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Covid-19 in Sud Sudan, tra povertà e fragilità istituzionale. Un servizio di

Covid-19 in Sud Sudan, tra povertà e fragilità istituzionale. Un servizio di "Nigrizia"

Uno degli ultimi Stati africani a riconoscere pubblicamente la presenza del Covid-19, il Sud Sudan vive da metà marzo il suo lockdown, con scuole e attività ferme, con i divieti di assembramento e di manifestazione, e dal 25 marzo con l’imposizione del coprifuoco. I confini, chiusi forse troppo tardi, sono stati “bucati”, principalmente dal personale diplomatico e delle agenzie umanitarie, e ormai il virus dilaga all’interno del Paese.

«Il primo focolaio», ricostruisce Nigrizia in un approfondito servizio con testimonianze dal Sud Sudan, «si è sviluppato tra gli operatori umanitari stranieri. Si può supporre che, per le modalità stesse del loro lavoro, abbiano contribuito a diffondere il virus presso i diversi gruppi sociali, compreso quello dei leader politici» del giovanissimo governo di unità nazionale, tra i quali tre vicepresidenti (contagiato anche Riek Machar), nove membri della speciale task force promossa per contrastare il contagio e alcuni ministri.

In Sud Sudan, spiega Nigrizia, le misure di contenimento sono state adottate dal governo sulla scia delle notizie provenienti da oltreconfine, prima dell’identificazione ufficiale del primo contagio all’inizio di aprile. Il governo è «cosciente della fragilità del sistema sanitario, certamente non in grado di fronteggiare una situazione di emergenza come quella che potrebbe determinarsi se il Covid-19 si diffondesse e si manifestasse nelle sue forme più gravi. Lo ha affermato lo stesso presidente, parlando senza mascherina mentre smentiva di essere malato ma raccomandando ai sud sudanesi di fare molta attenzione perché “se il contagio si diffondesse, come paese ci troveremmo in una condizione veramente deplorevole, non saremmo in grado di contrastarlo”».

L’analisi della pandemia in Sud Sudan è arricchita e approfondita, nell’articolo, da testimonianze audio di missionari e operatori sul campo, come il comboniano p. Mario Pellegrino, l’ex direttore di Nigrizia e ora cooperante Gino Barsella, il medico del Cuamm Fabrizio Giovanni Vaccaro.

«La situazione è considerata decisamente preoccupante da molte organizzazioni della società civile sud sudanese, soprattutto dopo il repentino aumento dei positivi verificatosi nelle ultime settimane», ribadisce il periodico comboniano. Data la povertà diffusa soprattutto nelle campagne, la fragilità complessiva del sistema sanitario e delle istituzioni e l’assenza di una capillare campagna informativa, «il Paese potrebbe essere presto quello con la maggior diffusione del virus nella regione».

L’acqua scarseggia e spesso si paga cara, e risulta difficile imporre il lavaggio continuo delle mani, le mascherine sono poche e si fermano nelle città mentre nei villaggi, solo ora, gruppi di donne si stanno ingegnando per realizzarle e diffonderle. Inoltre, «considerate le difficoltà emerse nell’adesione della popolazione alle direttive del governo, ci si comincia a chiedere se l’attuale risposta all’epidemia, imponendo le misure standard adottate in gran parte del mondo, sia adeguata ad un paese come il Sud Sudan, che in buona parte vive ancora in modo tradizionale e arcaico». «In un paper del centro di ricerca regionale Rift Valley Institute, Responding to Covid-19 in South Sudan. Making local knowledge count si dice che vanno assolutamente valorizzati i saperi locali e attivati i leader comunitari depositari di tali saperi», conclude Nigrizia. «Si afferma che ogni comunità ha i suoi modi per contenere le epidemie, che piuttosto frequentemente hanno colpito l’uomo e gli animali anche nel passato. Su quelli va fatta leva per contenere anche l’attuale pandemia, altrimenti si rischia che la popolazione non capisca e dunque non si difenda adeguatamente».

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