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Dopo Lampedusa, per il papa un'occasione da non perdere

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 9 del 07/03/2015

Qualche mese fa un donna che conosco da tantissimi anni e che ormai considero amica, viene a trovarmi in studio con poche parole e un muto rimprovero. Ho poi raccontato su Repubblica la sua storia, un breve articolo che avrebbe meritato un romanzo, per lenire il mio senso di colpa. Lei la chiamo Sara, ma Sara non è, perché i rifugiati devono, tra le tante perdite, rinunciare anche alla propria identità, in modo da non permettere mai al nemico dittatore o persecutore, dotato di buona memoria e maligna pazienza, di vendicarsi contro chi è fuggito o contro la loro famiglia. Sara è fuggita dall'Eritrea, dove, com’è noto, il regime impone un servizio militare senza limiti temporali a giovanissimi, uomini e donne, costretti così a imbracciare armi per tutta la vita.

Dopo anni di lavoro e regolare residenza in una casa di proprietà, quando la vita sembrava finalmente essersi ammorbidita fino a diventare a tratti vivibile, Sara, ottenuta anche la cittadinanza italiana, decide che è il momento giusto per ricongiungersi alla sua famiglia, rimasta in Africa. Inizia dal figlio, appena maggiorenne, disertore e dunque a rischio di prigionia e torture. La pratica dura un’infinità, le ambasciate italiane cercano ogni cavillo per negare i visti d’ingresso a chi ne avrebbe diritto e, quando non riescono a negare i ricongiungimenti, si prodigano in lentezze e ritardi. Dopo un’estenuante attesa, il figlio minaccia di salire su un barcone, perché sa che il diritto all’ingresso in Italia, spesso negato dalle istituzioni, la mafia degli scafisti lo offre prontamente in cambio di denaro. Per fortuna (e per dovere), in extremis l'ambasciata concede il visto e il figlio può ricongiungersi con la madre senza rischiare prigionie, torture in Libia o la morte lungo il viaggio verso l'Italia. Appena il ragazzo arriva a Genova, Sara me lo presenta subito e piange di gioia, perché adesso è al sicuro.

Ma ora è il turno del marito, e così riparte tutta la trafila del ricongiungimento. L'ambasciata ci fa penare per un anno e a nulla valgono le lamentele né le raccomandate inviate. Poi, un giorno, Sara torna da me. Il viso di marmo, gli occhi asciutti. Resta in piedi e mi racconta tutto d'un fiato: il marito, non potendo più aspettare l'inerzia delle istituzioni, è scappato in Libia e qui dopo aver pagato chissà quanto in sofferenze, terrore e soldi, è salito su una carretta del mare. Un’ultima telefonata dalla spiaggia libica, un saluto pieno di promesse e paure. E poi più niente. Un interminabile silenzio.

Il marito di Sara, probabilmente, è uno dei circa 4mila migranti che dall'inizio del 2014 sono stati inghiottiti dalle onde del Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l'Italia. Uno dei molti “morti due volte”, perché rimasto senza nome in fondo al mare. Mi legge nel pensiero, Sara, e quasi mi consola: non è colpa tua, mi dice. Forse. Ma neanche del mare.

Oggi Sara è tornata nel mio studio. Mi mostra la foto di una ragazza bellissima, identica a lei solo più giovane. È sua figlia, neppure ventenne, disertrice, intrappolata in Sudan dove si è rifugiata in attesa di potersi ricongiungere con lei. Anche a lei l'ambasciata nega col silenzio il visto di ingresso. Sara vuole con tutte le sue forze evitare alla figlia il viaggio, il deserto, le torture e il mare. Viene da me e mi prega, mi supplica.

Verrebbe da arrendersi di fronte alla reiterata e scellerata decisione politica europea di ostacolare in tutti i modi l’ingresso in Europa di persone che ne avrebbero diritto. Ma la figlia di Sara non può permettersi una resa e sua madre ha diritto di vedere ascoltate le sue preghiere. Ed è proprio questo il motivo dell'appello che con due amici, Paola La Rosa e Carmelo Gatani, abbiamo lanciato affinché il papa, in qualità di Capo dello Stato Città del Vaticano, apra canali d'ingresso ai richiedenti asilo senza costringerli a viaggi rischiosissimi. Papa Francesco durante la visita a Lampedusa, l’8 luglio 2013, ha detto: «Ho sentito che dovevo venire qui, oggi, a pregare». Anche Sara prega. Di fronte all’immobilismo dei governi dell’Unione Europea, il pontefice potrebbe sostenere un’alternativa umana alla mafia dei trafficanti. I visti della Santa Sede (che ha aderito alla convenzione di Ginevra del 1951), infatti, potrebbero salvare migliaia di profughi in fuga verso l’Europa e mostrare la strada agli altri Paesi. Le nunziature apostoliche, cioè le missioni diplomatiche che rappresentano la Santa Sede nel mondo, potrebbero fare ciò che le ambasciate degli Stati europei negano: rilasciare visti di ingresso perché le persone possano raggiungere l’Europa su mezzi di trasporto legali e sicuri, invece di essere costretti a pagare gli scafisti e morire a migliaia sui barconi. Se l’Unione Europea avesse aperto vie legali, ad esempio per i profughi siriani, eritrei, somali, non ci sarebbero stati migliaia di morti e non ci sarebbe nemmeno stata la necessità di finanziare costose operazioni di soccorso come Mare Nostrum. Gli accordi già in vigore con i Paesi Ue permetterebbero ai profughi di raggiungere “regolarmente” la Santa Sede. Il papa potrebbe dimostrare all’Europa che si può e si deve realizzare un corridoio umanitario per impedire alle persone di soffrire e morire per vedere riconosciuto il loro diritto all’asilo. Il tutto applicando semplicemente le norme di diritto internazionale già vigenti. La soluzione prospettata prevede una duplice strategia: da un lato si potrebbe permettere alle persone di chiedere asilo alla Santa Sede rivolgendosi direttamente ai nunzi apostolici presso i Paesi di transito. In questo caso l’iniziativa avrebbe più che altro un valore simbolico, perché comprendiamo che un piccolo Stato non potrebbe da solo far fronte a tutte le richieste di asilo, ma rappresenterebbe un esempio che gli altri Stati non potrebbero ignorare. Dall’altro, se si permettesse alle persone di arrivare fisicamente in Vaticano, con un visto temporaneo, queste potrebbero poi presentare richiesta d’asilo in altri Paesi, rivolgendosi alle ambasciate che hanno sede in Vaticano. Presso la Santa Sede, infatti, sono rappresentati 178 Paesi. In tal modo si permetterebbe a quanti lo richiedono di presentare richiesta direttamente nell’ambasciata presso il Vaticano del Paese prescelto (non necessariamente europeo) senza dover intraprendere un viaggio assurdo e spesso mortale. Nessuno, finora, ha contestato sul piano strettamente giuridico tali ipotesi. Nessuno potrebbe contestarlo sul piano strettamente morale e umano. Tantomeno un credente. 

* Avvocata genovese, esperta di diritti umani e immigrazione, tra i promotori dell'appello per la concessione di visti umanitari da parte del Vaticano (v. Adista Segni nuovi n. 35/14)

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