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Inumana e pericolosa: voci contro la guerra turca ai curdi in Siria

Inumana e pericolosa: voci contro la guerra turca ai curdi in Siria

Il popolo curdo nel nord della Siria – baluardo dell’Occidente contro l’avanzata dell’Isis in Medio Oriente – è sotto attacco. I bombardamenti dell’aviazione turca e la missione di terra inaugurata il 9 novembre hanno già provocato danni, vittime civili e fughe di massa. L’iniziativa militare di Erdogan – paradossalmente battezzata dal presidente turco “Primavera di pace” – ha come obiettivo la definizione di una safe zone di circa 500 km lungo tutto il confine tra Siria e Turchia per 40 km di profondità, una zona cuscinetto per consentire ai rifugiati siriani di tornare a casa e per proteggere i confini meridionali dalle Unità curde di Protezione Popolare (Ypg), considerate un movimento militare terroristico alla stregua del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) che fa base nel sud della Turchia.

Ambiguità internazionali

Gli “amici” curdi sono anche soli, abbandonati da una comunità internazionale che, dopo aver elogiato il loro sacrificio e la loro dedizione nella guerra di liberazione dal sedicente Stato Islamico, ha espresso grande preoccupazione e indignazione ma, allo stesso tempo, ha dimostrato un certo imbarazzo di fronte dell’alleato turco, membro della Nato. Difficile poi per l’Europa mettersi contro Recep Tayyip Erdogan, dopo aver investito così tanto in termini economici (6 miliardi di euro) e diplomatici per convincere la Turchia a frenare i flussi migratori generati dalla crisi siriana.

Il 6 ottobre scorso, dopo una telefonata tra il presidente Usa Donald Trump e il suo omologo turco, il presidente Usa ha deciso di ritirarsi dal nordest della Siria, lasciando campo libero all’invasione turca in terra siriana. «È tempo per noi di uscire da queste ridicole guerre senza fine, molte delle quali tribali, e riportare i nostri soldati a casa», ha dichiarato via Twitter. «Combatteremo dove c'è un vantaggio per noi, e solo per vincere. Turchia, Europa, Siria, Iran, Iraq, Russia e i curdi se la dovranno cavare da soli». Ma la decisione di Trump ha sollevato critiche nell’amministrazione Usa, nel Pentagono e anche in seno al partito repubblicano. Per molti, ritirarsi dalla Siria è stato un grave errore strategico, dalle conseguenze incalcolabili sul piano geopolitico, economico e umanitario, nonché un tappeto rosso steso ai nemici di sempre (Russia, Assad, Iran, Isis). Tra le altre conseguenze dell’invasione turca, c’è il concreto rischio di fuga di numerosi miliziani del Califfato detenuti nei campi di prigionia nel nord della Siria, sorvegliati anche dai sodati americani. Critiche che sembrano aver costretto il presidente a un parziale ripensamento, soprattutto nella valutazione di sanzioni economiche da imporre a Erdogan qualora «non agirà nel modo più umano possibile».

Secondo il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Abul Gheit, «I piani della Turchia aprirebbero la porta a un ulteriore peggioramento della situazione umanitaria e della sicurezza in Siria. L’incursione militare turca rischia di innescare ulteriori conflitti in Siria e di consentire al gruppo terroristico dell’Isis di rimettere insieme le sue forze nel Paese arabo colpito dal conflitto» (Sir, 9/10).

Fermare l'export di armi italiane verso la Turchia

«Forte preoccupazione», soprattutto in seguito alla notizia dei primi morti civili, è stata espressa anche dalla Rete Italiana per il Disarmo, della quale fanno parte, tra gli altri, Acli, Iriad, Arci, Associazione Papa Giovanni XXIII, Associazione per la Pace, Beati i costruttori di Pace, Commissione globalizzazione e ambiente (Glam) della Fcei, Conferenza degli Istituti Missionari in Italia, Fondazione Finanza Etica, Gruppo Abele, Libera, Movimento Nonviolento, Noi Siamo Chiesa e Pax Christi Italia.

«Chiediamo con forza al Governo italiano di adoperarsi per fermare un’escalation di conflitto inaccettabile», ha detto il coordinatore della Rete Francesco Vignarca in un comunicato del 9 ottobre.

La Rete Italiana per il Disarmo invita il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a sospendere «con effetto immediato tutte le forniture di armamenti e sistemi militari verso il Governo di Ankara», in obbedienza alla Legge 185/90 «che impedisce di inviare armi a Paesi in stato di conflitto armato».

La Turchia, si legge ancora nel comunicato, è uno dei principali clienti dell’industria bellica italiana: «Negli ultimi quattro anni l’Italia ha autorizzato forniture militari per 890 milioni di euro e consegnato materiale di armamento per 463 milioni di euro», ha aggiunto Vignarca.

Secondo il ricercatore esperto di export di armi, Giorgio Beretta, è inaccettabile «che il nostro Paese, che ha attivamente sostenuto l'impegno delle popolazioni curde di contrasto all'Isis, continui a inviare sistemi militari alla Turchia che oggi intende occupare militarmente i territori curdi». Il Parlamento italiano, ha concluso l’analista della Rete Disarmo, deve imporre «lo stop alle forniture di sistemi militari di produzione italiana fino a che la situazione non sarà chiarita. L'appartenenza della Turchia alla Nato non può costituire un alibi per non affrontare la questione ed assumere le necessarie decisioni».

Si rischia il massacro

A poche ore dall’inizio dei bombardamenti, mons. Jean-Clement Jeanbart (arcivescovo greco-melkita di Aleppo) ha manifestato tutto il suo disappunto e la sua preoccupazione in un colloquio con l’agenzia Sir (9/10): «Si rischia un grande massacro con tanti morti innocenti. Provo una grande pena» per «un’altra fonte di guerra di cui avremmo fatto volentieri a meno. È terribile», ha detto. L’idea stessa della safe zone, «un Paese dentro un altro Paese», è inquietante: innanzitutto si tratta di «una delle aree più ricche di risorse della Siria», in termini di acqua, petrolio, gas, campi fertili. In secondo luogo, ha proseguito l’arcivescovo, spostare in quella regione circa 2 milioni di siriani, al momento rifugiati in Turchia, «rischia di provocare un terremoto demografico. I curdi saranno costretti a lasciare le loro terre e case creando i presupposti per tensioni interne continue. Credo che sia una cosa inumana».

In conclusione, secondo mons. Jeanbart «ci sono i margini per arrivare ad un’intesa tra le parti così da salvaguardare le diverse richieste. Invece è stata scelta la soluzione militare. Il rischio adesso è quello di un vero e proprio massacro con tanti morti innocenti. I curdi non cederanno e combatteranno fino allo stremo. Spero che si possa tornare a dialogare per trovare una soluzione pacifica, un compromesso che garantisca la sicurezza a tutte le parti in campo».


* combattente curdo del YPG. Foto di Kurdishstruggle, tratta da Flickr. Immagine Originale e Licenza. L'immagine è stata ritagliata.

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