
Anche "Riforma" avalla la grande menzogna sulla Prima Guerra Mondiale
"Noi e la Prima Guerra mondiale", si intitola l'articolo che apre il numero datato 2 novembre di Riforma, il settimanale delle Chiese evangeliche, battiste, moetodiste e valdesi. Se nella Chiesa cattolica il giudizio sul conflitto resta sempre sospeso tra la celebre definizione di "inutile strage" data da Benedetto XV e una certa retorica celebrativa della "IV guerra di indipendenza" e della guerra che dopo che l'Italia era stata unita avrebbe "unito gli italiani", anche nelle Chiese riformate pare che il giudizio su quell'enorme massacro di esseri umani resti ancora quanto meno contraddittorio.
«Il conflitto del 1914-18, diversamente da quello successivo, fu combattuto da un paese unito. Per questo motivo esso rimane nella memoria collettiva senza suscitare vergogna. Resta il fatto, a pensarci oggi, che la guerra è di per sé sempre sbagliata», è il giudizio di Samuele Revel, che firma il pezzo. Che in realtà altro non è che una intervista a Giorgio Rochat, storico e saggista. Del cui pensiero Revel si limita a fare una sintesi, senza però minimamente discuterne i contenuti. A partire dall'esordio stesso di Rochat, che dimentica lo scandalo delle commesse di guerra, o del settore industriale di produzione di aerei che, ad inizio del conflitto, partiva da zero come progettazione e produzione di materiali, dipendendo quasi totalmente dall’estero (situazioni cui si aggiunsero errori e speculazioni) e afferma che la Prima Guerra mondiale sarebbe «stata la prima e anche l’ultima di un paese unito. La classe dirigente di allora era preparata e la condusse con coscienza e consapevolezza: insomma, semplificando, l’ha fatta “bene”. Ma non mi si fraintenda, la guerra è sempre sbagliata, questo voglio sia chiaro». Ma è stata una guerra dell’Italia o degli italiani?, chiede Revel, e Rochat risponde nuovamente in modo perlomeno discutibile (basti pensare all'eclatante rivolta della brigata Catanzaro, delle decimazioni e dei processi sommari contro i soldati che contestavano gli ordini, ai tanti canti contro la guerra che clandestinamente circolavano sin dall'inizio del conflitto tra i soldati e la popolazione civile, alle lettere di critica feroce agli alti comandi militari scritte da migliaia di soldati (che costarono loro processi e condanne durissime), alle centinaia di lettere inviate al re affinché ponesse termine al conflitto (alcune delle quali pubblicate in un prezioso libro di R. Monteleone, Lettere al re. 1914-1918, Roma, 1973): «In un primo tempo - questa invece la risposta di Rochat - la maggior parte della popolazione la sentiva sua. Naturalmente a “trascinare” erano le classi benestanti. A riprova di questo fatto sono le rivolte. Nell’Esercito italiano, benché le condizioni delle trincee fossero tutt’altro che felici, non ci sono state grandi rivolte verso gli ufficiali. E le azioni si sono svolte sempre con grandi sacrifici di uomini: per noi è difficile da capire, ma durante le ostilità si creano delle situazioni che in tempo di pace non possono esistere. Nei canti degli Alpini, uno specchio della vita militare di trincea, a esempio si legge tristezza, dolore, ma mai un sentimento di rivolta e di ribellione: c’è l’obbedienza che è sopra tutto. Il primo conflitto mondiale ha coinvolto tutti, parlando di maschi in età arruolabile, mentre per il secondo (e nella mia famiglia questo esempio è chiaro) solo una minoranza ha impugnato le armi».
Anche nelle valli valdesi, rassicura Rochat, la guerra sarebbe stata accettata «con senso del dovere, del sacrificio e dell’ubbidienza. Questo hanno predicato i pastori dal pulpito; e, quando chiamati, si sono mescolati con i militari, nelle trincee, negli assalti, svolgendo il loro ruolo di cappellania che consisteva soprattutto nello spronare e nel rincuorare gli uomini. Nelle valli valdesi, come nel resto d’Italia, i casi di diserzione sono stati minimi». Anche in questo passaggio, nessun riferimento al ruolo svolto dai cappellani militari nel benedire la guerra, i gagliardetti, gli assalti suicidi alle trinceee nemiche cui i fanti erano costretti - con i carabinieri pronti a sparare alle spalle su chi indietreggiava, esitava, tentava di ripararsi dal fuoco nemico. Nessuna parola sulla propaganda religiosa, i santini con Cristo e i santi al capezzale dei soldati morenti che ne benedicono l'eroica morte e ne prendono in consegna l'anima per portarla in paradiso, le benedizioni di armi e gagliardetti prima degli assalti, la struttura religiosa totalmente asservita all'ideologia di morte dello Stato Maggiore dell'esercito.
L'apologia del conflitto prosegue e Rochat, che non fa menzione del modo con cui sin dalla sua conclusione la Prima Guerra Mondiale sia stata oggetto di manipolazione storica, rimozione sistematica dell'esistenza stessa dei feriti, dei mutilati e sfigurati in modo orribile a causa dei gas e delle bombe, dei soldati che tornavano dal fronte con malattie psichiche gravissime, dei 600mila prigionieri italiani ridotti pelle ed ossa anche a causa di un governo - quello italiano - che impedì l'invio di ogni aiuto in cibo, vestiti, generi di prima necessità perché considerava i prigionieri dei vili che si erano consegnati al nemico. Dopo il 4 novembre, spiega invece Rochat, «In ogni Comune è stata celebrata la guerra. Con lapidi, parchi della Rimembranza, viali e monumenti». Una memoria che solo l'avvento del fascismo avrebbe "contaminato", secondo Rochat: «sono passati pochi anni e con l’avvento del fascismo si è avuto un “iper-patriottismo” che è diventato insopportabile per molti reduci. “Basta guerra” erano le parole di quegli anni di chi vedeva il fascismo esaltare e fare propria una tragedia come quella appena conclusa: ai vari Nenni, Lussu e Parri sembrava che il fascismo rubasse loro la guerra che avevano combattuto».
Fino al bilancio finale: della guerra, sostiene Rochat, «è rimasto il ricordo condiviso e “unitario”: a riprova di questo ancora oggi ci sono parole che riportano a quel periodo, sono diventati luoghi comuni ed evocano qualcosa che fa parte della storia d’Italia. Di questo conflitto non ci si è vergognati. L’esercito non si è macchiato di azioni come quelle svolte in Africa o in Jugoslavia contro i partigiani. Ed è rimasto il ricordo di una grande tragedia».
* Celebrazione della messa sulle pendici del Monte Ortigara - 1917.
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