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Autorità e libertà, all’eccesso: generazione monastica e il caso Bose

Autorità e libertà, all’eccesso: generazione monastica e il caso Bose

Sulla vicenda di Bose, dell'allontanamento dell'ex priore del monastero Enzo Bianchi, e più in generale sullo stretto rapporto tra autorità e libertà nella vita monastica occidentale, pubblichiamo un intervento del liturgista Andrea Grillo, pubblicato sul blog dell'autore il 7 giugno scorso.

L'intervento originale è consultabile a questo link

 

Non appartengo alla “generazione Bose”. Appartengo, piuttosto, alla “generazione Camaldoli” o alla “generazione Santa Giustina”. Ciò non dipende semplicemente da motivi di età, ma da quelle contingenze e da quelle circostanze che sempre determinano l’”essere generati”, fenomeno corporeo che non è mai soltanto fatto elettivo o opzionale, ma sempre anche occasione propizia e contingenza indebita.

Resta comunque interessante che una forma di identificazione delle diverse generazioni di cristiani cattolici accada e si dica in relazione a “luoghi monastici”.

Io non sono mai stato a Bose. Conosco solo alcuni monaci, e le loro opere, che apprezzo e stimo. Per questo forse sono affettivamente meno implicato nelle dolorose vicende che gli ultimi giorni hanno attraversato il corpo personale ed ecclesiale di tanti tra noi.

Proprio perciò vorrei fermarmi su alcuni aspetti di fondo, che mi paiono piuttosto dimenticati in ciò che viene detto sulla vicenda recente: ossia la eterogeneità originaria tra “chiesa apostolica” e “tradizione monastica”. Questo a me pare il punto su cui dovremmo riflettere, anche per recuperare quella serenità che, sine ira ac studio, può permetterci di capire davvero che cosa sta accadendo. Provo a fare alcune considerazioni preliminari e del tutto provvisorie:

a) la forma elementare della vita monastica

Il monachesimo è, ecclesialmente, forma di vita elementare: che porta al massimo della evidenza due aspetti opposti, polari, della fede cristiana: la vocazione alla singolarità, il lavoro su di sé, e la struttura comune, la forza aggregante e accorpante di linguaggi e gesti condivisi. Potremmo dire che nel monachesimo, almeno per come lo viviamo dopo Napoleone, cioè dopo che Napoleone aveva cercato di cancellarne la presenza in Europa, troviamo due elementi in tensione con il mondo moderno: una pre-moderna potenza di autorità e una post-moderna aspirazione alla iperlibertà.

b) la regola e la libertà

In effetti non è difficile scorgere come una mediazione fondamentale, nel monachesimo, è costituita dalla “regola”. Essa è, allo stesso tempo, codice di comportamento, orientamento morale, principio ascetico, spazio mistico, regolamento giuridico. Viene da un mondo che non c’è più e va verso un mondo che non c’è ancora. In ragione di un dono, relativizza diritti e doveri. E crea spazi impensabili di “autorità totale sull’altro” e di “libertà radicale coram Deo”. Descrivendo una communitas vitae, lo fa nel dettaglio di una “communitas victus, orationis, cantus, laboris et dormitionis”.

c) conflitti e collaborazioni

Questo mondo, che è allo stesso tempo radicalmente chiuso e radicalmente aperto, che si iperstabilizza per non dipendere da nessun luogo, che si ipertemporalizza per attraversare tutti i tempi, è stato, da sempre, in una certa tensione con la “medietas” che la chiesa diocesana e parrocchiale, curiale e vaticana, ha dovuto inevitabilmente elaborare. La “successione apostolica” e la “vocazione monastica” non si intrecciano spontaneamente. La pertinenza al Vangelo “fondata istituzionalmente” e “riconosciuta spiritualmente” sono vie diverse, non necessariamente antitetiche, come spesso vorremmo, ma neppure ovviamente armoniche. E la storia è piena del loro conflitto.

d) una lunga storia che non è finita

La vita battesimale prende forme sorprendenti. E lo ha fatto da sempre. Noi tendiamo a semplificare troppo questa storia, sulla base degli sviluppi più recenti. Ma se ci guardiamo intorno scopriamo le infinite variazioni di una “esperienza di autorità” che si lega alla fede in modi non ecclesialmente univoci. Se, per fare solo alcuni esempi, si studia la storia delle città di Padova, di Bologna, di Bari o di Conversano, si scoprono abissi di conflitti e di collaborazioni, in cui tradizioni diocesane e tradizioni monastiche/religiose si contendono il campo: l’Abate di S. Giustina aveva più parrocchie del Vescovo di Padova; la basilica di S. Petronio era (ed è ancora) patrimonio comunale e non episcopale; sulla Chiesa di S. Nicola non il Vescovo, ma l’imperatore, poi il re e poi lo Stato italiano aveva autorità, per mediazione di una presenza monastica; infine la Badessa del monastero di Conversano aveva diritto di veto sulla elezione del Vescovo. Sono tutti esempi di quella “pluralità di fori” che la modernità ha semplificato, ma che l’esperienza ecclesiale non può mai del tutto superare, senza venir meno a se stessa.

e) il caso della “penitenza”

In modo ancora più netto, e ancor più dimenticato, si staglia la differenza tra monachesimo e successione apostolica sul piano della penitenza. Ci siamo convinti, lungo i secoli, che si possa affrontare la questione del peccato solo con il “potere delle chiavi”. Ma la tradizione ci dice, contemporaneamente, un’altra verità. Che nel rapporto con il peccato la autorità non è semplicemente quella “formale” garantita dalla ordinazione, ma quella “sostanziale” assicurata dalla vita santa. L’uomo santo, l’uomo che ha sperimentato su di sé la potenza della grazia, l’uomo che ha scoperto l’abisso del proprio peccato, è l’autorità ecclesiale che rende presente Cristo misericordioso. La riduzione “secolare” di questa tradizione ad “atto giuridico” è uno dei fenomeni più gravidi di conseguenze nel rapporto con il monachesimo e nella autosufficienza della logica istituzionale, almeno in occidente.

f) il ruolo di una “regolata profezia”

I monasteri sono luoghi paradossali: dove è maggiorata tanto la autorità quanto la libertà e dove, pertanto, gli equilibri sono delicatissimi, sottili come un capello e alti come montagne. Per questo il surplus di autorità e di libertà, che il monachesimo deve sperimentare e comunicare, esige forme di autocontrollo su cui la “regola” è accuratissima garanzia. La cura della interiorità e lo stile della “forma esteriore”, che sono sempre in tensione, non possono entrare in contraddizione. Quando ciò accade non è raro che il rimedio, inevitabilmente, possa venire anche dall’esterno. Una regolata profezia, con la sua differenza, annuncia una Chiesa possibile e la rende simbolicamente reale. Per questo ci sono oggi “generazioni” di cristiani cattolici che hanno tratto da “luoghi monastici” la loro identità più intima e forse anche quella più esteriore.

Il monachesimo correla in radice vangelo e vita. Lo fa a rischio di una forma di vita. La sua vocazione è anche il suo limite: come accade nelle famiglie domestiche, anche le famiglie monastiche non possono gestire le crisi solo “diplomaticamente”. Questa è la differenza rispetto alla Chiesa non monastica: quanto più è decisiva una concreta forma di vita, tanto minore è lo spazio delle formalità e dei formalismi. Per questo, quanto maggiore è lo slancio profetico, tanto minore è lo spazio della mediazione. Da sempre è così. Ma è proprio questa differenza precaria e ferita ciò di cui abbiamo bisogno tutti.

Nei passaggi più difficili può valere come orientamento di fondo una indicazione della Piccola Regola della Annunziata:

“…in ogni ora, ambiente e circostanza, con la mansuetudine, la mortificazione della curiosità, la riduzione abituale delle cose che verrebbe spontaneo dire, la rinuncia a parlare di sé, la preferenza progressiva per le parole e i concetti più semplici, più sereni e più pacificanti.”

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