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Il miracolo della perseveranza. Un anno di preghiere online

Il miracolo della perseveranza. Un anno di preghiere online

Nella Via Lattea di Luis Buñuel, a un certo punto, si ascolta la storia di un miracolo. Parla di una suora carmelitana che era fuggita dal convento per amore di un giovane di cui si era innamorata. Era l’economa e quindi aveva in mano la chiave della cassaforte che, prima di scappare, affidò con una preghiera alla statua della Vergine Maria che stava in chiesa. Tanti anni dopo questa donna decise di tornare in convento e di accettare le eventuali punizioni che le consorelle le avrebbero inflitto per il suo tradimento, ma con sua grande meraviglia si rese conto che nessuna delle altre suore sembrava aver notato la sua assenza che era durata anni. Anche la chiave della cassaforte era rimasta nello stesso posto in cui l’aveva lasciata quando era fuggita. La Madonna a cui lei l’aveva affidata aveva compiuto un miracolo e durante la sua lunga assenza aveva assunto le sue sembianze e aveva portato avanti al suo posto tutti gli incarichi che aveva.

Ho voluto ricordare questo episodio di uno dei film più discussi del secolo scorso perché, secondo me, rende molto bene il senso di quello che è successo nel corso dell’ultimo anno, nella stanza di Google Meet dove alcuni di noi hanno continuato tutti i giorni a recitare le lodi mattutine e la preghiera della sera.

L’idea era nata il 12 marzo dell’anno scorso, quando nella chat WhatsApp dei Giovani del Guado, qualcuno aveva espresso le sue preoccupazioni per la “solitudine forzata” a cui sarebbe andato incontro nelle settimane successive per i provvedimenti con cui il governo aveva deciso di contenere l’epidemia di Covid-19.

L’entusiasmo della partenza è stato grande e le persone coinvolte sono diventate, con il passare del tempo, sempre di più: lo schermo si riempiva di volti più o meno conosciuti che, a un certo punto venivano sostituite da una pagina in cui si poteva leggere il testo della liturgia delle ore seguendo l’ordine di un elenco che qualche volontario preparava sul momento. Si iniziava quindi la recita: un vesetto per ciascuno stando attenti a intervenire quando era il proprio turno.

Poi, chi voleva, si fermava per fare due chiacchiere e, soprattutto, per accogliere chi arrivava la prima volta.

Da un’evoluzione di questa idea è nata la grande celebrazione dei vespri internazionali organizzati per l’Italia dai Giovani cristiani LGBT+ che c’è stata il giorno di Pasqua dell’anno scorso: tantissime persone da tutto il mondo che si mettevano in ascolto della voce di una trentina di volontari che, alternandosi in inglese, in spagnolo, in maltese e in italiano, recitavano la liturgia delle ore prevista per quel giorno di festa.

Gli appuntamenti più frequentati erano senz’altro quelli serali: dopo qualche settimana era evidente che i testi previsti dalla liturgia erano troppo brevi per poter coinvolgere tutti e così è nata una piccola redazione che aveva il compito di aggiungere altri testi e di trasformare la tradizionale compieta in quella che, in maniera scherzosa, viene ormai chiamata la “compietona”.

Poi è arrivata l’estate: le restrizioni legate al Covid-19 si sono allentate e la partecipazione alla preghiera si è notevolmente ridotta. Ci sono state sere in cui eravamo poco più di dieci e ci sono state mattine in cui non riuscivamo ad essere nemmeno in dieci.

Ed è stato a questo punto che è entrata in gioco la decisione che mi ha fatto pensare all’apologo ricordato da Bonuel: con i pochi altri che, durante l’estate, continuavano a ritrovarsi tutti i giorni per recitare insieme la liturgia delle ore abbiamo infatti deciso di andare avanti comunque e di non preoccuparci se eravamo tanti o pochi. Non solo perché quando Gesù dice ci essere presente tra coloro che si trovano nel suo nome non fissa un numero inferiore (in meno di due, infatti, non ci si può certo trovare), ma anche perché ci sembrava importante tenere aperta la stanza della preghiera per chi, magari, un giorno, avrebbe deciso di tornarci

E così è stato. A partire da settembre le presenze molte persone si sono aggiunte, qualcuno dei vecchi è tornato con regolarità e la comunità è cresciuta di nuovo ed è diventata numrosissima quando in dicembre abbiamo deciso di cantare il Te Deum in occasione del quarantesimo compleanno del Guado.

E la cosa che ci soprendeva sempre di più era che i nuovi arrivati non provenivano soltanto dai nostri gruppi, ma si accostavano ai nostri momenti di preghiera partendo da storie diversissime: ci sono stati conoscenti di alcuni dei partecipanti storici; ci sono stati degli sconosciuti che erano venuti a dare un’occhiata e che hanno deciso poi di farmarsi; ci sono stati sacerdoti che volevano vedere che clima si respirava nei nostri incontri prima di consigliarli a qualche omosessuale che si era rivolto a loro; ci sono stati parroci; ci sono stati vescovio e c’è stato addirittura un cardinale.

Quelli che ci hanno inviato la loro risonanza hanno tutti notato il clima accogliente in cui ci si preoccupa di aiutare le persone a uscire dall’anonimato. Ed è stato leggendo certi commenti che ci è venuta l’idea di chiamare questa esperienza di preghiera online «La casa di Cornelio», dal nome del centurione romano nella cui casa Pietro impara che «Dio non fa preferenze di persone» e che chiama anche chi in apparenza gli è lontano a pregaro e a lodarlo (At 10,34).

Quando poi abbiamo scoperto che alcuni gruppi che con l’omosessualità non hanno niente a che fare hanno deciso di vivere insieme la preghiera nello stesso modo in cui l’hanno vista vivere da noi, ci siamo accorti che il nome era davvero profetico.

Chissà che questa esperienza di preghiera, nata in sordina per aiutare un gruppo di ragazzi a sentirsi meno soli e custodita con perseveranza e tenacia da qualcuno che ha iniziato a viverla come un compito che Dio gli aveva affidato, non diventi una delle cose che la chiesa riuscirà a imparare nel corso di questa pandemia, da chi è considerato ai margini.

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