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Guerra alla guerra

Guerra alla guerra

Pubblichiamo questo breve saggio dello storico e storico della pedagogia, da poco eletto nuovo presidente dell'associazione cattolico-democratica "la Rosa Bianca", che riflette sul significato della Resistenza per i cattolici, e sul rapporto con guerra e violenza.

Il saggio è stato pubblicato sul sito della rete dei "Viandanti" (www.viandanti.org).

Il testo originale è consultabile a questo link

 

 

Il 25 aprile, che abbiamo appena celebrato tra divisioni e contestazioni, ci richiama ancora – ed è un richiamo serio e severo – ai valori della Resistenza.

Questo richiamo appare, dunque, importante proprio rispetto al modo diviso e divisivo che ha caratterizzato le manifestazioni, con differenze che si richiamavano non ai vecchi contrasti della guerra civile ma a nuove lacerazioni, interne allo stesso mondo di ascendenza democratica e resistenziale. Forse c’è, al fondo, una differenza tra la lettera e lo spirito: la lettera era quella di una guerra armata contro i nazifascisti, lo spirito – se non in tutti, almeno in molti partigiani – era una guerra alla guerra.

Nel contesto del ricordo vivo della Resistenza, della lettera e soprattutto dello spirito della Resistenza, si è pure tenuta, il 25 aprile, l’Assemblea della Rosa Bianca italiana: un’esperienza che, fin dal nome, si richiama ai cristiani che si opposero al nazismo, ma anche a coloro che – negli anni successivi e fino ai nostri giorni –, proprio ispirandosi ai valori resistenziali, hanno aperto vie di pace e di nonviolenza.

Anche oggi sentiamo, con una certa urgenza civile, l’attualità di quei valori e, insieme, anche la necessità di rileggerli con una consapevolezza nuova: voglio dire che la nostra coscienza cristiana è interpellata – proprio in questo momento storico – dal senso profondo dell’esperienza che fecero i cristiani nella Resistenza.

Come possiamo, in una sintesi essenziale, definire la Resistenza? L’interpretazione più compiuta è quella che Claudio Pavone ha elaborato: la Resistenza cioè come il co-implicarsi di «tre guerre» (nazionale e patriottica; civile; rivoluzionaria di classe). Tale interpretazione classica descrive efficacemente, perfettamente e completamente l’idea di Resistenza del partigianato delle formazioni di sinistra (comuniste, azioniste, socialiste), mentre, come lo stesso Pavone aveva notato, «la tripartizione non sempre corrisponde alla piena realtà dei vari gruppi combattenti». In particolare, non descrive perfettamente gli ideali dei partigiani cattolici: ideali che ci sembrano, oggi, particolarmente vivi.

I resistenti cristiani si collegavano ad un retroterra popolare e civile non certo minoritario, in cui i parroci si ponevano spesso in una ‘terzietà’ mediatrice per salvare il loro popolo, ma erano comunque, ancorché in forme diverse, dalla parte dei resistenti, legittimandone le scelte. Di tale retroterra comunitario i partigiani cattolici condividevano in gran parte ansie e speranze. Erano mossi, certo, da ideali patriottici e di libertà, ma agivano su di loro, soprattutto, due ‘forze morali’. Da una parte, essi avvertivano un imperativo etico o, meglio, si rifacevano al diritto di resistenza all’oppressore, e ciò segnava una dissimmetria etico-giuridica tra oppresso e oppressore, tale da rendere impossibile un’autorappresentazione della propria lotta come una guerra civile ‘politica’. Dall’altra, vi era in loro, molto forte, una condanna umana e cristiana della guerra (vista sempre come ‘fratricida’) e un anelito alla pace, il quale entrava pure in sintonia con il ‘pacifismo contadino’. Significativa la testimonianza di Arturo Paoli: «La nostra posizione più che ideologicamente antifascista, era contro la guerra, contro la violenza, contro il militarismo, contro quelle espressioni di forza che si manifestavano nella prassi del fascismo».

La resistenza per i cattolici non era, dunque, una triplice guerra, nel senso indicato da Pavone, ma era: una guerra patriottica e di liberazione, una ribellione etico-giuridica e, soprattutto, una guerra alla guerra. Non a caso i partigiani cattolici si sentivano «ribelli per amore» e cercavano di fuggire l’odio per il nemico. Così Laura Bianchini scriveva su «Il Ribelle» che si combatteva «senza odio e senza violenza, ma solo per un indomito e santificante amore. Perché se l’odio distrugge, l’amore edifica». E Claudio Sartori aggiungeva che una guerra si vince e la patria si ricostruisce «solo quando si giunga a dolorosamente amare il proprio nemico, a sentire nelle proprie carni la ferita inferta, a spasimare insieme d’amore per noi e per la nostra terra, per lui e per la sua terra». Nel luglio 1945 in una relazione degli assistenti centrali dell’Azione cattolica si affermava: «L’Azione cattolica dette un vigoroso contributo alla formazione di brigate, cristianamente ispirate, le quali si differenziarono da quelle garibaldine per lo spirito di moderazione, di giustizia e di rispetto verso i beni e le persone delle popolazioni civili».

Questa differenza, inserendosi nel contesto delle conflittualità interne alla Resistenza, portava dunque i resistenti cattolici, nei Cln o nelle formazioni partigiane, a dissentire dalla visione comunista e gappista sulla cruciale questione della violenza: a rifiutare, pertanto, attentati a singoli personaggi, atti terroristici, azioni di guerriglia che potessero, con buona probabilità, esporre le popolazioni inermi alle rappresaglie naziste. Rifuggivano pure dalle forme di giustizia sommaria interna alle bande (il «metodo sovietico» del colpo alla nuca).

Questa differenza di visione (strategica e tattica, ma, al fondo, etica) portava a una guerra di difesa che era difesa dalla guerra, anche se esponeva i cattolici alle accuse di attendismo da parte dei partigiani di sinistra. Uno di questi, Nuto Revelli, diceva: «Se avessi dato retta ai parroci non avremmo mai sparato». Può sembrare strano, ma la Resistenza dello stesso partigianato cattolico fu a basso tasso di azioni cruente e fu perfino, in non pochi casi, nonviolenta: è noto che il partigiano cattolico Giuseppe Dossetti non sparò mai un colpo contro qualcuno.

E nel decennale della Liberazione fu un ‘prete della Resistenza’, don Primo Mazzolari, che seppe esprimere, in modo chiaro e nitido, lo specifico (la ‘differenza cristiana’) della Resistenza dei cattolici: «La storia, come l’uomo che ne è protagonista, offre spesso due volti: così la Resistenza, il cui valore non è dato soltanto dal resistere al male, ma anche dal modo di resistervi, nient’affatto secondario nell’apprezzamento morale di essa. Se mi oppongo con la violenza alla violenza, alla forza con la forza, all’odio con l’odio: se uccido chi tenta d’uccidermi, se faccio guerra alla guerra con la guerra, pur conservandone il nome, la resistenza perde molto del suo vero ed alto significato umano. Né ci salva l’intenzione di accettare il mezzo cattivo come una necessità provvisoria, da lasciar andare appena sgombrato il campo dal nemico. La vera Resistenza – almeno per un cristiano – non ha affatto bisogno dei mezzi degli “operatori di male”, copiando e quindi valorizzando proprio ciò che si vuol cancellare».

E se, negli anni della Ricostruzione, si sarebbe avuta una «memoria grigia», cioè un qualche implicito sfavore (o riservato pudore) dei cristiani per la guerra di liberazione, non fu certo in quanto di liberazione antifascista e di riaffermazione della libertà, bensì in quanto guerra – fratricida come tutte le guerre. Il 25 aprile 1951 a Trento, De Gasperi parlò di «un grande delitto di Caino, che vogliamo obliare, vogliamo che resti nel buio delle ombre della nostra storia». Era, allora, un valore di riconciliazione e di pace che emergeva, contrario a tutte le guerre e che ritrovava proprio nella pace (e nelle solenni affermazioni dell’art. 11 della Costituzione) il risultato più alto della Resistenza: non, dunque, la liquidazione della Resistenza stessa come disvalore e pagina buia, ma anzi l’omaggio estremo ai suoi caduti: morti perché non ci fossero più morti in guerra.

25 aprile 2022

 

Presidente Associazione “Rosa Bianca”

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