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Crisi in Nicaragua, assedio alle chiese di Managua e Masaya

Crisi in Nicaragua, assedio alle chiese di Managua e Masaya

«Esprimiamo la nostra solidarietà all’arcivescovo di Managua, il card. José Augusto Brenes, al parroco di San Miguel, padre Edwing Román, e a tutti i fedeli che si trovano nella chiesa di Masaya, tra cui cinque mamme di detenuti politici in sciopero della fame» esortando «i responsabili di questo assedio a cambiare atteggiamento» ed «ascoltare le loro richieste». Così, in una nota stampa, La Conferenza episcopale nicaraguense ha preso posizione sui fatti, definiti “gravissimi” (AgenSir 19/11), che si stanno verificando nella parrocchia di San Miguel, a Masaya (30 km a sud-est della capitale), e che si sono consumati nella cattedrale di Managua. Un vero e proprio assedio su due fronti, di cui uno ancora aperto.

Lunedì 18 novembre, nove persone, tra cui sette donne, hanno iniziato uno sciopero della fame nella cattedrale di Managua per chiedere il rilascio di circa 139 oppositori del regime di Daniel Ortega, recentemente arrestati, nell'ambito della campagna “Natale senza prigionieri politici" annunciata dai 92 gruppi di opposizione riuniti sotto la sigla UNAB. La Cattedrale, si legge in un comunicato del 19 novembre dell’arcidiocesi di Managua, è stata profanata da parte di gruppi violenti legati al regime di Daniel Ortega, che hanno fatto irruzione, distrutto oggetti sacri e ferito un sacerdote, p. Rodolfo López, e una religiosa, suor Arelys Guzmán, rei di aver tentato di ostacolarne l’azione. Secondo il giornale online Religiòn Digital, si tratta del gruppo dei "cattolici rivoluzionari" guidati da Tomás Valdez, membro della comunità cristiana nicaraguense San Pablo Apóstol, che al grido di "farisei" e "ipocriti" ha guidato l’assedio alla Cattedrale, accusando i membri del clero di promuovere la violenza e la divisione dei nicaraguensi. I "cattolici rivoluzionari", avrebbe detto Valdez, non consentiranno all'opposizione, insieme ai sacerdoti, di fare ciò che hanno fatto con il popolo della Bolivia.

La Cattedrale è stata circondata da centinaia di agenti che hanno chiuso le strade di accesso, consentendo l'ingresso ai soli sostenitori di Ortega e ai media ufficiali per 12 ore, fino alla sera del 19 novembre, quando le donne “prigioniere” hanno potuto allontanarsi con automobili messe a disposizione dalla Croce Rossa. Poco dopo le forze governative, che avevano preso possesso della cattedrale, hanno consegnato la custodia della chiesa a mons. Andrea Piccioni, segretario della Nunziatura apostolica, e a padre Boanerges Carballo, delegato dell’arcivescovo di Managua, card. Leopoldo Brenes, accompagnato da un gruppo di sacerdoti.

Nella chiesa di San Miguel, diversamente, l’assedio è iniziato il 14 novembre e, mentre Adista va in stampa, è ancora in corso: subito dopo l’annuncio dello sciopero della fame delle madri dei detenuti, la parrocchia è stata circondata dalla polizia, con all’interno il parroco, padre Edwin Román, l’avvocatessa per i diritti umani, Yonarquis Martínez e due ex detenuti politici, che si trovavano là per esprimere solidarietà alle donne, scrive Avvenire (19/11). Da quel momento, il blocco è stato totale: le forze di polizia hanno tagliato le forniture di energia elettrica e acqua, non consentendo a nessuno di avvicinarsi all’edificio; alcune persone, che si erano recate nei pressi della chiesa per portare acqua e medicinali, sono state fermate e arrestate dalla polizia. Domenica 17 novembre, padre Edwin, diabetico e senza insulina, ha dovuto celebrare la Messa a “porte chiuse” ma, come scrive Avvenire (20/11), si dice determinato a resistere nonostante le sue condizioni di salute stiano drammaticamente peggiorando.

«È inaccettabile, sotto ogni aspetto, la detenzione di persone che hanno solo portato acqua a coloro che sono in sciopero della fame nella parrocchia di San Miguel de Masaya. Spero che la loro integrità personale sia rispettata e siano presto rilasciate. Un atto umanitario non è un crimine!» ha scritto su twitter il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio José Baez, dalla sua lontana postazione di Roma. Mentre, al di qua dell’Atlantico, un’altra voce di rilievo fa eco alle grida di proteste e sdegno che si muovono dal mondo cattolico: «chiediamo al signor Daniel Ortega di ordinare immediatamente la cessazione di attacchi, aggressioni e violazioni dei diritti umani e civili verso i membri dell’opposizione», si legge in una nota congiunta della Conferenza dei provinciali gesuiti dell’America Latina e dei Caraibi (Cpal), della Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù e dell’Associazione delle università affidate alla Compagnia di Gesù in America Latina (Ausjal). I religiosi si appellano «alla Comunità internazionale, organizzazioni religiose e umanitarie, organizzazioni internazionali, governi democratici del mondo e, in particolare in Europa e in America» affinchè esercitino «i migliori uffici per garantire il ritorno del Nicaragua nel sistema democratico».

Il card. Brenes, in un incontro con i giornalisti dopo la messa di domenica 17 novembre, di cui ha dato notizia Fides (18/11), ha invece voluto mandare un messaggio di incoraggiamento ai fedeli, rassicurandoli sulle iniziative che Papa Francesco starebbe intraprendendo e che, evidentemente, hanno già sortito l’effetto di liberare la Cattedrale di Managua. Il Papa è molto ben informato sulla situazione, ha detto il cardinale, e oltre a pregare per la pace in Nicaragua, interviene in diversi modi e momenti, sia pure con estrema discrezione, per facilitare il ritorno alla calma e al dialogo. E poi, in risposta alle molteplici recriminazioni dei filo governativi nei confronti dei religiosi: «Noi Vescovi non siamo nemici del governo, […] noi non siamo politici, non ci interessa prendere il potere, siamo Pastori di tutto il popolo del Nicaragua» ha detto.

Nel frattempo, infatti, migliaia di persone sfilavano per le strade di Managua a sostegno di Evo Morales, vittima, pare, di un colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti e dall’internazionale capitalista, evidentemente preoccupati che il Nicaragua possa condividere lo stesso destino. Striscioni in favore di Ortega hanno colorato le strade del centro cittadino, invocando la “resistencia” alle ingerenze straniere ma anche ai “complotti” dei vescovi cattolici che, come più volte sostenuto dallo stesso presidente, hanno fomentato e sostenuto le proteste antigovernative, contribuendo alla destabilizzazione del Paese.

Paese che resta sotto la stretta osservazione degli attori internazionali, oltre a quella di Donald Trump, che ha salutato con soddisfazione la rinuncia di Morales, scagliandosi nuovamente contro i «governi illegittimi» di Venezuela e Nicaragua (Reuters, 11/11). «Il governo (del Nicaragua, ndr) deve porre fine alla repressione persistente di dissensi e detenzioni arbitrarie e astenersi dal criminalizzare e attaccare i difensori dei diritti umani, gli oppositori politici e qualsiasi altra voce dissenziente», ha detto Rupert Colville, portavoce dell'Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (Telemetro 19/11). Uscita assai sgradita ai filogovernativi, che contestano una evidente «sproporzionalità della denuncia pubblica»: a fronte dei «blandi avvertimenti» al «regime fascio-liberista del Cile e quello golpista della Bolivia», artefici di «feroci e brutali repressioni contro i propri popoli in rivolta», si stupiscono di come le Nazioni Unite si preoccupino di attaccare «il Nicaragua che fronteggia guarimbas violente sullo stile di quelle venezuelane» (L’antidiplomatico 20/11), tentando in tutti i modi di indebolire sul piano internazionale l’unico governo legittimo del Paese.

*Immagine tratta da Wikimedia Commons, di mejaperalta. Foto originale e licenza

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