
Sud Sudan: vera pace o solo una tregua per arricchirsi?
Scaturita nel dicembre 2013 dalla rivalità personale tra presidente, Salva Kiir, ed ex vicepresidente, Riek Machar, la guerra civile che infiamma il più giovane Paese africano rischia di concludersi con l'ennesimo accordo tra interessi privati. Il 27 giugno a Khartum (la mediazione è stata assunta dal presidente sudanese Omar al-Bashir) i due contendenti hanno siglato un preliminare, in linea con l'accordo di pace (naufragato) del 2015, per condurre a conclusione quello scontro al vertice che ha poi aperto la strada a una conflittualità diffusa e fratricida, dagli spietati connotati etnici.
E che il nuovo equilibrio non punti proprio al bene del popolo stremato ma a salvaguardare gli interessi delle parti in causa per sedare la conflittualità interna è stato chiaro anche agli inizi di agosto, con l'accordo sul nuovo governo e la distribuzione di parecchie poltrone: ben 5 vicepresidenti e 550 parlamentari (su 12 milioni di abitanti totali) che tra l'altro, stando alle prime impressioni, renderanno molto difficile qualsiasi azione di governo del Paese.
Ma intanto la pace non sembra più un miraggio così lontano, e il 30 agosto, dopo aver incassato il 9 dello stesso mese l'amnistia per lui e i per i suoi, il leader dei ribelli Machar ha siglato i termini dell'accordo che verrà formalizzato in un prossimo vertice dell'Igad (l'Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo formata dagli Stati del Corno d'Africa).
A Juba intanto si festeggia per i risultati conseguiti quest'estate, ma nel frattempo c'è anche chi storce il naso: «Non credono che siano state toccate le cause del conflitto», avverte l'articolo “La pace beffata” pubblicato dal periodico comboniano Nigrizia. «Si teme che l’ascia di guerra sia stata al momento sotterrata per essere ripresa alle prime divergenze.
Curioso innanzitutto che a mediare nel processo di pace sia lo stesso al-Bashir che il popolo susudanese ha combattuto per l'indipendenza e sul quale pende un doppio mandato d'arresto per crimini di guerra e crimini contro l'umanità spiccato dalla Corte penale internazionale dell'Aja. «Dopo essere stato chiamato in giudizio per crimini di guerra in Darfur – si legge su Nigrizia – ora si presenta come il garante della pace in Sud Sudan. Dopo interminabili discussioni ad Addis Abeba senza arrivare a una soluzione, Omar El-Bashir è riuscito in quattro e quattr’otto a persuadere le parti perché firmassero l’accordo. Sembra che sia proprio lui il vero vincitore».
Certo è che dopo anni di guerra che hanno stremato popolo e milizie di ambo le parti, l'esilio di Machar in Sudafrica e la crisi economica galoppante nel Paese, questo accordo sembrava rappresentare un ancora di salvezza un po' per tutti, afferma ancora il mensile missionario. «A rinforzare questa tesi sta il fatto che i protocolli firmati sono molto generici. Si limitano a individuare alcune linee guida ma non determinano le modalità specifiche di questa transizione».
Ma andiamo al dunque: «La priorità sembra ruotare intorno all’estrazione del petrolio. Con l’accordo infatti, Omar El-Bashir ha annunciato che i primi di settembre ricomincerà lo sfruttamento del petrolio. Il governo del Sudan di fatto controllerà l’estrazione del petrolio nei pozzi dell’Alto Nilo (Sud Sudan) e garantirà delle buone entrate nelle casse del Sud Sudan, come pure in quelle del Sudan, per l’utilizzo dell’oleodotto che attraversa il territorio sudanese. Per questo la gente dice che questa sia più una “tregua per arricchirsi più che una pace voluta per il bene della popolazione che continuerà a patire i soliti problemi irrisolti”».
La fine dei combattimenti non significa che per il nuovo governo i problemi siano finiti, visto che dovrà fronteggiare diversi nodi critici: il malcontento popolare per l'elargizione di regalie e potere agli amici dei leader; un esercito composto da milizie che fino a poco fa si trucidavano tra loro; una crisi economica che ha portato settori come scuola e sanità al collasso; gli effetti della guerra sulle divisioni tribali, sulle popolazioni sfollate, le terre non più coltivate, i villaggi abbandonati (i dati parlano addirittura di un terzo della popolazione attualmente profuga).
Insomma, una situazione devastata sotto ogni punto di vista e una polveriera pronta a riesplodere alla prima occasione: «Sorprende constatare come gli Stati Uniti e i Paesi europei si siano defilati già da tempo, incapaci di comprendere i processi di questo Paese. Gli altri paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, comprende Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Uganda) invece non sembrano mirare al bene del Sud Sudan».
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