
Dalla religione metafisica alla fede cristiana
Tratto da: Adista Documenti n° 15 del 24/04/2021
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Il n.10 di Adista Segni Nuovi ha pubblicato un interessante intervento di Ermanno Arrigoni (laureato in filosofia all’Università Cattolica di Milano, in teologia alla Pontificia Università Lateranense di Roma e dottore in Teologia alla facoltà di Teologia dell’Italia settentrionale). In relazione a un servizio su Adista (n.6/21) di Claudia Fanti (“L’essenza della vita dopo la rinuncia all’Essere Supremo”) Arrigoni ricorda di aver già dedicato un suo testo del 2019 a contestare radicalmente le posizioni dei teologi del post-teismo (Spong, Lenaers, Vigil, Villamayor…) e prescrive ultimativamente, a chi voglia dirsi cristiano, di aderire letteralmente alle procla mazioni della resurrezione contenute negli Atti degli Apostoli e nei testi paolini.
Soprattutto, Arrigoni afferma l’obbligo per i veri credenti di aderire alla testimonianza di Paolo che nella prima lettera ai Corinti certifica che nell’anno 56 erano ancora vivi molti di quelli che affermavano di aver fatto esperienza diretta dell’incontro fisico con Gesù il risorto. Un lungo excursus sulla veridicità delle proclamazioni della resurrezione corporea (dunque carnale) di Gesù conduce Arrigoni ad affermare, come gli è assolutamente consentito, che preferisce credere alla testimonianza personale di Paolo piuttosto che a ciò che scrive il vescovo post-teista Spong duemila anni dopo. E subito precisa: «Il problema è che questi teologi negano il soprannaturale, ma senza il soprannaturale il cristianesimo è finito».
Mi permetto di avanzare una sommessa obiezione a quest’ultima severissima affermazione di Arrigoni, precisando che io mi sono laureato in filosofia non alla Cattolica ma alla laica Statale di Milano e che per mezzo secolo ho dedicato gran parte delle mie indagini all’esegesi biblica e alle studio teologico come ricercatore “off limits”, anzi “borderline”, con estremo rigore metodologico ma senza mai aver superato esami o discusso tesi di laurea assoggettandomi alle autorità istituzionali ecclesiastiche cattoliche.
Non è qui il momento né il luogo per riaprire il dibattito sulle narrazioni della Resurrezione, anche se mi piace ricordare che nello stessa lettera ai Corinti, parlando della futura resurrezione dei credenti (quelli che nel 56 stanno ancora attendendo il ritondo trionfane del Risorto e cominciano a preoccuparsi del proprio destino, obbligando Paolo e le prime comunità a superare questa frustrazione trasferendo la Parousìa in un orizzonte temporale molto più dilazionato), lo stesso apostolo dei Gentili afferma che «così è anche la Resurrezione dei nostri corpi: si semina un corpo corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale». Mi sembra che dobbiamo perciò accordarci su che cosa significhi quella che Arrigoni definisce la resurrezione corporale di Gesù: se essa non può essere quella di un corpo “carnale, debole, animale”, che cosa significa – e che cosa può significare per noi oggi – l’espressione “corpo spirituale?”
Arrigoni, nella sua intransigente – ma assolutamente legittima – requisitoria contro Spong e gli altri imputa loro di non credere non solo al Dio essere supremo della filosofia teistica ma neanche alla resurrezione del “corpo spirituale”: espressione in sé, ammettiamolo, abbastanza sconcertante e sicuramente disorientante, visto che né io né Arrigoni abbiamo mai fatto esperienza di una corporeità spirituale; semmai – finora e qui, sulla terra, per usare i suoi paradigmi – possiamo al massimo aver fatto esperienza di una corporeità “spiritualizzata”, cioè pervasa di valori spirituali (la fede, la speranza, la carità, ma anche il coraggio, la passione per la giustizia, ecc.). Val dunque la pena di ricordare che i teologi del post-teismo non negano assolutamente il piano della trascendenza: soltanto che non la collocano come Arrigoni su un piano fisico e temporale che, per capirci, definirei semplicemente mitologico, cioè appartenente a una cosmologia e a un’antropologia ormai archiviati del pensiero moderno e contemporaneo. La cosmologia, appunto, del “soprannaturale”.
Ma il punto cruciale è proprio questo: è proprio vero che «senza il soprannaturale il cristianesimo è finito» e Gesù si riduce solo a «un maestro di etica e nulla più»? Io non lo credo affatto per un motivo molto semplice: il “soprannaturale” è la traduzione latina della “metafisica” greca, inventata sostanzialmente da Platone nel V secolo a.C. e poi codificata da Aristotele nel IV (anche se il termine viene esplicitamente usato solo da Andronico di Rodi nel I secolo, quando cataloga le opere del secondo).
La domanda per noi decisiva è proprio questa: con quale azzardo, nell’epoca dei quanti, possiamo oggi osare la descrizione di una realtà “meta-fisica”, cioè collocata al di fuori, o sopra, la realtà fisica di cui siamo figli e che dà consistenza reale al nostro esistere? Quali strumenti abbiamo per indagare ciò che, eventualmente, sta “oltre”? La ragione, il pensiero, come se questi stessi non fossero il prodotto dell’attività cerebrale che si svolge sul piano assolutamente fisico della neurobiologia? Forse l’anima? Ma anche l’anima filosofica che crede di andare al di là della realtà fisica è invenzione di Platone, perché per i greci, fin dai tempi di Omero, la psychè non era molto diversa dallo spiritus latino, cioè dal respiro che pervade i viventi. Del resto noi stessi diciamo “esalare l’anima” per indicare l’ultimo respiro. E la Ruàh biblica non ha nulla a che fare con l’anima come da Platone in avanti, attraverso tutta la Scolastica fino a San Tommaso e anche oltre, è stata pensata in Occidente dalla filosofia ancilla theologiae. La Ruàh, nella Bibbia, fin dal libro della Genesi, è la potenza creatrice del respiro divino, non l’anima o lo spirito dell’uomo! Insomma, l’anima che avrebbe accesso al mondo sovrannaturale non è invenzione cristiana, ma strumento concettuale greco fatto proprio dal pensiero cristiano quando si radicò nella cultura ellenistica per farsi capire allora.
Ma oggi?! La narrazione biblica non parla mai dell’anima come del nostro “io superiore” capace di attingere il piano meta-fisico, soprannaturale. Quando mai Abramo e i Patriarchi, Mosè ed Elia, Davide e l’Ecclesiaste, parlano di quel mondo “soprannaturale”, tolto il quale, secondo Arrigoni, cadrebbe il cristianesimo?
Quante volte, fin da piccolo, mi sono sentito raccontare al catechismo che l’uomo può attingere al soprannaturale (al mondo metafisico) grazie alla Rivelazione! Il paradosso, qui, è che per parlarci del Regno di Dio (che dovrebbe costituire l’essenza del mondo soprannaturale secondo i metafisici) Gesù non usa mai immagini metafisiche, ma ricorre alle parabole concretissime della realtà quotidiana, fisica, carnale: e lo descrive come destinato a realizzarsi su questa terra, non in un mitico al di là (come cominceranno ben presto invece a raccontare i delusi dalla mancata Parousìa…).
Ma ammesso (e non concesso) che i testi biblici siano lo strumento della Rivelazione divina, perché non i Verda, il Corano, gli inni zoroastriani a Mazda? Solo per fede, mi ribatte il tradizionalista scolastico, noi sappiamo che nella Bibbia il Divino soprannaturale ci ha davvero parlato! Troppo facile, rispondo, questa autoinvestitura da parte di una religione a sfavore o contro le altre. Senza mai pareltro mai dimenticare che in realtà questa è l’autoinvestitura a detentrice della verità soprannaturale da parte di un clero (letteralmente “separato”) dal popolo che dalla fine del II secolo si è presentato come detentore anche di un potere esclusivo di gestione del rapporto fra uomo terreno e mondo sovrannaturale.
Ma archiviando il sovrannaturale si getta anche la resurrezione, insistono i fondamentalisti del cristianesimo metafisico. Sappiamo ormai molto bene che l’idea della resurrezione (presa dalla religione zoroastriana per consentire a Mazda di separare dopo la morte i giusti e gli ingiusti) compare nella Bibbia solo nel II secolo, quando il libro di Daniele vuole rassicurare i fedeli di Jahvé (che hanno visto massacrare i Maccabei difensori delle religione nazionale a costo della propria vita) che il loro Dio non dimenticherà per sempre i giusti (gli eroi della fede).
E così la narrazione di Enoc, Mosè ed Elia rapiti in cielo viene resa ancora più carnale con l’immagine della resurrezione, che entra nell’Apocalittica giudaica, per diventare patrimonio religioso anche di Gesù di Nazareth e soprattutto del fariseo Paolo di Tarso. Ma anche qui dobbiamo fare attenzione: per dire la resurrezione di Gesù i discepoli, a cominciare da Pietro, ricorrono non alla prova del sepolcro vuoto (sanno anch’essi che si presta a facile confutazione la scomparsa di un cadavere dalla tomba) ma all’immagine del Giusto che «sale alla destra del Padre» (nell’atto di investitura tipico della cultura regale del Medio Oriente semita ed ellenistico): è il loro modo di affermare che la morte non ha vinto il crocefisso.
Voglio sommessamente ricordare ad Arrigoni che se Paolo fa della resurrezione la prova della fede cristiana i padri di Nicea tre secoli dopo ci imposero piuttosto di credere “la” resurrezione, non “a causa della” resurrezione. Chi dunque insiste a fare del ritorno carnale (fisico) di Gesù il Vivente al mondo soprannaturale il nucleo irrinunciabile della fede cristiana dovrebbe accettare la legittima obbiezione della cultura contemporanea post-metafisica: dovrebbe dunque esistere un luogo, un indirizzo del cosmo, dove Gesù stazioni in attesa del Giudizio finale con il suo corpo carnale (cioè fisico).
Concludendo. Affermare che per credere in Gesù di Nazareth dobbiamo prima credere al soprannaturale, vuol dire che dobbiamo fondare la nostra fede sulla metafisica greca, anzi “credere” prima nella filosofia metafisica greca che in Gesù. Mi sembra troppo. Specialmente oggi che la metafisica, messa alle strette, mostra tutta la propria supponente debolezza e volge al declino. Parafrasando il titolo di Arrigoni (Con il post-teismo muore il cristianesimo) mi permetto di affermare esattamente il contrario: vincolando la fede cristiana alla credenza nel soprannaturale la si condanna a scomparire prima o poi con la metafisica.
Certo, nessuno vieta che si possa ancora per un po’ praticare la religione cristiana fondandola sul soprannaturale, ma c’è chi (come i teologi del post-teismo) apre lo spazio per una fede capace di riprendere – come la teologia apofatica di Eckart e san Giovanni della Croce, per citare solo i più noti) – l’umilissima pratica del “silenzio su Dio” (la teologia chiamata appunto apofatica). Personalmente ritengo che il futuro della fede sarà per forza di cose “mistico”, o non sarà: e mistico non ha nulla a che fare con l’esaltazione estatica del rapimento in regioni contigue al soprannaturale. Mùein in greco vuol dire semplicemente “tacere”, anche sul Mistero.
Il post-teismo perciò, mentre archivia l’immagine del Dio essere supremo antropomorfo, apre nuovi spazi di umile e non presuntuosa meditazione sull’indicibile, come ci ha insegnato, primo fra tutti i teologi moderni, Raimon Panikkar il quale non ha parlato di ateismo ma di “a-teismo” cristiano. La morte della “religione” metafisica non uccide il cristianesimo ma apre l’orizzonte di una “fede” cristiana svincolata dalla mitologia e dalla cosmologia del soprannaturale, che ormai hanno fatto il loro tempo.
E bene fa Adista, grazie al lavoro di Claudia Fanti, a farci conoscere questi nuovi sentieri di ricerca che ci conducono “oltre” linguaggi e paradigmi di pensiero ormai desueti, in direzione di nuove narrazioni di una fede cristiana “a-teologica” consona ai tempi non più soggetti al soprannaturale in cui siamo definitivamente entrati.
* Personificazione della facoltà di Teologia (decorazione della facciata meridionale del piedistallo della statua di Carlo IV, Imperatore del Sacro Romano Impero; Piazza Krizovnické, Praga, Repubblica Ceca) - foto [ritagliata del 2008] di Joker Island, tratta da it.wikiquote.org, immagine originale e licenza
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