse seguito quella voce del deserto che lo ha trascinato lontano da tutto immergendolo nel silenzio del monastero cistercense del Gethsemani. Un uomo che ha lottato tenacemente per la pace, i diritti umani e civili, la giustizia e la libertà, attraversando l'ideologia marxista ma liberandosene nel momento in cui quel sistema rivelò la deriva insita in ogni agglomerato dal potere totalizzante. Un monaco che vedeva nella musica di Joan Baez come il completamento della vita monastica e che un giorno riuscì perfino a turbare i pensieri del filosofo francese Jacques Maritain facendogli ascoltare il disco di Bob Dylan Highway 61. Un uomo di parola e di scrittura, forse una delle penne più intense e irrequiete del Novecento, un artista talentuoso, figlio di pittori professionisti, ma che al cospetto di Dio sapeva soltanto dire il nulla di sé e del mondo: «Oh mio Dio, non mi importa di nulla; tutto quello che so è che voglio amare te. Voglio che la mia volontà scompaia nella tua volontà. Voglio essere un solo spirito con te». 

Thomas Merton aveva anticipato di gran lunga il Concilio. Aveva colpito al cuore la sacralizzazione di una fede barricata nelle certezze dogmatiche che aveva inchiodato perfino il Cristo alla croce del servilismo e dell'obbedienza acritica (sappiamo da una corrispondenza con Erich Fromm che Merton conosceva il lavoro di don Milani e ne era entusiasta). Ecco perché la rivoluzione primaverile di papa Giovanni risvegliò in lui un incredibile entusiasmo, soprattutto lungo la linea dell'impegno per la pace su cui Merton si trattenne a lungo nel suo Semi di distruzione: «Il messaggio di libertà di papa Giovanni invita anzitutto l’uomo a uscire dall’atmosfera di confusione e di disperazione in cui si trova a causa della sua acquiescenza passiva a un determinismo senza anima». 

Era quella la Chiesa che Merton amava. Fece in tempo a sentirla vicina, anche negli atteggiamenti più rigorosi di Paolo VI. Se fosse ancora con noi oggi canterebbe la speranza di papa Francesco con parole vibranti, perché finalmente un papa scende dagli scranni e cammina, senza corazze, sulle strade del mondo ricordandoci che siamo divini proprio perché siamo umani: «Accettare l'amore nella nostra coscienza significa accettare la coscienza della lotta per il cambiamento» (Canto all'amore). Nessuno come Merton ha saputo conciliare il cielo e la terra, il silenzio della preghiera e la musica graffiante del blues o del jazz che amava. Nessuno come lui ha saputo amare senza limitazione bruciando ai tizzoni ardenti della profezia, ma raccogliendo dalla sabbia della storia la provocazione dell’umano fatto a immagine di Dio. 

*Giornalista e scrittore, coordinatore Centro per la Pace del Comune di Bolzano; ha pubblicato il libro “Il monaco che amava il jazz. Testimoni e maestri migranti e poeti”, Il Margine, 2006.

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