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Una politica per l’Antropocene

Una politica per l’Antropocene

Tratto da: Adista Documenti n° 43 del 05/12/2020

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C’è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi, come ci dimostra l’archeologa Marija Gimbutas) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi. Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, élite dominanti che sono riusciti a plasmare e organizzare secondo le loro regole le intere relazioni sociali. Come non ritenere folle ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, a conclusione di un ciclo di civilizzazione lungo addirittura un’era geologica che molti scienziati vorrebbero definire con il nome Antropocene? (Vedi per tutti, di Jan Zalasiewicz, The Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press, 2019).

Il sistema energetico fossile modifica la composizione chimica dell’atmosfera, genera cambiamenti climatici catastrofici, acidifica gli oceani, uccide le barriere coralline; il sistema alimentare carnivoro distrugge le foreste primarie, desertifica i mari, elimina la biodiversità, innesca pandemie; il sistema di produzione industriale di beni di largo consumo programmato sull’obsolescenza genera spreco di materie e di risorse naturali non rinnovabili; il modello di insediamento urbano ammassa in megalopoli invivibili metà della popolazione mondiale; il paradigma tecno-scientifico è mirato alla ricerca del superamento dei limiti naturali (i nove Planetary Boundaries individuati dal gruppo di ecologi di Johan Rockström) e alla progressiva artificializzazione dei cicli vitali (bioingegneria alla Frankenstein); il sistema dell’informazione manipola e sorveglia; l’assetto geopolitico è basato sulla potenza imperiale e la violenza militare.

Alessio Giacometti, commentando il libro di Simon Lewis e Mark Maslin, Il pianeta umano, Einaudi, 2019, scrive: «Negli ultimi secoli abbiamo introdotto in natura più di duecento minerali prima inesistenti, disperso particelle carboniose sferoidi e polimeri plastici dalla cima dell’Everest alla Fossa delle Marianne, rivestito la superficie terrestre con una tecnosfera da 30 trilioni di tonnellate di cemento e metallo. Abbiamo condotto all’estinzione l’83% delle specie animali viventi e dimezzato la popolazione di alberi. Abbiamo anche riversato in aria oltre duemila milioni di tonnellate di anidride carbonica, il cui livello di concentrazione in atmosfera è il più alto degli ultimi tre milioni di anni.

Se dovessimo estinguerci domani, i nostri prodotti materiali sparirebbero in meno di diecimila anni, ma le alterazioni biogeochimiche dei cicli del carbonio, del fosforo e dell’azoto rimarrebbero per milioni di anni, dopo di noi» (A. Giacometti, Come abbiamo creato l’Antropocene).

Ovviamente, non c’è nulla di geneticamente predeterminato e di inevitabile nella suicida «devastazione dello spazio vitale» (Konrad Lorenz, 1972) intrapresa dall’homo – autodefinitosi – sapiens. Forse, come mi suggerisce il mio amico psicoanalista Alvise Marin, «per trovare spiegazioni bisognerebbe indagare nel mare profondo delle nostre pulsioni e motivazioni inconsce, che sono strutturalmente un impasto di eros e thanatos». Comunque è certo che altri itinerari e altri esiti sarebbero stati possibili in passato e potrebbero esserlo ancora in futuro. Ed è questo il preciso campo dell’intervento politico, ovvero delle scelte collettive. La politica, invece, “muore” – come affermano da tempo molti politologi (penso al Marco Revelli di La politica perduta, Einaudi 2003) – se non riesce a confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza umana, con la dimensione culturale, valoriale ed eco-etica della “battaglia delle idee” che guida le trasformazioni sociali.

In assenza di ciò, è inevitabile che a evaporare per prima sia la politica di sinistra, di coloro, cioè, che, pur dichiarandosi non contenti dello stato delle cose presenti, rimangono inanimi nell’indicare alternative di sistema, ovvero colgono solo elementi parziali e separati delle conseguenze delle politiche di potenza e di oppressione messe in atto dai gruppi di potere dominanti. Tipico in molta parte della cultura del movimento operaio è porre l’accento esclusivamente sulle disparità e sulle ingiustizie patite dai ceti popolari nell’accesso e nella distribuzione della ricchezza.

Ma in tal modo rimangono in ombra i sistemi di formazione e di valorizzazione economica delle attività umane e dei “servizi ecologici” forniti gratuitamente dalla natura. Così come noti sono i limiti dell’ambientalismo superficiale – facilmente sussunto dal mercato – che non coglie le logiche distruttive intrinseche dell’accumulazione capitalista. Più pericolose di tutte sono le derive identitarie di qualsiasi tipo (sangue, suolo e patrie), pur giustificate dai centralismi nazionalisti e dalla globalizzazione omologante.

Ecco allora che la cultura politica di sinistra dovrebbe saper individuare e riportare a unità la lotta a ogni forma di dominio e di oppressione, facendo perno su un’idea di individuo completo, consapevole e responsabile dei diritti propri, degli altri e di ogni forma di vita. Per dirla a slogan: per fare la rivoluzione non basta avere la coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Secondo il principio (ecologico) della interconnessione, interdipendenza e coevoluzione di tutti i fenomeni naturali (ogni specie è parte del tutto: «Homo sapiens non è che una specie fra molte, il prodotto di una interazione», Richard Lekey e Roger Lewin, La sesta estinzione. La vita sulla Terra e il futuro del genere umano, Bollati Boringhieri, 1998) e sociali, della inseparabilità della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale.

Ragionare alla scala dei cambiamenti geologici sarebbe utile per uscire dal miope cinismo economicista oggi prevalente (quello che afferma: “nel lungo periodo saremo tutti morti”, affermazione ancora più “vera” se consideriamo che la durata media di una specie animale è stata fino ad ora di soli quattro milioni di anni) per valorizzare invece le capacità creative di ogni persona e dare un senso anche spirituale allo stare al mondo e alla cooperazione sociale. La Commissione internazionale di stratigrafia della Unione internazionale di scienze geologiche è ancora incerta su quando fissare l’inizio dell’Antropocene: qual è il point-break, il momento in cui l’homo sapiens comincia ad agire come forza geologica e a lasciare tracce rilevanti e indelebili sul sistema Terra? Con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, 10.000 anni fa? Con l’affermazione del pensiero occidentale antropo e andro-centrico della tradizione ebraica e della filosofia greca ellenistica? Cinquecento anni fa con la prima globalizzazione, la colonizzazione europea delle Americhe e la nascita del capitalismo (come suggerisce Jason Moore, Antropocene o Capitalocene? Ombrecorte, 2017)? Con la rivoluzione industriale nell’Ottocento? Il 16 luglio 1945 con la detonazione del primo ordigno nucleare e il fall-out di radio nuclei? Nel maggio di quest’anno, con il picco record di 417 parti per milione di anidride carbonica (come 450.000 anni fa)? Il prossimo fine secolo con il raggiungimento del tetto di esseri umani (10 e più miliardi) e il contemporaneo limite più basso di biodiversità delle specie viventi presenti (la “sesta estinzione di massa”, la quinta interessò i dinosauri, 65 milioni di anni fa)?

Interrogativi con cui sarebbe interessante che la politica riuscisse a confrontarsi per non rimanere insignificante e per poter misurare le coerenze anche delle piccole e quotidiane scelte. Ad esempio, come spendere i denari del Recovery Fund, se vogliamo davvero che servano a risanare il pianeta e a sostenere la vita delle “Next generations”. E non semplicemente a riattivare un ciclo economico “espansivo” lucrativo per i detentori dei titoli di credito del debito garantito dalle Banche centrali.

Il presente è importante (specie per chi è costretto a lottare con la precarietà della sussistenza), ma lo si può affrontare con qualche speranza di cambiamento solo se si ha la consapevolezza che esso è il punto di incrocio tra l’eredità del passato e le opportunità del futuro. In altre parole, una politica (di sinistra) che non sappia individuare le cause profonde della crisi ecosistemica, strutturale e di civiltà cui siamo giunti e che non sappia prospettare un’alternativa all’altezza della situazione non sarà mai credibile, non riuscirà mai a convincere le menti e a scaldare i cuori delle persone.

“Il” nuovo soggetto sociale protagonista della auspicabile grande trasformazione necessaria nascerà quando maturerà un immaginario comune – una cosmovisione – liberato da tutti i miti di potenza del denaro, della tecnologia, delle armi, della violenza. Per dirla in positivo, quando riusciremo a maturare un atteggiamento di cura della vita di noi stessi, degli altri, della natura.   

* MM Antropos Man with son, foto [ritagliata del 2017] di Jan Sapák tratta da commons.wikimedia.org, licenza Creative Commons

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