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15 anni di galera al sacerdote pedofilo libanese. A quando la sospensione “a divinis”?

15 anni di galera al sacerdote pedofilo libanese. A quando la sospensione “a divinis”?

Tratto da: Adista Notizie n° 42 del 27/11/2021

40883 CAEN-ADISTA. È stato condannato a 15 anni di reclusione il sacerdote libanese 81enne Mansour Labaky per stupro e aggressione sessuale di tre minori nell’istituto "Foyer Notre-Dame-Enfant du Liban" per l'accoglienza di bambini libanesi cristiani e musulmani, da lui creato in Francia, a Douvresla- Délivrande, nel 1990. Al processo, conclusosi con la condanna annunciata pochi minuti prima della mezzanotte dell’8 novembre nel tribunale penale di Caen (nel dipartimento di Calvados, come l’istituto degli orrori), Labaky era contumace, assente «per motivi di salute» secondo la difesa, che ha invocato diverse patologie: ipertensione, flebite, recente operazione... In realtà, se avesse messo piede in Francia, sarebbe subito diventato ospite delle galere d’Oltralpe, perché nell’aprile 2016 è stato spiccato contro di lui un mandato di cattura internazionale – confermato per il futuro dalla presidente del Tribunale penale di Caen, Jeanne Chéenne – per ottenere la sua presenza al giudizio istruito a suo carico in Francia fin dal 2013. «Temo che finché il governo libanese non consegnerà Labaky, la Francia non avrà alcuna possibilità di mandarlo in prigione», ha lamentato Solange Doumic, una dei principali avvocati difensori.

Un predatore già famoso, Labaky: la Congregazione per la Dottrina della Fede, con decreto pubblicato nel 2013, lo ha riconosciuto colpevole di «due capi di imputazione, cioè i delitti contra sextum» (abusi sessuali) «verso tre minori» e «il crimen sollicitationis durante la confessione di una della vittime» e lo ha condannato con «l’interdizione di celebrare i sacramenti coram populo», di «esercitare qualsiasi forma di direzione spirituale, di partecipare a manifestazioni pubbliche o mediatiche» e di «di prendere contatto con i media o con le vittime»; e con l’obbligo di condurre «una vita di preghiera e penitenza in una comunità religiosa o in altro luogo», e con «la perdita della facoltà di confessare » (v. Adista Notizie, n. 34/2013). La Congregazione ha anche «deciso di rigettare il ricorso » presentato dall’accusato. Tuttavia non l’ha dimesso dallo stato clericale. Dopo la condanna della Congregazione, le tre minorenni hanno sporto la denuncia penale che ha avviato il processo appena conclusosi.

Fra le innumerevoli, anche la nipote

Dal 2013 Labaky soggiorna in un convento a est di Beirut, ma non ha rispettato le ingiunzioni del tribunale ecclesiastico: secondo varie testimonianze, si è concesso più volte di presentarsi in pubblico in Libano. Dove d’altronde gode di enorme prestigio (ma anche presso i circoli cattolici tradizionalisti francesi) e di coperture molto potenti. Celeste Akiki, nipote di Labaky che l’ha violentata, ha affermato in passato che suo zio ha forti legami con le autorità religiose, motivo per cui in Libano rimane intoccabile.

Una cinquantina le minorenni (fra i 7 e i 15 anni) di cui il predatore avrebbe abusato in Francia, ma più o meno altrettante ne avrebbe violate nel "Foyer Notre-Dame du Sourire”, altra creazione di Labaky in Libano. Sarà impossibile stabilire il numero preciso: Labaky ha buona fama nel suo Paese, e le diverse “presunte” vittime, anche tra quelle di atti prescritti, hanno descritto dettagliatamente i potenti meccanismi di controllo stabiliti intorno a loro da Mansour Labaky. Lo stigma, allora, ricade proprio sulle donne che denunciano e questo spiega il silenzio cui la maggior parte di loro si sottomette. Tanto che Labaky si è potuto permettere di denunciare per diffamazione sia le vittime, sia i due rappresentanti del Tribunale ecclesiastico che lo avevano condannato (uno dei quali è Luis Ladaria, allora segretario della Congregazione della Dottrina della Fede e oggi prefetto della stessa), colpevoli, a dire del predatore, di aver manipolato le vittime per poterlo accusare. Le “prove” della diffamazione portate a processo sarebbero le circa 2mila e-mail intercorse privatamente tra le autorità ecclesiastiche e le vittime in cerca di giustizia. Tale documentazione è stata letteralmente rubata con l'ausilio di esperti hacker.

E la Chiesa libanese?

Mons. Paul Abdel Sater, dal 2019 vescovo di Beirut, da cui dipende Labaky, finora non aveva mai voluto commentare la situazione. Dopo il verdetto di condanna, raggiunto da La Croix (11/11) ha infine detto di sperare «che questa condanna sia l'ultimo atto di questa lunga tragedia». «Rispetto la decisione della giustizia francese. Considero questa condanna come un momento triste nella vita della Chiesa in Libano», ha dichiarato, aggiungendo di pregare «per la pace interiore di tutte le vittime» ma anche «per padre Mansour Labaky, perché continui il suo processo di conversione come richiesto dalla Congregazione per la Dottrina della Fede». Non una parola sui crimini del “suo” sacerdote. Poco prima del processo, sempre a La Croix, il vescovo aveva voluto ribadire «la sua ferma condanna di ogni abuso di minori o di persone vulnerabili», dichiarando di non aver «né protetto né coperto» e «che non proteggerà né coprirà alcun sacerdote della sua diocesi che è o sarà condannato per un simile atto». Pur se Abdel Sater è responsabile della diocesi libanese solo da un paio d’anni, come mettere d’accordo queste parole con la libertà di movimento di Labaky all’interno del Paese mediorientale malgrado le “restrizioni” imposte dalla Congregazione della Dottrina della Fede? «Se mons. Abdel Sater crede davvero nella colpa di Mansour Labaky», chiede – ormai a giorni dalla sentenza di condanna – una delle vittime, Marilène Ghanem, libanese residente in Italia, «perché i vescovi, di cui è portavoce, non sanzionano i sacerdoti e i religiosi che lo difendono anche dopo la sentenza civile? E perché mons. Abdel Sater permette la continuazione della causa intentata da Mansour Labaky contro le sue vittime? Se Labaky è un pedo-criminale, perché l'autorità ecclesiastica maronita non proclama ai suoi fedeli la sentenza della Congregazione per la Dottrina della Fede e quella di Caen?» (La Croix, 8/11).

Ma se nulla ha fatto – finora – mons. Sater, nulla hanno fatto i vescovi che lo hanno preceduto. E il capo della Chiesa cattolica maronita, Béchara Raï, cardinale dal 2012 e patriarca dal 2011? Questi ha addirittura perorato la causa dell’innocenza di Labaky davanti a papa Francesco, portandogli nel febbraio 2016 le 2mila e-mail della «campagna diffamatoria» e dichiarando, il mese dopo (18 marzo): «C’è stata una campagna mirata contro monsignor Labaky con molte accuse false e menzognere» e di aver consegnato al papa «tutti i documenti» che «mostrano quante menzogne e falsità sono state inventate ai danni di questo uomo».

Al processo dell’8 novembre, Marilène Ghanem, testimone in videoconferenza, ha cercato instancabilmente di fare pressione sul Vaticano affinché il prelato venga dimesso dallo stato clericale: «Questo è l'unico modo per i libanesi – ha detto sospirando – di capire che è davvero colpevole». (Adista segue la vicenda dal 2013, n. 34; e poi con i nn. 19/14; 13, 17 e 23/16; 23/16 e 10/19; 6/20).

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