La forza della nostra democrazia e il travaglio del cambiamento
Gli elementi di valutazione offerti dal responso elettorale del 4 marzo scorso all’attenzione del Capo dello Stato per le decisioni da assumere in ordine alla formazione del nuovo governo sono da individuare innanzitutto nel giudizio negativo espresso dal voto nei confronti delle forze politiche che in vario modo (talvolta anche, come nel caso di Forza Italia, nonostante la formale collocazione nel fronte delle opposizioni) hanno in pratica sostenuto l’azione dei governi nell’arco dell’ultimo quinquennio. Una scelta punitiva che per contro ha premiato quelle forze di opposizione che hanno in concreto decisamente contrastato le politiche della maggioranza. Un orientamento politico dell’elettorato che nell’esercizio dei poteri attribuiti al Presidente della Repubblica deve pesare però entro i limiti segnati dalla natura del ruolo, in questo caso rigorosamente arbitrale, del Capo dello Stato con la conseguenza che egli, a conclusione delle “consultazioni” condotte secondo l’ormai consolidata “prassi costituzionale”, potrà conferire l’incarico solo alla personalità che dimostrerà di essere in grado di formare un governo che possa avere la fiducia del Parlamento. E lo potrà fare tenendo nel debito conto la logica che presiede all’architettura costituzionale dello Stato per come disciplinata nella parte ordinamentale dello Statuto alla luce dei principi sanciti nella prima parte dello Statuto medesimo.
Deve essere invero rispettata l’esigenza di evitare il susseguirsi di infruttuosi tentativi parlamentari con perdite di tempo e appesantimenti della situazione politica. Una considerazione questa che non dovrebbe sfuggire all’attenzione di Di Maio e di Salvini e neppure a quella di quanti nel PD vanno a cuor leggero sostenendo che la formazione del Governo sarebbe un dovere riservato solo alle formazioni politiche risultate vincenti. E lo fanno dimenticando che in una situazione tripolare come quella venutasi a creare nella quale nessun polo ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, la responsabilità (non dovere e neppure onere) di favorire o meno la formazione di un Governo grava su ciascuna delle maggiori aree politico-parlamentari determinanti i cui comportamenti saranno poi giudicati dal corpo elettorale (aree che diventerebbero quattro qualora i gruppi parlamentari di Lega e Forza Italia dessero contrastanti indicazioni). Nell’ipotesi poi in cui le consultazioni dovessero mettere in luce l’assoluta impossibilità di formare una qualsivoglia maggioranza di governo, il Capo dello Stato non potrebbe che orientarsi verso un rapido scioglimento delle Camere per un nuovo ricorso alle urne. Ma in questo caso l’elemento di valutazione della forte domanda di cambiamento politico dianzi richiamato acquisterebbe marcato rilievo, inducendo con ogni probabilità il Presidente Mattarella ad affidare l’incarico di formare un governo di “comune responsabilità” sostenuto dalle forze disponibili a una personalità indipendente anche per evitare, in attesa delle nuove elezioni, l’antidemocratico protrarsi oltre un tempo ragionevole della sopravvivenza di un governo che è stato clamorosamente bocciato dagli elettori.
Giova forse a questo punto ricordare per fugaci cenni che secondo il nostro Statuto il Parlamento è il centro della vita costituzionale, esercita il potere sovrano che spetta al popolo, ha la rappresentanza politica di tutti i cittadini ed è eletto “a suffragio universale diretto” dai cittadini medesimi. Per parte sua, il Presidente della Repubblica, che è “il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”, pur essendo eletto dal parlamento integrato da delegati regionali, è indipendente dall’organo che lo elegge e non ne ha la rappresentanza politica mentre il Presidente del Consiglio dei Ministri nominato dal Capo dello Stato come lo sono, su proposta del Premier, anche i Ministri, “dirige la politica generale del Governo” mantenendo “l’unità di indirizzo politico e amministrativo”. Nessun allarme quindi per la situazione venutasi a creare perché, malgrado tutte le diatribe partitiche e le miopie di certa politica, le attuali difficoltà saranno certamente superate. Uno sbocco a portata di mano dal momento che la nostra democrazia è forte perché il governo (inteso questa volta come il complesso degli organi preposti alla suprema direzione dello Stato) risulta sapientemente disegnato dalla nostra Costituzione e perché non c’è cambiamento senza travaglio specialmente quando la domanda popolare che lo reclama sembra avere traguardi più produttivi e più ambiziosi di quelli, talvolta confusi o contraddittori, messi in campo da alcune forze politiche.
Tornando ai problemi del dopo elezioni, suscita invero una sensazione di desolata amarezza la disinvoltura con la quale alcuni politici, dopo aver confezionato con cura una legge elettorale che non doveva sortire vincitori solitari per favorire l’alleanza fra renzismo e berlusconismo e dopo averne registrato il fallimento, insorgono oggi per chiedere una nuova legge elettorale con un appropriato premio di maggioranza che in questa fase appare chimerico per il perverso gioco di contrastanti interessi partigiani. Sembra invero non abbiano costoro imparato che il fenomeno della “eterogenesi dei fini” (conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali) è sempre in agguato e che non esiste una legge elettorale degna di questo nome che possa fare vincere chi clamorosamente perde il consenso degli elettori.
Non può infine sfuggire che l’esito del recente responso elettorale ha fatto registrare la sconfitta di una sola area politica, quella della sinistra nelle sue diverse espressioni mentre vincenti sono risultati gli altri due poli: quello della coalizione di destra nel suo complesso (con la prevalenza della Lega su Forza Italia) e quello coincidente col Movimento pentastellato. La domanda che il PD deve porsi è allora come mai c’è stata una così massiccia fuga di consensi dal partito a guida di Renzi verso il Movimento pentastellato considerato ormai da molti in linea con alcuni valori della sinistra. E una domanda sui motivi del loro pesante insuccesso devono porsi anche i dirigenti del raggruppamento di Liberi e Uguali che ha avuto l’indubbio merito di esprimere a sinistra una novità suscettibile di positivi sviluppi ma è apparso in ritardo organizzativo e propositivo, attraversato da latenti e persino esplicite divisioni e segnato da un deficit di progettualità e di radicalità sul versante della politica economica.
Nell’introduzione del libro La sinistra che verrà a cura di Giuliano Battiston e Giulio Marcon (ed. Minimum Fax, febbraio 2018) si legge: «Dopo quarant’anni di dominio dell’ideologia delle politiche neoliberiste bisogna capovolgere il paradigma che abbiamo fin qui subito… la sinistra deve ridare dignità al lavoro e ripensarlo come fattore di liberazione individuale, di identità sociale e di coesione comunitaria». Bisogna insomma convincersi che la sinistra riformista che fa il verso alla destra liberista è irrimediabilmente fallita in America, in Europa e nel nostro Paese. Ciò che occorre alla sinistra, ovunque presente e comunque etichettata, è la scelta di una sua ricostruzione all’insegna di quei principi e di quei valori che promanano dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla nostra Costituzione, due documenti che sono di vivificante attualità e che si trovano agli antipodi del “pensiero unico” liberista.
* Palazzo Chigi in una fotografia di agenziami, immagine originale e licenza. L'immagine è stata tagliata.
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