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Combattere la violenza delle religioni contro le donne: nasce un Osservatorio interreligioso

Tratto da: Adista Notizie n° 11 del 23/03/2019

39738 BOLOGNA-ADISTA (dall’inviata). La violenza sulle donne assume tratti che attraversano differenze sociali, etniche e religiose; taciuta e coperta dalle Chiese e dalle religioni, è stata finalmente affrontata sistematicamente nel Decennio ecumenico delle Chiese in solidarietà con le donne (1988-1998), quindi in Italia dall’Appello alle Chiese cristiane in Italia (9 marzo 2015, v. Adista Segni Nuovi n. 11/15) lanciato dal consiglio della Federazione delle Chiese evangeliche ma condiviso a livello ecumenico. Un appello che è caduto nell’oblio, ora rilanciato e ampliato dall’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, cui le fondatrici, 22 donne di confessioni e religioni diverse, hanno dato vita il 14 marzo a Bologna.

Nato grazie all’iniziativa di Paola Cavallari, responsabile del Segretariato Attività Ecumeniche del capoluogo emiliano, l’Osservatorio – che ha visto la luce presso la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII diretta da Alberto Melloni, presente all’evento –, concepito nel maggio 2017 come un cantiere aperto, ha raccolto la sfida di lottare «contro la discriminazione strutturale causata da stereotipi di genere e da rapporti di dominio che gli uomini esercitano ai danni delle donne e che portano a forme di aggressione, non solo fisica, presenti in ogni ambito della convivenza civile», si legge nel protocollo sottoscritto dalle fondatrici. Le 22 donne, «animate dall’etica del riconoscimento della differenza e convinte che il dialogo assolva una funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile», intendono favorire il dialogo interreligioso e interculturale sul tema della violenza contro le donne, che è un problema non emergenziale ma strutturale; essere un luogo di presa di parola per le donne; creare un ponte tra dialogo interreligioso e teologia; promuovere azioni di giustizia e sviluppo paritario.

Nel corso dell’evento, Melloni ha presentato l’iniziativa della fondazione “A proposito di Eva”, festival itinerante di lezioni e spettacoli, su esperienze di fede e violenza di genere. «Molte delle firmatarie arrivano dal Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) – ha detto poi il presidente del SAE Piero Stefani – e la dirigenza ha dato un appoggio sincero e significativo all’iniziativa. All’inizio c’è un appello firmato da Chiese alle Chiese; devono ricevere insegnamento e non solo darlo. L’appello è caduto nel vuoto, e questa iniziativa rappresenta un appello all’appello. Il SAE da sempre è aperto al dialogo interreligioso, non solo ecumenico; sappiamo che le religioni hanno tradizioni molto antiche e testi che hanno bisogno di essere riletti e reinterpretati per essere applicati in un momento diverso da quando sono stati elaborati. Questo compito ermeneutico permanente è necessario che sia fatto dalle donne. Ma non è solo un problema di religioni ma una realtà quotidiana di ingiustizia: questo è l’appello più vero, il grido della realtà».

In un giro di interventi successivo alla cerimonia di firma del protocollo, Sara Kaminski, del Gruppo studi ebraici dell’Università di Torino, ha detto che l’«istruzione è l’elemento fondamentale per permettere alle donne di confrontarsi con le situazioni. Nella storia dell’ebraismo le donne sono sempre rimaste ai margini della società e questo non deve più avvenire. Non è femminismo: è un diritto civile. Bisogna dare alle donne del futuro gli strumenti per essere e sentirsi uguali». Per Svamini Hamsananda Ghiri, vicepresidente dell’Unione Induista Italiana, l'Italia è un Paese multireligioso in cui l’induismo è silenzioso; è un Paese che, se accogliente, consente alle emigrate di mettere radici. Quest’anno si celebra il 150mo anniversario della nascita del Mahatma Gandhi, che ha appreso la nonviolenza da sua moglie. Maria Angela Falà, presidente della fondazione Maitreya–Istituto di cultura buddhista, ha sottolineato che c’è bisogno anche di un dialogo intrareligioso. Nella nostra tradizione, ha detto, c’è misoginia: anche se Buddha ammise le donne nell’ordine, la donna è comunque l’ultima dei novizi. Bisogna fare ancora molto lavoro, anche se c’è una rinascita dell’ordinazione monastica femminile, ma ciò è accaduto grazie a donne occidentali che hanno portato forza alle donne asiatiche. Solo due anni fa ci sono state le prime due laureate in teologia buddhista nella tradizione tibetana. Marisa Iannucci, associazione Life-Onlus, musulmana, ha sottolineato come la firma del protocollo sia un inizio, e rappresenti il prendere una parola pubblica contro tutti gli aspetti culturali che producono discriminazione e violenza sulle donne. «Il sistema patriarcale è presente e impermeabile anche ai messaggi di uguaglianza che abbiamo trovato nelle nostre fedi», ha detto. La religione deve mandare un messaggio diverso alle giovani e ai giovani. Qualcosa si sta già muovendo: tutto quello che parte dalle donne parte dietro le quinte, ma non è detto che vi rimanga. Per Paola Cavallari, l'«Osservatorio ha una connotazione ulteriore: a osservare sono le donne. Non è un fatto scontato nella nostra cultura: il corpo delle donne è un corpo osservato e adesso siamo noi a osservare per esprimere una soggettività nuova. Si guardano anche le violenze subdole, pervasive, perché il “potere maschile ha qualcosa di ipnotico”, come diceva Virginia Woolf. Bisogna liberarsi da una gabbia, una visione delle cose per cui le donne non hanno autonomia: rompere questi schemi è molto difficile». Presente anche Anne Soupa, fondatrice del Comité de la Jupe, gruppo di donne cattoliche francesi. «Le discriminazioni nelle religioni sono diverse ma in fondo si assomigliano», ha detto (v. anche Adista Documenti allegato). «In questi 10 anni abbiamo fatto tante cose: anche un conclave di 72 donne, due giorni prima dell’elezione di Francesco, in cui abbiamo detto che volevamo un papa della misericordia e non della legge: siamo state ascoltate. La Chiesa però non è molto cambiata. Il quadro in Francia è peggio di quello del 2008. C’è un movimento reazionario abbastanza forte. Vorrei parlare anche della violenza dell’indifferenza. Le donne non le vedete, diciamo ai vescovi, sono invisibili, eppure fanno molte cose, ma non hanno le responsabilità che spetterebbero loro: al Sinodo della Famiglia le donne non potevano votare. Questo mi fa veramente male. Dobbiamo aiutarci da un Paese all’altro».

Non solo reato, anche peccato

Nel corso dell’evento è stato presentato anche il libro Non solo reato, anche peccato (Effatà editore), a cura di Paola Cavallari, che raccoglie i contributi presentati ai Dialoghi svoltisi a Bologna dal 2016 al 2018, sulla scia dell’Appello del 2015. La parola «diventa azione profetica», scrive la teologa Cristina Simonelli nella prefazione; «un’alleanza tra donne nelle religioni», afferma Paola Cavallari, donne che proprio dalle religioni sono state “derubate” e che ora chiedono loro giustizia, nella convinzione che esse non siano nemiche delle donne e che l’equilibrio possa essere ristabilito.

Tra i 12 contributi, quello di Angela Romanin, vicepresidente della Casa delle Donne di Bologna, mette in rilievo la necessità di nominare la violenza, dal momento che nelle strutture patriarcali della famiglia spesso vi è un continuum di violenza considerato normale. Gabriela Lio, pastora battista, invoca l’impegno delle Chiese ad agire per sradicare comportamenti e convinzioni strutturali che hanno in sé il germe della discriminazione, considerando le donne oggetto e non soggetto; Melloni punta il dito contro il matrimonio post-tridentino, che inserisce nel sacramento la cifra dell’autorità, con la presenza del prete e del padre, e definisce i fini, procreazione e disciplinamento del desiderio, dando così origine alla retorica del matrimonio che genera “la prima cellula della società”: la famiglia diviene il primo luogo in cui si manifesta la diseguaglianza, in cui chi deve essere dominato accetta la dominazione e chi deve dominare riceve la legittimazione; di fatto, il matrimonio diviene «sacramento della disuguaglianza». Di qui la follia femminicida, che si innesta proprio sul matrimonio dei fini: l’assassino uccide per punire un atto che ha violato un ordine, si percepisce come eroe che attua un sacrificio in nome del perpetuarsi dell’ordinamento. Per la teologa Marinella Perroni (già presidente del CTI), l’enorme lavoro di decostruzione e ricostruzione esegetica fatto ancora solo da donne indica la resistenza ad accettare una rilettura del passato che consenta di individuare gli elementi che hanno generato l’asimmetria e deportato le donne dalla storia. Oggi le donne, sostiene, devono tenere alta la guardia sull’esercizio della sessualità, di cui fa parte la saldatura tra responsabilità e libertà. La libertà è il portato della modernità, ma non si può arrivare a una giustizia nell’interpretazione delle scritture se si rifiuta il femminismo perpetuando l’atteggiamento paternalista, «volto mellifluo di un’organizzazione monosessista». Sul volto intrinsecamente femminista dell’islam scrive Rassmea Salah (Ufficio stampa dell’Unione Comunità Islamiche Italia): il problema dell’islam non è la religione ma uomini musulmani che deviano dalla corretta interpretazione del Corano, strumentalizzandolo; sulla stessa linea Marisa Iannucci, che sottolinea come vi sia una visione deformata dell’islam, confuso con una subcultura musulmana sessista.

Cavallari ricorda il lavoro svolto nel XX secolo dal World Council of Churches sul tema delle donne, mentre Piero Stefani riflette sulla storia biblica di una anonima concubina nel libro dei Giudici (19,1) per dire che la mancanza di un nome è mancanza di autonomia decisionale e che anche tuttora, dove si dispiega una civiltà impregnata di matrici giudeo-cristiane, il corpo delle donne è strumentalizzato. La pastora valdese Letizia Tomassone mette l’accento sugli assi tramite i quali la violenza si trasmette – dalle radici della cultura biblica al silenzio delle Chiese, all’idea di dominio, alla vergogna per la violenza sessuale, alla complicità maschile – per riaffermare che non c’è uscita dalla violenza senza giustizia e che la violenza non è solo gesto privato, ma si innesta in un quadro sociale più grande.

Presente nel libro anche il punto di vista maschile di chi, come il pastore valdese Daniele Bouchard, membro di “Nuovo maschileUomini liberi dalla violenza”, propone la pratica dell’autocoscienza maschile rivoluzionaria per arrivare alla ricerca di un maschile postpatriarcale che si riconosca come parzialità in dialogo con le differenze: un atteggiamento che richiede autocritica, coraggio del cambiamento, creatività nel reinventarsi. Analoga prospettiva quella proposta da Stefano Ciccone (cofondatore di Maschile plurale) che si chiede quanto le culture siano accomunate dalla rappresentazione di un femminile oblativo e passivo e di un maschile razionale e protettivo, di una rappresentazione del corpo femminile come bene puro da proteggere dallo sguardo maschile e di un desiderio maschile bulimico e ferino; sostenendo che la violenza «nasce in un contesto conosciuto, fatto delle nostre rappresentazioni del maschile e del femminile, dobbiamo provare a pensare cosa possa esserci nel nostro immaginario condiviso», trasversale a culture e religioni, che produce quella violenza. Considerarla frutto di un disordine è rischioso, in quanto rischia di dare origine a una nostalgia di un ordine perduto, che, al contrario, va sradicato, a favore di una rappresentazione del maschile che non sia esperienza di rinuncia ma opportunità di pienezza e libertà per la donna. 

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