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Iran: le elezioni presidenziali e il ritorno in forze dei pasdaran

Iran: le elezioni presidenziali e il ritorno in forze dei pasdaran

Gli iraniani tornano alle urne, domani 18 giugno, per eleggere il nuovo presidente della Repubblica e non è retorica dire che questo sarà un voto di eccezionale importanza. È l’anagrafe a dirlo: la guida suprema della rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei, ha infatti compiuto 82 anni e non è illogico affermare che queste elezioni apriranno la stagione che condurrà alla sua successione. L’età e le condizioni di salute lo rendono logico. Per molti è questo il motivo per cui, a differenza delle recenti competizioni presidenziali, si vedono a occhio nudo due fatti che stridono con quanto era emerso in tutte le tornate precedenti: nomi non di primo piano per le aree riformista e moderata, ruolo quasi invasivo del Consiglio dei Guardiani incaricato di ratificare i candidati accettabili alla suprema magistratura repubblicana.

Quasi azzerati i candidati riformisti

Sono due dati che colpiscono perché con il primo con ogni probabilità si rinuncia ad un’alta affluenza, alla quale il regime ha sempre tenuto come legittimazione nazionale e internazionale di se stesso, mentre con il secondo si conferma che con questo presidente è vietato sbagliare nel complesso meccanismo dei pesi e contrappesi interni che devono condurre alla scelta del successore di Khamenei. Come spiegarsi altrimenti che lo stesso consigliere di lungo corso di Khamenei, Larijani, sia stato squalificato? Lui ha inusualmente ha chiesto che venissero rese pubbliche le motivazioni del no alla sua candidatura, ma il Consiglio gli ha fatto presente che loro compito è decidere, non spiegare i motivi delle loro decisioni. Lo stesso ragionamento evidentemente è valso per gli altri 521 iraniani che si erano presentati e che non hanno potuto candidarsi: in corsa sono rimasti in 7. Ed è proprio qui, tra i sette, che spicca l’elemento che indica il dato politico decisivo, più del nome stesso del vincitore che sta per emergere: tra i sette candidati superstiti molti sono legati ai pasdaran. Dunque sono loro la forza del futuro del regime. Questo indica una scaletta politica: repressione interna del dissenso e mobilitazione miliziana all’estero, le scelte sulle quali Khamenei ha scelto di costruire il futuro, quello che dovrà dar vita - nel linguaggio prima di Khomeini e poi suo - al “governo islamico”, per purificare la rivoluzione.

I pasdaran sono il corpo paramilitare creato da Khomeini per sfiducia verso un esercito che vedeva ancora infiltrato da alti gradi favorevoli al deposto scià. Sono loro che durante la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein hanno salvato il regime, pagando un prezzo altissimo di vite ma ottenendo in cambio un potere politico ed economico indiscutibile. Poi hanno portato Ahmadinejad alla presidenza. Nel suo secondo mandato presidenziale, da tutto il mondo definito fraudolento, Ahmadinejad si distanziò da Khamenei con un populismo personalista che non piacque alla Guida suprema. Per molti studiosi la visione messianica - l’imminenza cioè di un ritorno del Mahdi che porrà termine alla storia e che va accelerata portando alla battaglia finale - li unisce. Ma i comportamenti personali da tenere in questa fase cruciale di attesa li hanno divisi. È così seguita l’epoca del “moderato” Rowhani. Questa sarebbe la stagione purificatrice, per costruire il governo islamico. Cosa vuol dire?

Una visione messianica per conquistare l’islam

La rivoluzione iraniana, per Khamenei come Khomeini prima di lui, non si è conclusa con la rimozione dello scià, né si è conclusa nei confini nazionali. È una rivoluzione che deve preparare il terreno per la creazione di un “governo islamico” e quindi per la conquista dell’Islam, premessa indispensabile al ritorno dell’Imam, il Mahdi occultatosi al mondo tanti secoli fa. Questa conquista militare e miliziana è demandata ai pasdaran, ala marciante della rivoluzione in tutto il teatro islamico. Sostenuti dal corpo di “controllo popolare” dei basij, incaricati dell’ultima repressione della protesta nel 2019 (dopo quella dell’onda verde) che è costata la vita a 1500 giovani disarmati, i pasdaran gestiscono i principali complessi industriali nazionali ed esportano la rivoluzione in Yemen, Iraq, Siria e Libano, terreno militare della conquista dell’Islam. Questa fase è decisiva simbolicamente, perché comprende le due antiche sede califfali di Damasco e Baghdad, e culturalmente, perché riporterebbe i persiani fino al Mediterraneo, vendicandosi di Alessandro Magno.

Questa sconfitta del tempo rispetto allo spazio è fondamentale. Il tempo per i pasdaran è un nemico dello spazio che va conquistato al di là della storia, che deve dissolversi nella conquista da parte del governo islamico dello Stato islamico. Questa conquista rivoluzionaria non è il portato di una sete di potere, ma di una fede rivoluzionaria, figlia di una visione escatologica: creare il governo islamico per conquistare l’Islam, creare lo stato islamico e quindi le condizioni per il ritorno messianico del Mahdi.

Ma è davvero così? O sono esagerazioni “occidentaliste” che non capiscono la situazione politica in cui si trova la leadership iraniana? C’è un uomo che incarna il disegno dei pasdaran dal capo opposto dell’arco territoriale del quale abbiamo parlato, Beirut, installato lì proprio dai pasdaran negli Ottanta per fungere da terminale militare delle loro operazioni. Quest’uomo è Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, avamposto militare sul Mediterraneo e attore cruciale in Siria, Iraq e Yemen. Già nel 1986 ha spiegato al quotidiano emiratino al-Khalee: «noi non crediamo in un Paese di 10452 kilometri quadrati qual è il Libano: il nostro progetto vede il Libano come parte di una mappa politica del mondo islamico nella quale cessino di esistere le specificità politiche, ma dove la dignità e le libertà delle minoranze siano garantite». Maggioranze e minoranze religiose, mai cittadini. E’ questo per i pasdaran il governo islamico, lo Stato Islamico.

Gli uomini forti dei pasdaran

Queste elezioni dunque sono decisive per avviare il percorso che dovrebbe portare un pasdaran alla guida della Repubblica Islamica e della Rivoluzione Islamica. Che sia scelto Ebrahim Raisi, nome forte dell’area dei pasdaran e capo del sistema giudiziario, famoso quale responsabile dell’esecuzione di migliaia di detenuti politici di sinistra nel 1988, o Saidi Jalili, negoziatore per il nucleare ai tempi di Ahmadinejad, non è decisivo guardando da fuori. Molti convengono nel dire che siano loro i nomi su cui concentrarsi tra i sette candidati. Certo l’economista riformista e il politico moderato che sono rimasti in lizza non appaiono capaci di mobilitare il voto popolare delle grandi città, quello che potrebbe capovolgere un orientamento che si spiega se si tiene conto di quanto Khatami affermò avergli detto l’ayatollah Khamanei ai tempi in cui lui era Presidente: «noi abbiamo bisogno del nemico americano». Non è un calcolo, ma la conseguenza di un credo messianico. Ecco perché Ebrahim Raisi, nome forte alla successione di Khamanei, è andato quattro volte a Najaff, città santa dello sciismo, senza mai essere ricevuto dall’ayatollah al-Sistani, la massima autorità dello sciismo che crede nella cittadinanza e nella fratellanza.

*Foto di Anmede, tratta da Flickr, immagine originale e licenza

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