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Voci dal Sinodo. Il racconto dello sterminio dei popoli indigeni nel Mato Grosso do Sul

Voci dal Sinodo. Il racconto dello sterminio dei popoli indigeni nel Mato Grosso do Sul

Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 16/11/2019

DOC-3024. ROMA-ADISTA. Tra i tanti leader indigeni venuti a Roma per il Sinodo sull'Amazzonia, durante il quale hanno potuto far conoscere la situazione dei rispettivi popoli, denunciando invasioni, violenze ed abusi, Leila Rocha, leader del popolo Guarani Nhandeva nel Mato Grosso do Sul, ha lasciato sicuramente un segno tra chi, da Trento a Roma, ha avuto l'occasione di incontrarla durante la sua permanenza in Italia. Rappresentante del Consiglio Aty Guasu (la Grande Assemblea generale dei Guarani Kaiowá) e della Kuñague Aty Guasu (la Grande Assemblea delle donne Kaiowá e Guarani), Leila Rocha ha portato in Italia la tragedia di cui è vittima il suo popolo.  

È da decenni, infatti che, nello Stato brasiliano del Mato Grosso do Sul, i Guarani Kaiowá – una delle tre etnie guarani presenti in Brasile – lottano per fare ritorno nelle terre dalle quali furono espulsi, oggi deforestate e invase dai latifondisti. Un destino comune ai popoli originari del Brasile, dove i tentativi di annientare le comunità tradizionali sono stati nel corso del tempo molteplici e ripetuti e dove sono ancora 821, su 1.290, le terre indigene ancora in attesa che si concluda il processo di demarcazione (un processo che avrebbe dovuto essere portato a termine entro 5 anni dalla promulgazione della Costituzione brasiliana del 1988).  

Ed è un destino che non fa che peggiorare: come evidenzia il Rapporto del Cimi (il Consiglio indigenista missionario vincolato alla Conferenza dei vescovi) sulla Violenza contro i popoli indigeni brasiliani relativamente ai dati del 2018, lo scorso anno sono stati registrati 111 casi di invasione, sfruttamento illegale di risorse naturali e danni al patrimonio in 76 aree indigene, rispetto ai 96 dell'anno precedente e – ancor peggio – ai 160 registrati solo nei primi nove mesi del 2019 in 153 terre ancestrali.  

E non solo: se prima gli invasori – fazendeiros, garimpeiros, madereiros – entravano nelle terre tradizionali e, dopo averle saccheggiate, andavano via, ora, evidenzia il rapporto, in molte regioni essi vengono per rimanere, arrivando persino a dividere i territori ancestrali in lotti e a venderli.  

Sono aumentati anche i casi di omicidio, saliti dai 110 del 2017 ai 135 del 2018 (tra cui 62 in Roraima e 38 in Mato Grosso do Sul). A cui bisogna aggiungere 101 suicidi, in massima parte commessi nel Mato Grosso do Sul (44, rispetto ai 31 del 2017) e in Amazonas (36). Mentre i casi di mortalità infantile (da 0 a 5 anni) sarebbero – ma i dati sono parziali – 591, di cui 219 in Amazonas, 76 in Roraima e 60 in Mato Grosso.

Se poi la guerra ai popoli indigeni del Brasile va avanti praticamente da sempre, l'attacco a cui oggi sono esposti sotto il governo Bolsonaro è sicuramente il più duro dal ritorno della democrazia. Un attacco iniziato addirittura in campagna elettorale, quando Bolsonaro aveva promesso che «nemmeno un centimetro quadrato in più» sarebbe andato ai popoli indigeni e che, ancora pochi giorni prima dell'insediamento, aveva auspicato addirittura una revisione della demarcazione "simbolo" dell'area indigena Raposa Serra do Sol, omologata nel 2005 dal presidente Lula dopo una più che trentennale lotta dei popoli originari contro politici, militari, latifondisti e cercatori d'oro, e ancora rimessa in discussione da una lunga serie di ricorsi, finché il Supremo Tribunale Federale non si era pronunciato, nel 2009 e ancora nel 2013, a favore della legittimità costituzionale del suo riconoscimento.  

Per i popoli originari e i loro numerosi alleati, è lo stesso presidente, insomma, ad avere le mani sporche di sangue, incoraggiando invasioni e violenze non solo con commenti razzisti nei confronti degli indigeni – definiti «preistorici» –, ma anche con le insistenti critiche ai processi di demarcazione, che, a suo avviso, sarebbero di intralcio allo sviluppo economico, e con l'aperta difesa dello sfruttamento minerario in aree indigene, benché espressamente proibito dalla Costituzione.  

Bolsonaro, il «peggior nemico» dei popoli indigeni secondo il Coiab, il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell'Amazzonia brasiliana, è accusato, insomma, di dare carta bianca agli invasori: «Quando in una regione c'è un conflitto», ha spiegato a nome del coordinamento Kleber Karipuna, garimpeiros, madeireiros e ruralisti «leggono il suo discorso come un via libera a intervenire in ogni modo possibile per sfruttare il territorio, anche a uccidere, se necessario», ispirati come sono dalla ben nota passione presidenziale per le armi. Esattamente ciò che sostiene il Cimi, secondo cui «i discorsi aggressivi e pieni di odio di Bolsonaro e di altri rappresentanti del suo governo servono da combustibile per le invasioni, per il saccheggio territoriale e per le azioni violente contro i popoli originari».

Preoccupa, in particolar modo, la tesi del "quadro temporale", secondo cui avrebbero diritto alla terra solo gli indigeni in grado di dimostrare la loro presenza nell'area rivendicata alla data di promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre del 1988, come cioè se tutto il processo di espulsioni violente e di massacri realizzato durante il regime militare non avesse mai avuto luogo. Una tesi sostenuta con forza dalla bancada ruralista (come viene chiamato, al Congresso, il gruppo di potere dei latifondisti e dei grandi imprenditori del settore alimentare e agrochimico) e subito fatta propria già dal governo di Michel Temer per mezzo di un Parere vincolante della Advocacia Geral da União, la cui conseguenza è stata non solo la completa paralisi del processo di demarcazione delle aree indigene, ma anche l'annullamento di quelle già realizzate.

È questa situazione, di giorno in giorno più drammatica, che si riflette nelle parole di Leila Rocha e nel suo grido di dolore, che abbiamo raccolto nell'intervista qui.  

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