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"Rete permanente dei Beni Comuni". Riflessioni e pratiche per la custodia del territorio

Messina ha battezzato, nei giorni 4 e 5 ottobre, la prima Assemblea nazionale della “Rete permanente dei Beni Comuni”, all’interno della quale le 19 organizzazioni partecipanti hanno firmato il Manifesto per la “Costituzione di una rete permanente per i beni comuni, la conversione ecologica e le generazioni future”. Singolare è che si cimentino insieme associazioni provenienti da ambiti di riferimento e di competenze diversi. Sono  Alleanza della Generatività, AlterLab, Associazione CommON, Asvis, Comitato Rodotà, Confcooperative-Federsolidarietà, Favara Cultural Park, Fondazione Finanza Etica, Fondazione Horcynus ORCA, Fondazione Riusiamo l’Italia, Forum delle Associazioni Familiari, Forum del Terzo Settore, L’incontro, L’Italia che cambia, On Srl Impresa Sociale, Vita, R&P Legal, Slow Food Italia, Social Innovators Community e Fondazione Symbola. I firmatari sollecitano però nuove adesioni, dall'Italia, certo, ma anche da altri Paesi europei, giacché il concetto di bene comune non ha confini.

«Queste organizzazioni – si legge in un comunicato – ritengono che su poche e selezionate questioni fondamentali per il Paese sia necessario "andare oltre" le proprie posizioni di parte». «L’obiettivo – precisa il Manifesto – è costruire nuove forme economiche e insieme un nuovo sistema sociale in cui la responsabilità delle comunità ritorni ad essere centrale nella vita dei territori e che sia in grado di attrarre competenze e risorse finanziarie dal pubblico, dal privato e dalla collettività. E questo richiede un nuovo protagonismo dei cittadini come singoli, ma soprattutto come comunità».

Intervistato da Vatican News (7/10), Giovanni Dotti, amministratore delegato di On Srl Impresa sociale, una delle 19 realtà firmatarie, riferisce del percorso compiuto dall’iniziativa: «Si è arrivati alla Rete – dice – attraverso diverse strade, riflessioni culturali e pratiche concrete che in questi anni sono state agite sul territorio e, devo dire, grazie a diverse persone che hanno rinunciato al proprio protagonismo singolo per provare a partorire qualcosa che vada oltre ciò che era stato già fatto. La questione dei beni comuni è abbastanza semplice, ma molto complicata in questo tempo, perché è il tentativo di dire che ci sono cose, relazioni, valori, diritti e doveri che non possono essere né lasciati alla dimensione pubblica, nè consumati nella dimensione privata, speculativa». Si tratta, cioè di “beni comuni”,  ovvero di «quelle cose materiali e immateriali, quelle forme relazionali che rendono possibili i diritti e i doveri nella dignità umana e quindi dall'acqua al sistema di welfare, dalle scuole ai trasporti, dai beni culturali ai beni ambientali, cioè tutte quelle situazioni che non possono essere né possedute in termini esclusivi da una persona o da un'organizzazione singola privata, n'è possono essere alienate in forme burocratico-tecniche come quella dello Stato».

È una «proposta di natura politica», «nel senso nobile del termine», chiosa, perché «è il tentativo di innervare la democrazia rappresentativa con una democrazia partecipativa attraverso dei luoghi e dei simboli concreti sul territorio»: si pensi «a una casa abbandonata o una chiesa abbandonata o a un campo incolto», o «a un paesaggio o alla tutela della salute su un territorio, il Covid ci ha insegnato tante cose da questo punto di vista». Ma è «una proposta anche economica», perché «questi beni sono di fatto mercati interni, cioè sono la possibilità di portare valore a ciò che invece viene tendenzialmente abbandonato, oppure drenato da dimensioni speculative».

*Foto di RD LH tratta da Pixabay , immagine originale e licenza

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