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Il nostro contributo al Sinodo

Il nostro contributo al Sinodo

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 21/05/2022

Qui l'introduzione a questo testo.

Alla Segreteria generale del Sinodo dei vescovi

Alla Conferenza Episcopale Italiana

Introduzione

Noi siamo Chiesa (NSC), sezione italiana di We are Church International (WACI), offre il proprio apporto al Sinodo 2021-2023 “Per una Chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione” e al Cammino sinodale delle Chiese in Italia 2021-2025, alla luce del Documento preparatorio (DP) e, in particolare, dei suoi “Dieci nuclei tematici da approfondire”, condividendo la volontà di «vivere un processo ecclesiale partecipato e inclusivo, che offra a ciascuno – in particolare a quanti per diverse ragioni si trovano ai margini – l’opportunità di esprimersi e di essere ascoltato, per contribuire alla costruzione del Popolo di Dio» (DP 2).

Oggi la Chiesa cattolica è chiamata a misurarsi con la propria fragilità, che non riguarda solo le persone da cui è composta, ma coinvolge anche il suo impianto istituzionale. La credibilità necessaria per comunicare l’Evangelo non può essere data per scontata, ma va suscitata attraverso percorsi comunitari di corresponsabilità, dove traspaia fraternità/sororità, che lascino emergere la dignità di ciascuno/a a tutti i livelli. Questa è la condicio sine qua non per riguadagnare un clima di fiducia nel quale ciascuno possa sentirsi soggetto rispettato e libero.

Al momento nella nostra Chiesa quel «camminare insieme«, che «attua e manifesta la natura della Chiesa come Popolo di Dio pellegrino e missionario» (DP 1) e le «permette di annunciare il Vangelo» (DP 2), si realizza in modo molto scarso e difettoso perché:

• si enfatizzano in modo estremo la dimensione gerarchica e la concentrazione del potere nei ministri ordinati, generando una separazione tra il ruolo assegnato al laicato (consultivo) e quello attribuito al clero (decisionale)

• sono poche le istanze non occasionali di sinodalità e quelle che esistono (Consigli pastorali, Consigli presbiterali, ecc.) sono solo consultive, nemmeno obbligatorie e spesso poco funzionanti

• le espressioni di sinodalità più riuscite sono quelle che “forzano” questi limiti, solitamente a motivo della personalità, delle idee e della disponibilità dei ministri ordinati che esercitano l’autorità nell’ambito ecclesiale coinvolto (parrocchia, diocesi, ecc.). Questo però le rende soggette alla volontà e sensibilità del singolo parroco o vescovo e può farle venir meno in seguito alla sua sostituzione.

Tutto ciò ha nel tempo plasmato «una cultura impregnata di clericalismo» e «forme di esercizio dell’autorità su cui si innestano diversi tipi di abuso (di potere, economici, di coscienza, sessuali)» (DP 6), rispetto ai quali, in particolare, risulta sconcertante la mancata istituzione di una Commissione d’inchiesta indipendente da parte della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), indispensabile per fare verità su questi casi e individuare i mutamenti della vita ecclesiale necessari a evitarne il ripetersi. Per crescere nella sinodalità si tratta dunque, rispondendo all’invito dello Spirito, di compiere tutti i passi necessari a essere una Chiesa più comunitaria, di fratelli e sorelle uguali nel discepolato, capace di mettere al centro e assumere come metro di misura della propria vita e azione gli ultimi di ogni segno, essere Chiesa «partecipata e inclusiva» in grado di «riconoscere e apprezzare la ricchezza e varietà dei doni e dei carismi». In particolare appaiono necessari:

• l’apertura di tutti i ministeri ai soggetti oggi esclusi (donne, uomini sposati, persone lgbtqi+, ecc.), cominciando, per esempio, a ordinare donne al diaconato e viri probati al presbiterato, e riammettendo all’esercizio del ministero presbiterale i preti che hanno dovuto rinunciarvi per potersi sposare

• un diverso rapporto tra laici e clero, su un piano di sostanziale parità anche nel livello decisionale, rendendo eventuali controversie di natura teologico-pastorale oggetto di un discernimento comunitario in cui il presbitero possa mettere a disposizioone la propria competenza ed esperienza, fatto salvo il ruolo del vescovo nella tutela del depositum fidei

• la creazione di strutture stabili di sinodalità a tutti i livelli dell’organizzazione ecclesiale.

Senza dubbio «la sinodalità rappresenta la strada maestra per la Chiesa, chiamata a rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito e grazie all’ascolto della Parola. La capacità di immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano partecipare e contribuire» (DP 9). Essa costituisce anche il metodo migliore per gestire i conflitti interni, senza schiacciare le posizioni di alcuni, zittirli o escluderli dalla comunione, come avvenuto spesso in passato con provvedimenti arbitrari.

Ed è di certo altrettanto vero che «la scelta di “camminare insieme” è un segno profetico per una famiglia umana che ha bisogno di un progetto condiviso, in grado di perseguire il bene di tutti» (DP 9) e «praticare la sinodalità è oggi per la Chiesa il modo più evidente per essere “sacramento universale di salvezza”, “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”» (DP 15).

Per convertirsi alla sinodalità serve prima di tutto fede/fiducia nello Spirito che conduce la sua Chiesa sempre, poi è necessario fare credito di buona fede all’altro, anche se non la pensa come me, e abituarsi a vivere nel pluralismo di idee (DP 9).

Se è vero che «la sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa» si articola sul «piano dello stile», su quello «delle strutture e dei processi ecclesiali» e su quello dei «processi ed eventi sinodali» (DP 27), risulta necessario promuovere

• un’educazione allo stile sinodale, oggi carente nella tendenza del clero ad accentrare su di sé il potere decisionale e in quella del laicato a delegare le proprie responsabilità e vedersi solo in funzione esecutiva

• la creazione di strutture sinodali, la cui esistenza non sia lasciata alla volontà e sensibilità del clero e il cui funzionamento ne esprima la corresponsabilità e non il carattere meramente consultivo.

Giustamente il “camminare insieme” intraecclesiale deve considerare «la vita interna delle Chiese particolari, i rapporti tra i soggetti che le costituiscono (in primo luogo quelli tra i Fedeli e i loro Pastori, anche attraverso gli organismi di partecipazione previsti dalla disciplina canonica, compreso il sinodo diocesano) e le comunità in cui si articolano (in particolare le parrocchie)», poi «i rapporti dei vescovi tra di loro e con il vescovo di Roma, anche attraverso gli organismi intermedi di sinodalità (Sinodi dei Vescovi delle Chiese patriarcali e arcivescovili maggiori, Consigli dei Gerarchi e Assemblee dei Gerarchi delle Chiese sui iuris, Conferenze episcopali, con le loro espressioni nazionali, internazionali e continentali)», quindi il «modo in cui ciascuna Chiesa particolare integra al proprio interno il contributo delle diverse forme di vita monastica, religiosa e consacrata, di associazioni e movimenti laicali, di istituzioni ecclesiali ed ecclesiastiche di vario genere (scuole, ospedali, università, fondazioni, enti di carità e assistenza, ecc.)» e, infine, «le relazioni e le iniziative comuni con i fratelli e le sorelle delle altre Confessioni cristiane» (DP 28).

In questa luce appare necessario:

* definire procedure in grado di evitare che l’espressione del sensus fidei fidelium sia lasciata al capriccio o alla sensibilità del vescovo

* riformare gli organismi di partecipazione esistenti in modo che esprimano la corresponsabilità e non siano meramente consultivi o crearne di nuovi (p. es. Assemblee ecclesiali locali, nazionali, continentali e universali), in cui sia garantita la rappresentanza di tutte le componenti del popolo di Dio

* conferire alle Conferenze episcopali maggiori «attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale» (Evangelii gaudium 32) in un’ottica di “decentralizzazione” (EG 16) e creare strutture nuove (p. es. Patriarcati o Conferenze episcopali continentali). Purtroppo la recente Costituzione apostolica sulla Curia romana e il suo servizio alla Chiesa nel mondo Praedicate Evangelium non dice nulla in tal senso

* prevedere forme non occasionali e sedi istituzionali di consultazione e confronto con le altre Chiese cristiane.

Quanto al “camminare insieme” del Popolo di Dio «insieme all’intera famiglia umana» (DP 29), si tratta di superare la tendenza della Chiesa cattolica e dei cattolici ad agire nel mondo separatamente, a non mescolarsi, si tratti di altre Chiese cristiane o altri attori sociali. Esemplare di tale obsoleto atteggiamento è in Italia la scelta di promuovere ancora nell’ambito educativo pubblico luoghi o spazi confessionali, come le scuole cattoliche e l’Insegnamento della religione cattolica nella scuola statale, invece di privilegiare il pluralismo nelle istituzioni.

DIECI NUCLEI TEMATICI

I - I compagni di viaggio

Fin dalla sua nascita nel 1996 NSC si è fatta portatrice di una visione di Chiesa profondamente riformata nell'annuncio del Vangelo (riformulandone il linguaggio in modo comprensibile per il mondo del XXI secolo), nell'organizzazione ecclesiale per renderla più conforme alla sua essenza e alla sua missione (come comunione di comunità impegnate per l'edificazione di un mondo più umano), nel suo funzionamento sinodale, nella sua forma di governo (con corresponsabilità tra clero e laici/che, separazione dei poteri, ecc.), nel senso e nella strutturazione dei servizi (ministeri) di cui essa ha bisogno (desacralizzazione, accesso egualitario tra uomini e donne, ecc.): una Chiesa-comunità, inclusiva, partecipativa, samaritana, impegnata per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato alla luce della scelta per gli ultimi di ogni segno.

Quindi NSC ha camminato insieme ad altri movimenti per la riforma della Chiesa cattolica, a cominciare da quelli che più rappresentano persone e gruppi solitamente lasciati ai margini della Chiesa (divorziati risposati, preti sposati, persone lgbtqi+, ecc.), ma anche con realtà ecclesiali che maggiormente prefigurano un modo di essere Chiesa più inclusivo e partecipativo (comunità cristiane di base, ecc.), promuovendo, tra l’altro, reti come Chiesa di tutti Chiesa dei poveri e il Coordinamento ItalyChurchToo contro gli abusi nella Chiesa.

In molte occasioni inoltre NSC ha operato a fianco e all’interno di movimenti popolari e organizzazioni della società civile che si impegnano a favore della pace, della giustizia sociale e dell’integrità del creato, per esempio aderendo alla Costituente Terra e alla Rete Italiana Pace e Disarmo nonché partecipando ai Forum sociali in Italia e nel mondo, in sintonia col messaggio delle encicliche Laudato Si’ e Fratelli Tutti.

NSC auspica quindi che la Chiesa crei spazi istituzionali di dialogo e confronto coi soggetti di diversa ispirazione ideale impegnati nella costruzione di un mondo più umano, valorizzando l'esperienza degli Incontri mondiali dei movimenti popolari iniziati nel 2014 e del Segretariato per i non credenti soppresso nel 1993.

II - Ascoltare

Senza dubbio “l’ascolto è il primo passo”, ma per essere autentico implica riconoscere all’altro di avere qualcosa da dire che io già non so e di partecipare effettivamente alle decisioni frutto del dialogo. Altrimenti il semplice ascolto rischia di risultare un atteggiamento paternalistico, se non un modo per riaffermare la propria superiorità e l’altrui inferiorità o esclusione.

Da questo punto di vista sono molti, seppur in diversa misura, i soggetti verso cui l’istituzione ecclesiastica è “in debito di ascolto”: i laici, ma soprattutto le laiche, i giovani, i lavoratori, le persone lgbtqi+, le vittime di abusi, ecc.

L’ascolto di tutti/e i/le battezzati/e inoltre non può essere azione occasionale e straordinaria, ma deve divenire pratica abituale e istituzionale, mediante la creazione di sedi stabili, momenti periodici e procedure efficaci in cui esso possa realizzarsi in forma strutturale.

III - Prendere la parola

La possibilità per ogni credente di comunicare la propria esperienza di fede, la propria percezione del messaggio evangelico, il proprio vissuto ecclesiale è una ricchezza indispensabile per la comunità cristiana perché le offre un raggio di luce in più, un altro frammento di comprensione del Dio di Gesù Cristo, incontenibile in e irriducibile ad alcuna teologia e spiritualità.

Per «promuovere all’interno della comunità e dei suoi organismi uno stile comunicativo libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi» bisogna prima di tutto riconoscere effettiva libertà di parola, impensabile finché l’espressione di opinioni controcorrente o minoritarie comporta sanzioni disciplinari o censure di fatto. Ciò richiede il riconoscimento della piena legittimità al pluralismo delle idee per non incentivare il conformismo e un’educazione alla gestione non distruttiva dei conflitti.

La libertà di parola e comunicazione nella Chiesa e con la società devono potersi avvalere di media cattolici non autoreferenziali e attenti a dare spazio alla diversità di opinioni presenti nella comunità ecclesiale.

IV - Celebrare

Oggi la liturgia è spesso separata dalla vita, è “spazio sacro” in cui si compie un rito poco capace di parlare alla condizione esistenziale degli uomini e delle donne del nostro tempo. Per restituirle significatività e favorire la partecipazione attiva dei fedeli bisogna dare spazio a momenti di preghiera comunitaria diversi dalla Messa, valorizzare la ricchezza liturgica dei monasteri e far sì che la celebrazione eucaristica esprima in forma simbolica il legame tra Vangelo, fede e vita, portandovi il vissuto delle persone, il cammino della comunità, il contesto socioculturale in cui essa opera, e che dall'incontro con Cristo e coi fratelli e le sorelle derivino il desiderio, la forza e la capacità di una sequela più coerente e di una testimonianza più efficace. Nella consapevolezza che «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) ed è la comunità a celebrare, ciò implica un'organizzazione adeguata degli spazi, uno stile celebrativo più semplice, un linguaggio colloquiale e inclusivo, un approccio più conviviale e meno sacrificale, un presbitero non più concepito come sacerdote-sacrificatore, ma al servizio della comunità cristiana, un maggiore coinvolgimento dei fedeli nelle diverse parti della celebrazione (omelia compresa), prevedendo che la presidenza possa essere assunta, in caso di necessità, anche da un/a laico/a, in quanto «voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è giudeo né greco, schiavo né libero, uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

V - Corresponsabili nella missione

Anche in Italia risulta in fase avanzata - e accelerata ultimamente dalla pandemia da Covid-19 - il passaggio da una “società cristiana” a un “cristianesimo di minoranza”. Di conseguenza l’appartenenza alla Chiesa diventa sempre più frutto di una scelta personale che effetto della tradizione. Di fronte a questa situazione è urgente che la parrocchia si trasformi da agenzia di servizi religiosi (sempre meno richiesti dal contesto sociale) a vera comunità cristiana. Ciò implica spostare il baricentro della pastorale dalla catechesi per l’iniziazione cristiana di bambini e ragazzi alla creazione di spazi in cui sia possibile crescere nella fede da adulti, cioè piccole comunità, o comunità ecclesiali di base, eventualmente riunite in unità pastorali strutturate come «comunione di comunità» (EG 28), cellule vive di una Chiesa sinodale dove si praticano l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera comune, la maturazione nella fede, l'accoglienza, la condivisione, la solidarietà verso il mondo, sull'esempio delle prime comunità descritte in At 2,42-47 e 4,32-35, in cui «nessuno era bisognoso» e i cristiani «godevano il favore di tutto il popolo». Al contempo l’evoluzione nella comprensione del mondo e delle relazioni umane frutto degli sviluppi della scienza e in quella della Bibbia determinata dai risultati della ricerca storica, teologica ed esegetica esigono di presentare e proclamare la Buona notizia di Gesù in un linguaggio e secondo una formulazione adatti al contesto socioculturale del XXI secolo, pena il rischio di far apparire la fede cristiana anacronistica e irrilevante.

La Chiesa organizzata come rete di comunità permette ed esige la corresponsabilità nella missione attraverso la creazione di strutture sinodali nelle quali ogni credente possa manifestare i propri carismi, doni, competenze e disponibilità mettendoli al servizio degli altri.

Se tutti i membri della Chiesa sono chiamati a partecipare alla sua missione, è necessario che l’impegno per la pace, la giustizia e l’integrità del creato, in tutte le loro declinazioni, siano sempre più “impegno di Chiesa” e non dimensione accessoria e facoltativa dell’essere cattolici, per cui queste sensibilità devono costituire parte integrante della formazione del clero e del laicato.

Parimenti è urgente che la nostra Chiesa riconosca il superamento della guerra e la nonviolenza attiva, l’edificazione di una società fondata sulla giustizia e la salvaguardia dell’ambiente come declinazioni fondamentali della sequela di Gesù nel XXI secolo, spendendo in tale direzione il proprio capitale etico, a cominciare da quelle situazioni che coinvolgono la comunità cristiana in prima persona, per esempio rinunciando ad avere cappellani militari inquadrati nell’esercito con gradi di ufficiali, utilizzando i beni ecclesiastici a fini di accoglienza e solidarietà, curando la sostenibilità ecologica delle attività ecclesiali.

VI - Dialogare nella Chiesa e nella società

Gli spazi di dialogo nella Chiesa sono pochi, sia perché al clero viene attribuita ancora, almeno implicitamente, la funzione docente, con una conseguente comunicazione unidirezionale, sia perché lo squilibrio di poteri nei processi decisionali rende a volte l’ascolto fine a se stesso, poco incisivo, un esercizio retorico. Ciò vale per gli organismi di partecipazione, confinati in un ruolo consultivo. Divergenze e conflitti vengono affrontati a volte cercando sintesi, altre volte lasciandole esprimere, ma senza tenerne conto, a volte ignorandole, altre volte reprimendole di diritto e di fatto. Bisogna chiedersi: quando il sensus fidei si manifesta ed è vincolante? Che succede quando il sensus fidei e il magistero dei pastori confliggono (per es. nel divieto dell’uso di anticoncezionali artificiali)?

«Come la Chiesa dialoga e impara da altre istanze della società?». Solitamente la Chiesa pensa di avere in sé già tutte le risposte, quindi quasi mai, almeno esplicitamente, dialoga con altre posizioni ideali con la disponibilità a modificare le proprie, anzi in genere tende a enfatizzare, a volte perfino al di là del reale, la propria autonomia dalle istanze provenienti dalla società (v. la costante sottolineatura che “la Chiesa non è una democrazia”, in qualche modo evocata nel DP 14, quando, semmai, la Chiesa è molto più di una democrazia). Su alcune questioni etiche (per es. il problema del “fine vita”, ecc.), inoltre, la chiusura all’ascolto e al dialogo appare quasi totale. Questo atteggiamento affiora anche in una parte del volontariato cattolico, che tende a pensarsi come “sostitutivo” o “alternativo” rispetto al sistema pubblico, invece che come stimolo per una sua più dinamica e universale presenza. Esemplare è dunque, in tal senso, l’urgenza che le autorità della Chiesa collaborino con quelle civili per fare giustizia e garantire riparazione alle vittime di abusi sessuali compiuti da ecclesiatici.

Nel suo rapporto con la società, infatti, la Chiesa dovrebbe essere esmpio di trasparenza (per es. nell’uso delle risorse economiche e nella pubblicità dei propri bilanci) e mai porre al centro la difesa di interessi “corporativi” (ottenimento di finanziamenti statali o regimi fiscali privilegiati, salvaguardia di spazi confessionali nell’ambito pubblico, ecc.), come quelli garantiti dal sistema concordatario, ingiustificato in Paesi in cui vigono assetti politici democratici e oggi sostituibile con una legge sulla libertà religiosa che assicuri a tutte le fedi gli stessi diritti. Ma soprattutto la Chiesa dovrebbe assumere come criterio fondamentale della propria visione della realtà sociale e della propria azione dentro di essa l’opzione per i poveri e gli ultimi di ogni segno (oggi in Italia, per esempio, i migranti) per edificare una società secondo la logica per cui «la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo» (Sal 117,22; At 4,11). Ciò implica comunque il suo mantenersi libera e autonoma rispetto ai poteri terreni, così da porsi come piccolo gregge che è sale e lievito nel mondo, che non pretende di governare la società, riconoscendo la laicità dello Stato, ma cerca di animarne la speranza.

VII - Con le altre confessioni cristiane

In Italia i rapporti con le altre confessioni cristiane sono in genere non conflittuali e a volte cordiali, ma gli esempi di collaborazione sono relativamente pochi. “Fare insieme tutto quanto non dobbiamo fare separatamente” è slogan lontano dalla realtà. Ciò è legato, tra l’altro, allo storico carattere dell’Italia come Paese a (quasi) “monocultura religiosa cattolica” e alla persistente disparità di dimensioni e radicamento tra la Chiesa cattolica, ancora oggi largamente maggioritaria, e le altre Chiese cristiane, in passato presenze piccolissime e ancora oggi assai minoritarie. Questo ha prodotto nella Chiesa cattolica un senso quasi “naturale” di autosufficienza e la difficoltà ad accettare rapporti paritari con le altre confessioni cristiane. Tuttavia decenni di cammino ecumenico rendono necessari e possibili passi più decisi sia nello scambio di esperienze (per es. quelle di funzionamento sinodale di altre Chiese cristiane, cui attingere utilmente) sia nel comune servizio al mondo, sull’esempio dei Corridoi umanitari per i profughi realizzati insieme da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Tavola Valdese e Cei-Caritas, sia nella reciproca accoglienza, compresa l’ospitalità eucaristica, sia nella costituzione di sedi di confronto su temi teologici, etici e di testimonianza comune (per es. organismi interconfessionali, recezione dei dialoghi ecumenici, ecc.), anche con la costituzione di un Consiglio nazionale delle Chiese cristiane. Parallelamente sarebbe opportuno creare anche in Italia almeno un Forum delle religioni per favorire la conoscenza e il dialogo tra le comunità di fede presenti nel Paese.

VIII - Autorità e partecipazione

Una Chiesa sinodale dovrebbe avere a ogni livello (parrocchiale, diocesano, nazionale, ecc.) organi sinodali responsabili del discernimento e delle decisioni necessarie per la vita della Chiesa. La debolezza degli organismi di sinodalità attualmente esistenti deriva dalla loro inadeguata organizzazione (procedure, poteri, ecc.), che è già possibile rendere migliore, e della sfasatura tra le loro conclusioni e le decisioni assunte dal clero in modo del tutto autonomo. A questo insoddisfacente funzionamento contribuisce una certa passività del laicato, che deve formarsi a un modo più consapevole di essere presente nella comunità ecclesiale.

Per evitare il clericalismo, che è insito nell’attuale organizzazione della Chiesa, le responsabilità e i ministeri necessari al funzionamento delle comunità cristiane a ogni livello dovrebbero essere assegnati sulla base dell’uguaglianza tra uomini e donne ed esercitati nel quadro di strutture sinodali per permettere a ogni credente di partecipare attivamente alla vita ecclesiale senza esclusione.

Le persone nel ministero, uomini e donne, dovrebbero avere i carismi necessari e ricevere una formazione adeguata per esercitarli, essere chiamati dalla comunità in cui presteranno servizio (per un determinato periodo, a tempo pieno o parziale) ed essere confermati in tale ufficio dalla Chiesa per essere segni di comunione universale e assicurare i necessari legami col resto della comunità ecclesiale.

Così, per esempio, la persona che presiede la celebrazione dell’eucaristia (presbitero/a) sarà accolta dalla comunità in cui presterà questo servizio (e in prospettiva proposta per elezione da essa e confermata dal vescovo) su indicazione dell’autorità diocesana, mentre la persona responsabile della comunione della comunità diocesana (vescovo/a) sarà indicata dall’episcopato locale di concerto con le strutture associative laicali (e in prospettiva proposta per elezione dalla comunità diocesana) e confermata dalla Chiesa nazionale e da tutta la Chiesa universale attraverso un apposito organismo sinodale.

In particolare l’esercizio dell’autorità nella Chiesa esigerebbe una distinzione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, un ripensamento dei ministeri ecclesiali come servizi al popolo di Dio e la loro apertura a tutti e tutte. Nello specifico la figura di chi presiede la comunità cristiana va desacralizzata e liberata dall'idea di "rappresentare Dio e Cristo sulla terra” a favore di quella di "servire la Parola evangelica e la vita comunitaria", per animare, in corresponsabilità coi laici, la testimonianza evangelica, la preghiera, la meditazione comunitaria sulla Parola, la celebrazione dei sacramenti e specialmente la condivisione eucaristica, il servizio della comunione all'interno della comunità e di questa comunità con altre comunità, l’evangelizzazione e la formazione cristiana, la vita materiale della comunità.

IX - Discernere e decidere

Nel passaggio dalla visione tradizionale della Chiesa come società gerarchicamente strutturata a quella comunitaria, fondata sull'appartenenza in forza del comune battesimo, la ministerialità dei suoi membri e la valorizzazione dei loro carismi, è essenziale che tutti i battezzati e le battezzate partecipino all'elaborazione e all’assunzione delle decisioni che li riguardano, secondo l'antico principio per cui “ciò che riguarda tutti (e tutte), da tutti (e tutte) deve essere trattato e approvato”. Questo processo include il discernimento, che implica l'ascolto e il dibattito, da realizzare mediante organi sinodali, strutturati secondo le specificità e le necessità di ogni livello ecclesiale nonché composti da membri della Chiesa (compresi i ministri) eletti per un determinato periodo di tempo in rappresentanza delle diverse componenti del popolo di Dio.

Chi ricopre un ministero ordinato, in quanto garante e custode dell’apostolicità della fede e dell’unità del corpo ecclesiale, manterrebbe un ruolo specifico nel dirimere le controversie quando appare in gioco il depositum fidei. Dovrebbero comunque essere previste istanze di appello cui ricorrere contro ogni decisione.

X - Formarsi alla sinodalità

Per formare alla sinodalità bisogna superare la “teologia dell’elezione” per i preti, formandoli al lavoro d’équipe, all’idea del ministero come servizio e dell’autorità come responsabilità verso la comunità cristiana, all’essere (preti e vescovi) dentro e non sopra il popolo “infallibile in credendo”.

Evitare la deriva “castale” del clero implica ripensare radicalmente il Seminario come luogo chiuso e monosessuato.

Parallelamente è essenziale che i laici e le laiche vengano aiutati a crescere nella considerazione della propria dignità battesimale, riconoscendo pienamente e concretamente la loro corresponsabilità nella vita e nella missione ecclesiale, così da fare della Chiesa una comunità fondata su relazioni di partecipazione, solidarietà, dialogo e condivisione strutturate in organismi sinodali e ministeri. Ciò esige la formazione di un laicato adulto e maturo, capace di integrare fede e vita e dotato di una robusta coscienza ecclesiale. 

*Foto presa da Unsplash di Gabriella Clare Marino, immagine originale e licenza

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