
Fanatismo e risorse: p. Albanese spiega le ragioni delle violenze nell'Est Congo
In un’“Analisi” pubblicata il 29 luglio sul quotidiano dei vescovi italiani Avvenire, p. Giulio Albanese (missionario comboniano, saggista, direttore dell’Ufficio per le Comunicazioni sociali e dell’Ufficio per la Cooperazione missionaria del Vicariato di Roma, collabora con diverse testate cattoliche come Avvenire e L’Osservatore Romano) racconta, con esperienza, lucidità e chiarezza, «cosa c’è cosa c'è dietro alle mattanze in Congo».
L’analista prende le mosse dal «raccapricciante» massacro dei 43 cattolici nella parrocchia di Komanda lo scorso 27 luglio (provincia orientale dell’Ituri, v. Adista qui, qui e qui)
«Quarantatré giovani del Movimento Eucaristico Giovanile (Mej) sono stati massacrati da una formazione armata islamista, mentre erano riuniti per celebrare il 25° anniversario del loro gruppo all’interno della parrocchia dedicata alla Beata Anuarite di Komanda, diocesi di Bunia (provincia dell’Ituri). Quello che doveva essere un tempo di grazia si è trasformato in un inferno di dolore». Albanese spiega che l’aggressione delle milizie jihadiste dell’Allied Democratic Forces (Adf) non è stata «un episodio isolato in quanto da quelle parti, soprattutto lungo il confine tra il Nord Kivu e la provincia dell’Ituri, ogni settimana si verificano uno o due raid, vere e proprie mattanze perpetrate all’arma bianca o a colpi di kalashnikov, nei villaggi o nei campi, a volte anche sulle strade in terra battuta».
Queste milizie massacrano o rapiscono persone di fede cristiana e animista. Quanti riescono a sopravvivere, scrive Albanese, «vengono sottoposti a sedute di indottrinamento invasive: una sorta di lavaggio del cervello che trasforma queste reclute in automi in grado di compiere indicibili nefandezze, grazie anche alla somministrazione di sostanze stupefacenti».
Le orribili azioni dell’Adf, spiega ancora il giornalista missionario, non sono avulse dal contesto geopolitico dell’Est Congo, «una terra che da lunghi anni continua a essere bagnata da sangue innocente, (…) colpevolmente ignorata da gran parte della stampa internazionale».
La dimensione del conflitto è grande e la complessità difficile da raccontare: 20mila combattenti divisi in oltre 100 gruppi armati (spesso banditi o sbandati, a volte milizie ben organizzate): tra questi il più noto è forse il Movimento 23 Marzo, balzato agli onori della cronaca per l’alleanza con il Ruanda e dopo l’avanzata in Nord e Sud Kivu. Le Adf, rispetto all’M23, si dimostrano più brutali e imprevedibili, sono un gruppo «ribelle islamico di matrice ugandese, considerato un’organizzazione terroristica dal governo di Kampala». Dopo l’arresto del fondatore, il movimento si è spaccato, la componente dominante si è ulteriormente radicalizzata e ha giurato fedeltà all’Isis (entrando nell’Iscap, sigla che identifica la Provincia dell’Africa centrale dello Stato islamico). «La loro ferocia», spiega ancora Albanese, «mediatizzata attraverso una strategia comunicativa delirante, è incentrata sulla provocazione, uno dei tratti caratteristici dell’ideologia salafita, quella su cui si reggono le cellule eversive d’estrazione islamista. L’intento di questi jihadisti è quello di strumentalizzare la religione per fini eversivi, attribuendo all’Occidente la responsabilità del degrado mondiale e annientando chiunque si opponga al loro delirio di onnipotenza». Un delirio che provoca morte, distruzione e fughe di massa dai territori colpiti, guarda caso abbondanti di risorse naturali strategiche, che consentono ai miliziani di arricchirsi e rifornirsi continuamente di armi.
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