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Il '77 e la biopolitica

Il '77 e la biopolitica

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 9 del 04/03/2017

Affermava Wallenstein che vi sono «rivoluzioni che falliscono eppure cambiano il mondo... e che continuano a farci discutere». Alludeva all'arco temporale che va dal '68 al '77, un vero cambiamento di paradigma. Periodo lungo, che ho vissuto intensamente, che va dal '60 di Genova, dalla ripresa delle lotte alla Fiat, fino all'80, fino alla sconfitta operaia alla Fiat (ed oltre, sino alla sconfitta di Berlinguer e di Democrazia Proletaria sul referendum sulla scala mobile). Non amo la liturgia consolatoria, ma nemmeno le interpretazioni liquidatorie. Occorre ancora ricercare su un sommovimento che segnò e ancora segna il "vissuto" della società. Sottolineo, per brevità, solo alcuni temi. Vi è, innanzitutto, un filo comune che caratterizza soprattutto il '77: un fenomeno redistributivo dell'economia ma anche del potere. Una lotta degli esclusi dal potere (vogliamo tutto). Ma anche una radicale, aspra contestazione dell'ordine capitalistico; «una nuova domanda di socialismo», scrisse Rossanda. Con una critica violenta alle strutture stesse del riformismo. La "cacciata" di Lama dall'Università di Roma è l'inizio di una dura lotta tra movimenti e il Pci (che appellò quei movimenti come "diciannovisti"). Nascevano le leggi "speciali", l'armamentario autoritario dell'emergenzialismo, soprattutto contro la lotta armata (l'assassinio di Aldo Moro e della sua scorta fu un detonatore). La repressione colpì, però, duramente ogni espressione conflittuale radicale, in nome di una "ragion di Stato" controproducente che non recuperò consenso giovanile ma accrebbe rancori e contrapposizioni. Noi giuristi democratici fummo emarginati perché tentammo di costruire un argine all'arruolamento nella lotta armata, prendendo nettamente le distanze dalla legislazione repressiva e dalla torsione autoritaria statalista. 

Mutava, intanto, la composizione sociale dei movimenti, anche perché il capitale, come risposta al diffuso conflitto sociale e democratico (che aveva coinvolto l'intera società) portò avanti una profonda ristrutturazione tecnologica e del mercato del lavoro. Il postfordismo agiva all'interno della formazione sociale precarizzando la forza lavoro di interi settori produttivi. Mentre la diffusione dei processi di produzione nel territorio metteva "al lavoro" le vite di milioni di giovani. Nasceva, di conseguenza, nelle sinistre anticapitaliste, l'ideologia dell'"operaio sociale". La riscossa delle classi dominanti è annunciata dalle parole di Guido Carli, governatore della Banca d'Italia, che sosteneva che "due prezzi" avevano avuto una crescita patologica dal punto di vista dell'accumulazione del capitale, le "materie prime e la forza lavoro". Due relazioni, cioè, eminentemente sociali e politiche: il conflitto anticoloniale, da un lato; il conflitto di classe, dall'altro. Non è, infatti, l'economia a produrre relazioni sociali ma l'insopportabilità, anche soggettiva, delle relazioni sociali e dei rapporti sociali a produrre l'economia, a condizionarne cicli, sviluppi, esiti. Il '77 chiedeva di indagare un tema tuttora irrisolto: il rapporto tra autonomia della formazione sociale e ordoliberismo, per usare l'espressione del grande, compianto Luciano Gallino. Tentammo, in definitiva, 40 anni fa, un vero e proprio salto teorico: contro l'assolutismo del mercato parlammo di critica del prodotto, di controllo della salute, di critica "del lavoro" e delle condizioni lavorative "nel lavoro". Con Gramsci indagavamo "che cosa, come, per chi produrre". Sembrano, oggi, temi vetusti; perché fummo sconfitti; ma il nesso tra capitale e  rapporti sociali, tanto più oggi, in un contesto in cui la contraddizione è diventata biopolitica, tra capitale e vita, è ancora aperta, irrisolta, squadernata dinanzi a noi.

Giovanni Russo Spena, già segretario di Dp, senatore di Rifondazione Comunista e membro dei Cristiani per il Socialismo

*Foto tratta da Wikipedia, immagine originale e licenza

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