Grecia: c’è chi dice no
Colpirne uno, la Grecia, per educarne ventotto, gli altri Paesi aderenti all’Unione europea o almeno i diciannove che hanno adottato la moneta unica euro. È questa la prima impressione che si desume dagli eventi succedutisi nelle ultime settimane in merito alla delicata questione economica del Paese ellenico.
I sette giorni che sconvolsero l’Europa, o forse solo la Grecia, sono cominciati domenica 5 luglio col referendum che il premier greco Alexis Tsipras ha proposto ai suoi concittadini per decidere se accettare le dure condizioni economiche ispirate al dogma dell’austerità imposte dalla Troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale). Egli ha scelto il più nobile degli strumenti democratici per affrontare la delicatissima situazione, coinvolgendo così il popolo nella decisione da prendere prima di tornare a Bruxelles e trattare coi suoi interlocutori. La sua è stata una buona mossa bisogna dargliene atto, anche perché se guardiamo in casa nostra abbiamo forse dimenticato il profondo e prezioso concetto di democrazia, visto che gli ultimi tre presidenti del consiglio italiani (Monti, Letta e Renzi) non risultano essere esattamente espressione della volontà popolare emersa dopo le elezioni politiche, ma questa è un’altra storia.
Insomma oltre il 61% del popolo greco ha votato “no” all’austerity proposta dalla Troika in cambio di un prestito per tamponare la precaria situazione economica. La profonda crisi di liquidità delle banche elleniche risulta così grave che dopo 3 settimane di chiusura, le banche hanno riaperto solo oggi, fornendo però solo 60 euro al giorno, deprimendo ancor più la traballante economia della penisola.
Forte del risultato del referendum il premier greco è tornato a trattare a Bruxelles orfano del dimissionario ministro delle finanze Yanis Varoufakis, che responsabilmente si è tirato fuori per agevolare un accordo che lui non avrebbe mai sottoscritto, ma stavolta le condizioni sono apparse subito più dure, probabilmente alla Germania di Angela Merkel e soprattutto al suo ministro delle Finanze, il falco del rigorismo economico Wolfgang Schauble, l’esito referendario non è andato giù e quindi è scattata una sorta di rappresaglia. Tsipras ha trattato, a volte anche in maniera molto dura, ma alla fine ha scelto la via della responsabilità, anche perché non aveva mai affermato di voler uscire dall’euro e non avendo un piano alternativo ha accettato le dure condizioni imposte, perché sta governando una nazione e non è all’opposizione. Quindi in cambio di un poderoso prestito di circa 86 miliardi di euro, questa sorta di Piano di aggiustamento strutturale prevede che la Grecia approvi una serie di tagli, di tasse e di privatizzazioni: l’aumento dell’Iva sulla ristorazione e su gran parte del settore alimentare dal 13 al 23%; l’eliminazione progressiva dello sconto Iva del 30% nelle isole più ricche; l’aumento dei contributi dei pensionati al sistema sanitario dal 4 al 6%; un blocco pensionistico nominale fino al 2021; una tassa di solidarietà sul reddito dichiarato dallo 0,7 all’8%; un’imposta sul lusso che passerà dal 10 al 13% su auto di grossa cilindrata, piscine, aerei e imbarcazioni; la creazione di una seria autorità fiscale che vigili sui conti (che saranno comunque monitorati dalla Troika) con l’introduzione di clausole di salvaguardia taglia spesa che scatteranno in automatico quando non si raggiungono gli obiettivi sulla base del famigerato fiscal compact; la creazione di un fondo da 50 miliardi di euro ove far conferire i proventi di privatizzazioni di beni pubblici tra i quali spiccano porti, aeroporti e l’azienda elettrica nazionale (questa del fondo, che Schauble voleva addirittura posto non in Grecia ma in Lussemburgo, è forse la parte più dura se pensiamo che il Pil greco è di soli 200 miliardi di euro) e infine un’autorevole riforma dell’ente nazionale di statistica che lo renda autonomo e indipendente dai governi, cosa non avvenuta in passato, al punto che chi governava riusciva a truccare facilmente i conti.
In sostanza pare che Tsipras abbia ceduto su tutta la linea rispetto alle roboanti dichiarazioni contro la Troika e sul taglio del valore nominale e sulla ristrutturazione del debito che solo sei mesi fa gli avevano consentito di vincere le elezioni in patria. Però ha retto l’urto, il governo da lui guidato non è caduto, come auspicavano Angela Merkel e i suoi ministri, nonché i feroci burocrati dell’Unione europea, anche se il prezzo pagato da Syriza è stato pesante, perché il partito si è spaccato e 39 deputati su 149 hanno votato contro l’accordo in Parlamento, mandando in frantumi la sua maggioranza politica. Però bisogna riconoscere che è riuscito nell’intento certamente non secondario di internazionalizzare il problema economico della Grecia e del suo immenso debito, si comincia infatti a parlare di allungamento delle scadenze e di ristrutturazione dello stesso, se non addirittura di cancellazione. Inoltre si è interessato alla questione ellenica persino il presidente degli Stati Uniti Obama, che ha telefonato preoccupato alla Merkel. Anomalo è parso l’atteggiamento del Fondo monetario internazionale che dopo aver avallato questo difficile accordo ha fatto sapere, tramite i suoi analisti, che questo nuovo piano non basterà, il debito greco è insostenibile e servirà un ulteriore riscadenzamento dello stesso, ben oltre i 30 anni previsti, e quindi probabilmente servirà uno sconto se non perfino una cancellazione, ipotesi ventilata dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, come avvenuto con Paesi in via di sviluppo dell’Africa subsahariana. E allora a pensar male, se questo cosiddetto piano di salvataggio non salverà un bel nulla, nemmeno i soldi dei creditori, consentirà però a grandi gruppi privati stranieri di impossessarsi di buona parte del patrimonio dei cittadini greci e solo allora forse arriverà il momento della cosiddetta Grexit, l’uscita dall’Euro della Grecia, non prima quindi di averli spolpati per bene.
A proposito di Mario Draghi e del ruolo dell’istituto da lui guidato, la Bce, in tutta la faccenda greca, sembra quasi che si sia appiattita sulle posizioni dei creditori violando il mandato della stessa Banca centrale europea nel momento in cui ha congelato i soldi alle banche elleniche tutte, pure a quelle sane, contribuendo così a umiliare la Grecia nella sua sovranità e dignità nazionale. Infatti essendo la Bce un prestatore di ultima istanza, compito precipuo di ogni banca centrale, per garantire la liquidità degli istituti di credito e dei titoli del debito pubblico, nel momento in cui l’istituto di Francoforte ha chiuso i rubinetti dell’Ela (Emergency liquidity assistance, la liquidità di emergenza della Bce) il 28 giugno, nel momento in cui Tsipras ha indetto il referendum, per poi riattivarli solo lo scorso 16 luglio, dopo la resa greca, appare una scelta politica punitiva e questo è certamente contrario al suo mandato. Draghi si è quindi comportato un po’ come colui che in una rissa tre contro uno tiene fermo il malcapitato di turno mentre gli altri due (Fmi e Commissione europea) lo picchiano. Insomma ilo suo non è stato assolutamente un comportamento esemplare.
Non pervenuto, come recentemente è spesso accaduto, il ruolo dell’Italia e del suo presidente del Consiglio. Matteo Renzi infatti è rimasto dietro le quinte ed è imbarazzante non poter citare un atto, né una dichiarazione in cui la nostra posizione sia stata chiara o quanto meno abbia avuto un peso in tutta questa storia, di certo è stata tutt’altro che opportuna la dichiarazione di amicizia e comunanza di vedute con Angela Merkel espressa dal nostro premier il primo luglio nel pieno della campagna sul referendum greco. La miseria della nostra posizione non viene minimamente riabilitata dalle parole di Tsipras rilasciate alla televisione greca in cui afferma che ha potuto contare sull’appoggio (quale?) di Francia, Italia e Cipro.
In conclusione sembra che da tutto ciò sia l’idea stessa di Unione europea che ne esca come la vera perdente. Infatti pare si sia creato un sistema economico troppo legato esclusivamente alla moneta unica e di conseguenza alla finanza, che ha un peso specifico sproporzionato rispetto all’economia reale, una struttura vittima dei suoi stessi rigidi vincoli a tal punto che tutti, vincitori e vinti, appaiono bloccati e ormai chiusi in un apparato claustrofobico autocostruito e cementato da cui non si riesce a uscire e che ricorda amaramente la novella di Pirandello La giara.
Quindi appare evidente la necessità di un’autocritica continua delle iniziative intraprese se si hanno a cuore le sorti del nostro continente, in cui bisogna necessariamente riporre grande fiducia e forte speranza. Pure se con le dovute proporzioni sembrano calzanti, anche per la delicata questione greca, le parole pronunciate dal card. Bernard Agré, arcivescovo emerito di Abidjan, Costa d’Avorio, che in merito al problema del debito estero dei Paesi in via di Sviluppo sentenziò: «…per rimborsare questi debiti inestinguibili, che sono una minaccia, una spada di Damocle sulla testa degli Stati, la voce del debito incide pesantemente sul bilancio statale, nell’ordine del 40-50% del prodotto interno lordo…Il debito sembra una malattia programmata da specialisti degni dei tribunali che giudicano i crimini contro l’umanità, la cospirazione malvagia per soffocare intere popolazioni…Sopprimere i debiti, puramente e semplicemente, non è più un atto di carità, ma di giustizia».
Pierstefano Durantini è giornalista, aderente al gruppo romano di Noi Siamo Chiesa
* Foto di Zé Valdi, tratta dal sito Flickr, licenza, immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite
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