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Alla segreteria generale del Sinodo dei vescovi, alla Conferenza episcopale italiana

Alla segreteria generale del Sinodo dei vescovi, alla Conferenza episcopale italiana

Tratto da: Adista Documenti n° 6 del 18/02/2023

Qui l'introduzione a questo testo. 

Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nei loro cuori (Gaudium et Spes).

Carissimi fratelli vescovi, accogliendo il vostro invito a percorrere insieme il cammino sinodale, arricchendolo del contributo di tutti e tutte, ci siamo ritrovati a confrontare le nostre esperienze di vita e i nostri cammini di fede tra più realtà della Chiesa italiana. Da questo incontro, che è diventato esso stesso un pezzo di cammino sinodale, è nata una rete di gruppi, che ha dato un primo contributo attraverso le due lettere che vi abbiamo inviato per il Sinodo italiano nel maggio e nell’ottobre del 2021.

Vogliamo qui portare un nuovo contributo sulla realtà che vivono nella Chiesa e nella società le persone LGBT. Contributo che non nasce a tavolino. Ci siamo lasciati interrogare e coinvolgere, nel percorso che abbiamo fatto insieme, dalle testimonianze dei gruppi di persone LGBT e dei loro genitori, presenti nella nostra rete. Un lungo cammino, il loro, che abbiamo ripercorso insieme e riletto come cammino sinodale. Iniziato senza convocazioni dall’alto, autoconvocato… o forse convocato dallo Spirito. Un’esperienza che ci ha arricchito tutti e tutte e che vogliamo condividere con voi attraverso queste pagine.

Mediante incontri online in plenaria o in piccoli gruppi, che hanno visto la partecipazione da tutta Italia di più di 200 persone, provenienti da diverse realtà cattoliche, donne e uomini, persone LGBT e loro genitori, operatori e operatrici pastorali che li accompagnano, alcuni parroci, teologhe e teologi, abbiamo percorso insieme un tratto di cammino sinodale. Tutto ciò che questo documento racconta scaturisce dall’elaborazione del materiale raccolto in questi momenti di incontro. In alcuni casi abbiamo voluto riportare (tra virgolette) i pensieri emersi, per far arrivare la voce delle persone che hanno condiviso con noi questa esperienza.

Siamo partiti da tre dei nuclei tematici proposti nel documento preparatorio del Sinodo universale del 7 settembre 2021: Compagni di viaggio – Ascoltare – Formarsi alla sinodalità, per aprire un confronto tra di noi, ponendoci queste domande:

• Compagni di viaggio: La Chiesa riesce a essere una casa per le persone LGBT? Tante di esse affermano di sentirsi lasciate ai margini. Che cosa è di ostacolo? Cosa impedisce o frena la loro richiesta di inclusione?

• Ascoltare: Spesso manca nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle associazioni, un ascolto che parta anche dalla vita delle persone LGBT. Riusciamo ad identificare pregiudizi e stereotipi che ostacolano questo ascolto profondo?

• Formarsi alla sinodalità: Quali modalità e strumenti possono aiutare ed accompagnare i vissuti delle persone LGBT affinché possano essere integrati nel cammino sinodale della Chiesa?

Abbiamo inteso così rispondere all’invito a «vivere un processo ecclesiale partecipato e inclusivo, che offra a ciascuno – in particolare a quanti per diverse ragioni si trovano ai margini – l’opportunità di esprimersi e di essere ascoltati per contribuire alla costruzione del Popolo di Dio», lasciandoci incalzare dalla domanda: «Che spazio ha la voce delle minoranze, degli scartati e degli esclusi? Riusciamo a identificare pregiudizi e stereotipi che ostacolano il nostro ascolto?» (dal documento preparatorio del Sinodo universale).

Racconteremo l’emarginazione che vivono nella Chiesa e nella società le persone LGBT, come l’omosessualità e la transessualità si intrecciano o si scontrano con i loro cammini di fede e la loro ricerca di Dio. E lo faremo attraverso le loro testimonianze. Solo lasciando che questo vissuto ci entri dentro, ci attraversi e ci interroghi nel profondo, potremo capire quale strada percorrere perché tutti e tutte possano davvero vivere la Chiesa come casa.

Nascondersi

Nascondersi. Cominciamo da qui, da questa esperienza che le persone LGBT conoscono bene, perché riguarda almeno una parte della loro vita, o, quando va male, tutta la loro esistenza. Nasce dal disprezzo che percepiscono negli altri e che finiscono per interiorizzare e sentire per se stessi. Nascondersi anche da sé, lottando per mettere a tacere quella voce che ti urla dentro e ti dice qualcosa di te. Chi sei. Di chi ti è successo di innamorarti. È come combattere contro un mostro – così qualcuno lo ha descritto. Con un problema in più, non da poco: quel mostro non ti è estraneo, è dentro di te, quel mostro sei tu.

E cominceremo allora col dare voce agli invisibili, a chi non ce la fa a fare coming out nella propria famiglia e nel proprio ambiente, a chi è arrivato a qualcuno di noi spesso in incognito, magari nascondendosi dietro un indirizzo di email illeggibile, da cui non possa trasparire nessuna traccia che faccia risalire a un nome. È anche così che si manifesta la vergogna di esistere.

Da qui vogliamo che inizi il nostro viaggio, da quelle sorelle e quei fratelli il cui grido di dolore rimane soffocato in gola.

«Ho vissuto gran parte della mia vita nell’odio, nel rancore: parte di quel pezzo di umanità emarginata, tra quegli esseri umani a cui non è dato di essere se stessi, costretti a passare la vita nascondendosi. Una vita spesa a fare i conti con una sessualità, vissuta come un peso gigantesco, smisurato, soffocante».

«L’educazione chiusa e intollerante di una famiglia vecchio stampo; il contatto con un ambiente provinciale; una religione pronta più a condannare che ad accogliere, hanno costituito l’humus nel quale sono cresciuto e che mi ha fatto percepire il disprezzo della condizione di omosessuale, prima ancora della consapevolezza (pure molto precoce) di doverla scontare in prima persona. Ho capito assai presto quanto sia doloroso dover stringere una mano, sapendo di non poterla trattenere».

«Il timore di essere travolto da tensioni che sentivo come incontrollabili e la disistima verso di me mi hanno indotto, poco alla volta, a sterilizzare i miei sentimenti, anestetizzando forse le sensazioni più vere. È stato un percorso lungo e perverso che mi ha reso – quasi al termine del percorso esistenziale – assolutamente incapace di amare, questa, almeno, è la mia sensazione di oggi. “Sforzarsi di non provare niente, per non provare qualcosa” - come ammonisce il padre nel film di Guadagnino».

«La città è divenuta per tanti di noi omosessuali opprimente coi suoi lager invisibili del pregiudizio e del perbenismo, dove ci ritroviamo a ridere di battute su di noi per non scoprirci. Cacciati fuori dalle sue mura, spinti nostro malgrado a un incessante cammino spesso privo di speranza, possiamo esibire solo le tracce di una identità incolpevolmente dolorante; la solitudine e la segregazione diventano spesso la condanna inappellabile per una colpa mai commessa».

«L'ideale alto e nobile di un amore totalmente oblativo e fecondo solo nello spirito è, sì, un traguardo che la Chiesa ha il diritto di proporre. Ma mortificare in nome di quell'ideale, spesso irraggiungibile alla nostra povera umanità per mille fatti contingenti, il bene concretamente e soggettivamente perseguibile (un amore, un affetto) ricacciandoci nel nostro deserto, rischia di avere effetti disumanizzanti. E tutto, per una condizione non scelta. Come diceva uno scrittore: il peccato originale, la colpa senza responsabilità, il male irredento e innocente di essere venuti al mondo condannati a morte; magari fosse una vecchia intimidazione di secoli bui. È il buio che ci portiamo dentro tutti».

Essere trans

Se nascondersi è devastante, è anche un lusso che non tutti possono permettersi. Le persone omosessuali possono scegliere di farlo, le persone trans no. Per loro, dal momento in cui inizia un qualunque approccio a un processo di transizione, di manifestazione della propria identità, il coming out è continuo e forzato, con problemi quotidiani. In quale bagno entrare? Capita che aspettino fuori per assicurarsi che non ci sia nessuno dentro, prima di entrare. Per evitare ed evitarsi imbarazzi... In quale fila mettersi per andare a votare? In quella che indica come corretta il loro documento o in quella che il loro aspetto fisico suggerirebbe? E se scelgono la prima opzione, come dovrebbero e qualcuno gli fa notare che si sono messi in coda dalla parte sbagliata? Il risultato è che spesso scelgono di non votare – se di scelta si può parlare – e questo per anni, perché i processi di transizione che portano al cambio di documento sono lunghi, oltre che dolorosi e costosi. È il periodo di transizione quello in cui sono più esposti a violenze di ogni tipo, verbali, quando va bene, altrimenti fisiche. Ma per ferirli bastano anche solo gli sguardi.

Piccoli, grandi drammi di vita quotidiana, che, oltre alle persone trans, ben conoscono le loro famiglie. Lo sanno bene Maria Rosaria, Alessandro e i loro tre figli, una famiglia che vive in un paese del Sud Italia. Dopo il primo maschietto, un secondo parto e sono arrivate due gemelle. Crescono ma, con il passar del tempo, le gemelle vivono difficoltà sempre più grandi, disagi, fino ad arrivare a tentativi di suicidio. Ora hanno 26 anni, sono Lorenzo e Dada, due persone trans, “sopravvissute al proprio corpo” – come ha detto una volta Lorenzo.

Un corpo che le persone trans vivono come una gabbia, che intrappola il loro essere più profondo, che gli impedisce di esprimere la propria anima. Una gabbia di cui liberarsi. Costi quel che costi. Difficile capire per chi non vive quell’esperienza e difficile spiegare. Abbiamo solo cercato di balbettare qualcosa, ripetendo le loro parole: gabbia, anima…

E Dada parla della fede in un Dio, che non ha incontrato in nessuna Chiesa (con la parrocchia, che frequentava assiduamente, ha chiuso a 14 anni). Se l’è inventato o per quali vie misteriose l’ha trovato? Racconta di una preghiera che si fa danza. Il movimento di un corpo che ha ritrovato armonia, che si è liberato dalla “cacca” che gli avevano gettato addosso: un corpo bello, che ha rotto le catene e può finalmente esprimersi e che Dada sente accolto e guardato dal suo Dio con occhi di meraviglia.

Le donne e le persone LGBT

C’è un’assonanza tra il vissuto delle persone LGBT e quello delle donne: discriminati e discriminate nella Chiesa e nella società per la loro natura. Se tutte le discriminazioni sono da biasimare – ci sono nella Chiesa persone e comunità che sono state e seguitano a essere emarginate per le loro idee e le loro scelte – le discriminazioni più inaccettabili, ammesso che sia lecita una classifica, sono quelle che colpiscono le persone per la loro identità, per ciò che sono, non per le loro scelte. È così per le donne e le persone LGBT. Emarginati ed emarginate dalla nascita. Perché donne. Perché persone LGBT, omosessuali e trans non si diventa, non si sceglie di esserlo – chi mai farebbe una scelta che porta con sé così tante difficoltà, così tanto dolore! Omosessuali, trans si è, salvo che possono passare anni per dirselo, o magari può non bastare un’intera vita.

Così ne hanno parlato nei nostri incontri alcune donne: «Anche le donne, come le persone LGBT, hanno vissuto l’esperienza di dover recuperare se stesse, per riprendersi le proprie vite, troppo spesso sacrificate su qualche altare. L’esperienza di dover rimettere al centro l’amore per se stesse, per ridare senso alla propria esistenza e poterla vivere in pienezza».

«I problemi che da secoli ci sono nella Chiesa con le donne e con tutte le “differenze” sono il prodotto di una cultura patriarcale, di una lettura stereotipata delle Scritture, che ha irrigidito l’Istituzione e raffreddato i cuori».

«Può aiutare verso un percorso di liberazione che si affianchino i cammini delle realtà emarginate, donne, persone LGBT, e che ci si avvicini alla teologia femminista: sono proprio le realtà emarginate ad essere il motore del Sinodo».

«Occorre ripartire dalla base, dalle reali necessità delle persone per scardinare il modello patriarcale sia nella Chiesa che nella società».

L’esperienza dei genitori

Se le persone LGBT spesso sanno fin dall’infanzia quello che sono, la notizia il più delle volte arriva completamente inaspettata ai genitori: uno tsunami che si abbatte improvviso su di loro al momento del coming out, trovandoli impreparati. In preda all’angoscia e schiacciati dalla vergogna, spesso si rinchiudono nella disperazione e nella solitudine.

Una coppia di genitori ci racconta: «Seguendo l’invito che papa Francesco rivolgeva a tutta la Chiesa a uscire per andare nelle periferie, ci stavamo interrogando verso quale periferia il Signore ci volesse mandare, quando improvvisamente e inaspettatamente la periferia ce la siamo ritrovata in casa, negli occhi rigati di lacrime di nostra figlia che ci confidava di essere lesbica.

Lo shock è stato devastante, abbiamo dovuto sostenere una dura lotta fra quanto creduto, testimoniato, attuato per tanti anni e una realtà che conoscevamo poco ma verso la quale ci erano state instillate repulsione e condanna. Dura lotta fra due grandi amori che apparivano inconciliabili: quello verso nostra figlia e quello verso il Signore. Come poteva nostra figlia essere al di fuori di quel bellissimo progetto di amore che avevamo sperimentato nella nostra vita di sposi, come poteva non esserci spazio per lei nell’amore di Dio se non rinunciando a vivere una relazione d’amore così come fioriva in lei?

C’è voluta una seconda lunga gestazione di nostra figlia per arrivare ad accoglierla in pienezza nella sua realtà. Guardandola ora e vedendo la sua relazione serena, ordinata, felice, sentiamo duri come paletti i punti della dottrina posti dal magistero della Chiesa sui rapporti omosessuali, definiti come disordinati; la distanza fra la realtà che amiamo e la sua definizione dottrinale ci provoca un profondo disagio».

Quelli tra i genitori che ce la fanno, spesso con l’aiuto di altri genitori che vivono la loro stessa esperienza, riescono a vincere la solitudine e rialzarsi. E tutto cambia.

“È compito di noi genitori testimoniare la benedizione che riceviamo dai nostri figli LGBT, per far capire il valore salvifico delle differenze”.

“Per tanti anni siamo stati impegnati nella pastorale dei fidanzati; dopo il coming out di nostro figlio abbiamo iniziato un percorso di accompagnamento di coppie omoaffettive, per aiutarle nel loro cammino di costruzione della propria relazione d’amore”.

Molte mamme, dopo una rielaborazione che può durare anche anni, rivivono come un secondo parto il giorno del coming out dei figli: ancora una volta la vita, facendosi strada con forza, rinasce dal dolore. E di rinascita si tratta. Per i loro figli e per loro.

«Se c’è un inferno degli omosessuali, è lì che voglio andare»: è capitato di sentire mamme pronunciare queste parole. Forse perché in fondo in quell’inferno non ci credono. O forse perché con un Dio che condannasse i loro figli per le loro relazioni d’amore non vogliono avere nulla a che fare neanche loro. «Non sono interessato a un Dio che non faccia anche fiorire l’umano», diceva Bonhoeffer. Certo è che per chi è pronto per amore ad andare all’inferno, non ci sono impedimenti che tengano. E se il cammino da personale diventa condiviso con altri/e, quel cammino è inarrestabile. Situazioni e contesti completamente diversi, ma rivengono in mente le madri di Plaza de Mayo. Alle une hanno toccato la vita dei figli, alle altre la vita eterna.

Se i genitori, dopo che un figlio o una figlia trova il coraggio di svelarsi, per amore sono pronti a tutto, se tra lo sconforto e il pianto trovano spazio per lo studio, facendosi domande che non si erano mai posti prima, se arrivano a mettere in crisi le loro certezze, a buttar via pregiudizi, perché non chiedere altrettanto alla Chiesa, se la Chiesa è Madre?

Il brano del Vangelo di Matteo, in cui Gesù cammina sulle acque e invita Pietro ad andargli incontro, racconta qualcosa del cammino dei genitori di ragazzi e ragazze LGBT. Investiti da una tempesta imprevista e improvvisa, vorrebbero arroccarsi sulla barca delle loro sicurezze, ma non gli è dato e da quella barca sono scaraventati fuori. Sperimentano l’angoscia, annaspano, sentono il terreno mancare sotto i piedi. E iniziano così il loro cammino, là dove mai avrebbero pensato di dover e poter camminare, per sorprendersi a scoprire che, tenendosi per mano, è possibile non affondare.

L’invito di Gesù, indubbiamente scomodo, ci riguarda tutti e tutte, è rivolto a Pietro e alla Chiesa tutta. Rimane lì, forte quanto inascoltato, a chiederci di lasciare la barca delle nostre sicurezze e andargli incontro sul mare. Perché è lì, nel mare, che il Signore ci aspetta.

Qual è il bagaglio di sicurezze da cui non riusciamo a staccarci e che tiene la Chiesa ancorata alla barca? Alleggerire quel bagaglio è la condizione per fare insieme un cammino davvero sinodale con tutto il Popolo di Dio, che non lasci fuori nessuno/a.

La benedizione negata

Quella benedizione negata per le coppie LGBT dalla Congregazione per la Dottrina della Fede con il Responsum del febbraio 2021 seguita a far male.

«Il Sinodo deve aprirsi alla benedizione delle persone LGBT e di quelle che vivono situazioni difficili nelle periferie esistenziali, con attenzione non giudicante, riconoscendo il valore intrinseco di ogni persona e del suo modo di essere, di amare, riscoprendo la bellezza di Dio che la abita, perché ogni amore è bello e santo, e ci racconta qualcosa dell’amore di Dio».

Ci sono genitori che, dopo la posizione espressa dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, hanno voluto scrivere insieme una preghiera, con cui dare la loro benedizione ai figli LGBT nel giorno della loro unione civile.

Insieme a quei vescovi che si sono espressi in disaccordo rispetto al Responsum, c’è una gran parte del Popolo di Dio, laiche e laici, presbiteri, religiose e religiosi, che non scrive Responsa, ma che cammina insieme e che crede sia tempo che le coppie che vogliano celebrare il proprio amore e assumere l'impegno reciproco a una relazione stabile davanti alla propria comunità cristiana possano da essa ricevere una benedizione della loro unione. Se Gesù ci invita a benedire persino coloro che maledicono (Lc 6,28), con quale potere possiamo negare la benedizione a chi si ama?

La pastorale

Guardando a ciò che è successo negli ultimi anni, va preso atto che nella pastorale si è fatto un passo avanti, c’è una crescita e una maggiore presenza dei gruppi LGBT nelle parrocchie rispetto al passato. Non che prima le persone LGBT non ci fossero, c’erano ma nascondevano la propria identità, e magari erano anche incoraggiate a nasconderla. La maggior parte viveva nell’isolamento, ma alcuni via via hanno iniziato a unirsi in gruppi, in piccole comunità, che restavano però nell’ombra, come i primi cristiani nelle catacombe.

Queste esperienze hanno aiutato le persone a crescere, attraverso la socializzazione della propria comune condizione; a sanare la scissione dolorosa che vivevano tra la fede e la propria vita affettiva, la propria identità di genere, grazie anche allo studio dei testi biblici; a costruire relazioni serene di coppia. Esperienze comunitarie significative dal punto di vista spirituale ed ecclesiale, che però non trovavano ascolto, non avevano visibilità e diritto di asilo nella Chiesa.

Il merito più grande per i progressi che vediamo oggi va a quel fiume carsico, a chi nella clandestinità ha combattuto la sua resistenza, tenendo accesa la luce della speranza. Ora sempre più persone LGBT, soprattutto tra i giovani, escono allo scoperto, fanno coming out, fanno testimonianza del loro vissuto, arricchiscono la comunità con il loro cammino di fede. E sempre di più stanno venendo fuori gruppi di genitori, a testimoniare il loro cambiamento di vita, per il quale qualcuno scomoda la parola conversione, dopo il coming out dei loro figli.

Un grande fermento che c’è già dentro la Chiesa e che va alimentato da una comunità LGBT che si faccia sempre di più Popolo di Dio e gridi al dialogo, perché non si parli più delle persone LGBT ma con le persone LGBT, perché si vada verso una piena inclusione di individui, coppie, famiglie, che non è integrazione, assimilazione, né omologazione, ma riconoscimento dell’altro come membro a pieno titolo della comunità.

«Nel percorso verso l’inclusione della minoranza LGBT nella Chiesa dovrebbero essere coinvolti, oltre ai singoli individui e alle coppie omosessuali, anche i rappresentanti dei gruppi di cristiani LGBT, la cui partecipazione attiva dovrebbe essere favorita nell’ambito delle iniziative diocesane ai vari livelli. Come collettori di storie e di esperienze, porterebbero la voce di tante persone dimenticate, di tanti che per timidezza o riservatezza preferiscono non apparire».

«La pastorale con le persone LGBT la portiamo avanti da nni, viene fatta dal Popolo di Dio che è più avanti dell’Istituzione, con operatori e operatrici pastorali che superano di fatto i vincoli dottrinali. In questi percorsi emerge, dai gruppi LGBT, un mondo gioioso e aperto alla ricchezza delle differenze».

«Se modalità pastorali particolari dedicate alle persone LGBT a volte rischiano di essere ghettizzanti, è anche vero però che nelle realtà più grandi c’è bisogno almeno inizialmente di gruppi dedicati. Ma una pastorale “particolare” è utile solo se inserita nella pastorale “generale”. E c’è bisogno di una pastorale sul tema LGBT nei confronti dei credenti per superare ignoranza e pregiudizio».

Questo cambiamento nella pastorale, avvenuto soprattutto negli ultimi tempi con Papa Francesco, ha in parte, ma solo in parte, arginato l’abbandono della Chiesa da parte delle persone LGBT che, sentendosi rifiutate, finiscono spesso per buttare via l’intero pacchetto: Dio - Chiesa. Se come Chiesa abbiamo ben motivo di interrogarci su questo abbandono, Dio sicuramente non lo merita!

«Quando nostro figlio a 16 anni ha parlato al parroco della sua omosessualità ha avuto in risposta l’allontanamento e la negazione della comunione. Questo ha portato prima lui e poi anche noi genitori ad allontanarci. Tra Chiesa e figlio, abbiamo scelto nostro figlio».

«Nell’adolescenza si è aperto per me un periodo di difficoltà, mi sentivo solo, sbagliato, incapace di vedere un disegno di amore per me: ho rifiutato Dio e non mi sono più sentito parte della Chiesa, che mi rifiutava per la mia sessualità».

«Mio figlio e il suo compagno si sono allontanati dalla Chiesa dopo la posizione della gerarchia sul Ddl Zan; a volte vanno in Chiesa solo per accendere una candela, ma si sentono rifiutati». Alcuni si allontanano dalla Chiesa cattolica e proseguono il loro cammino di fede in Chiese evangeliche, dove si respira un’aria di accoglienza e inclusione.

Alcuni gruppi portano avanti un cammino comune tra persone LGBT cattoliche ed evangeliche, a volte praticando l’ospitalità eucaristica: un ecumenismo di base, che potrebbe essere un riferimento per tutte le Chiese.

C’è poi chi nella Chiesa cattolica resta, si sente a pieno titolo parte della Chiesa, nonostante i muri che alza la dottrina. «L’esperienza che più ha rischiato di allontanarmi dalla Chiesa è stato il rifiuto da parte del vescovo e del rettore di ammettermi in seminario, dopo aver dichiarato loro il mio orientamento sessuale. Ora sono sereno, ma anche a distanza di anni ricordo l’incapacità da parte del vescovo di nominare le parole “gay / omosessuale / omosessualità”: si riferiva sempre a “quella tematica / problematica / questione difficile, ancora poco studiata e compresa a Roma”. Gli anni del discernimento sono serviti per capire che, andandomene, non avrei reso un buon servizio alla causa del Vangelo, alla gente, alla Chiesa».

Ma l’esclusione nella Chiesa non riguarda solo le persone LGBT, sono messi ai margini, per motivi diversi, i separati, i divorziati, le donne, in generale tutti coloro che sono “fuori dal coro”. Sentiamo nostre tutte queste marginalità.

Tra gli ostacoli che alimentano la diffidenza nei confronti delle persone LGBT c’è il tema della famiglia tradizionale. Perché le persone LGBT dovrebbero essere contro la famiglia – come in buona o in cattiva fede qualcuno afferma – e volere la sua distruzione? Sono famiglie tradizionali quelle in cui in stragrande maggioranza le persone LGBT nascono e crescono. Quello che desiderano, semmai, è poter essere accolte dalle loro famiglie, cosa che non sempre avviene. A volte giovanissimi vengono cacciati da casa. Non vogliono distruggere la famiglia tradizionale, ma vorrebbero poter affiancare a quella una loro famiglia, per forza di cose diversa; vorrebbero che il loro vissuto di famiglia venisse accettato. Ma perché mai questo dovrebbe togliere qualcosa alla famiglia tradizionale? Nel momento storico che stiamo vivendo le famiglie ne hanno tanti di problemi, ma tra questi non ci sono le persone LGBT. Sono altri i problemi da affrontare e su questi sarebbe bene concentrarsi. Cercare capri espiatori porta fuori strada, allontana la soluzione dei problemi, oltre che far male a chi come capro espiatorio è assunto.

La conoscenza delle persone e delle loro storie di amore, di sofferenza, di gioia, di famiglia è ciò che fa la differenza: la diffidenza e la difficoltà sono superate nell’incontro.

«Mi sono reso conto di essere omofobo finché non ho incontrato davvero le persone LGBT. Confessando ho cominciato a venire in contatto con i vissuti di persone LGBT e dei loro genitori. Questa esperienza mi ha cambiato e mi sono chiesto cosa potessi fare per loro».

Se si parla per categorie, di omosessuali, trans… i pregiudizi e gli stereotipi hanno la meglio e portano fuori strada, ma se si chiamano le persone per nome, se ai nomi si associano volti, vissuti, le cose cambiano. Radicalmente. Il pregiudizio viene meno solo facendo esperienza della vita delle persone, mettendo in gioco i vissuti. Perché la conoscenza delle persone cambia il nostro sguardo su di loro e i nostri pensieri.

La dottrina

Senza dubbio la pastorale ha cambiato le cose, ma va detto chiaramente che non basta. C’è bisogno di cambiare la dottrina, che sicuramente fa parte di quel bagaglio di sicurezze, che inchioda la Chiesa e le impedisce di muoversi.

È grande la sofferenza che provocano nelle persone LGBT e nei loro genitori le parole del catechismo: «Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati».

«C’è un profondo scollamento tra la gerarchia e la Chiesa – Popolo di Dio. La Chiesa gerarchica ci fa sentire ai margini, come persone LGBT, ci fa sentire scomposti, i nostri amori sono disordinati, la nostra sessualità, i nostri corpi sono sbagliati».

«La dottrina è un peso enorme sulle nostre spalle, un macigno che ci schiaccia. E l’accoglienza non è gratuita: siamo sì accettati, ma solo se rinunciamo ad esprimere la nostra sessualità».

Una corretta lettura storico-critica dei testi biblici, ci permette di capire e di trovare una spiegazione per quei versetti in cui vengono condannati gli atti omosessuali, calando quei testi nel contesto storico in cui sono stati scritti. Condanna di “atti omosessuali”, appunto, non dell’omosessualità, perché nulla si sapeva dell’omosessualità come la conosciamo oggi, grazie anche ai progressi della scienza. Non considerare queste nuove conoscenze, seguitando a parlare nel catechismo di atti omosessuali intrinsecamente disordinati, non trova giustificazioni, fa violenza sulle persone, le incolpa per ciò che sono, le umilia e tradisce il messaggio di amore e misericordia di Gesù. Non ci sono gli “atti”, ci sono le persone con la loro dignità, i loro amori e la loro sessualità, dono di Dio.

Per sottolineare solo una delle tante storture a cui si arriva, c’è chi racconta che spesso i preti in confessionale tollerano le relazioni occasionali e condannano le relazioni stabili tra persone LGBT. Inutile soffermarsi sui danni enormi che ne conseguono.

«L’accoglienza di una vita affettiva, concreta, in coppia, fa ancora difficoltà: finché ci si presenta come gay, magari in difficoltà o in processo di crescita, preti, suore e laici impegnati accolgono; accoglienza che invece fa difficoltà quando si inizia un cammino di coppia, che va a confliggere col magistero e con una tradizione secolare».

«In confessione un prete mi ha detto di restare solo amico del compagno con cui mi sono unito civilmente: ho avuto compassione per lui e per la sua impreparazione ad affrontare questi temi».

Ciò su cui dobbiamo interrogarci è il perché dell’insistenza ossessiva della Chiesa sul tema della sessualità, non solo dell’omosessualità. Con il risultato che la maggior parte delle persone associa istintivamente alla parola peccato l’idea di peccato sessuale. E talmente ampia e dettagliata è la casistica dei peccati sessuali che è davvero difficile non cadere in qualcuno dei divieti. Così, oltre a far diventare la sessualità motivo continuo di angoscia e senso di inadeguatezza, si finisce per sminuire il senso stesso della parola peccato. Per chi decide di buttare via il pacchetto completo di peccati sessuali, ignorandoli – tanto è impossibile non sbagliare… – il peccato finisce per non avere più nessun senso. E invece il peccato c’è, eccome se c’è, ci riguarda individualmente e come società, e va denunciato con forza: il peccato da cui liberarci è la prevaricazione, la prepotenza, la violenza, comunque mascherate.

A prescindere se si tratti di una coppia eterosessuale o omosessuale, il peccato è dove c’è violenza e sopraffazione; il peccato sono i femminicidi, che la cronaca ci racconta quotidianamente. Dove c’è amore, dove c’è cura reciproca, rispetto dell’uno per l’altro/a non possiamo far altro che vedere l’espressione di quella scintilla del divino che abita ognuna e ognuno di noi. Oscurare anche solo una di quelle scintille significa oscurare la luce divina che esprime, unica, irripetibile. Se non riusciamo a vederla il problema è nei nostri occhi: dobbiamo curali.

Se l’accoglienza che offriamo nella Chiesa è un’accoglienza che chiede alle persone LGBT di mutilare una parte di sé, che impedisce loro la possibilità di esprimere la propria sessualità, non è un’accoglienza vera. Le persone LGBT sono cresciute in consapevolezza, non si accontentano più di essere tollerate, non vogliono l’elemosina. Chiedono un pieno riconoscimento, chiedono che il marchio della vergogna e del peccato impresso su di loro, sulla loro sessualità, sui loro rapporti d’amore venga cancellato.

«Le comunità locali devono impegnarsi non a chiedere ma a pretendere l’inclusione di ogni realtà e di ogni periferia, per non tradire la fede stessa, per non peccare contro l’amore e la fratellanza / sororità, perché molte sono le sensibilità e le dignità calpestate».

E c’è chi va oltre e non chiede, perché non riconosce a nessuno nella Chiesa il potere di concedere o negare.

«Dobbiamo liberarci dalla dottrina, fare le cose giuste, seguendo il Vangelo, senza chiedere permesso. I cambiamenti avvengono partendo dalla base. Se le chiese si svuotano è perché non si suona la musica del Vangelo»: a dirlo è il papà di una ragazza lesbica.

«Prendiamoci la libertà di parlare, con coraggio, di acquisire nuovi linguaggi, nuovi gesti, capaci di esprimere una fede vissuta, senza chiedere il permesso: una grande parte dei credenti è già pronta».

Quale cambiamento

Su questi temi c’è un grande bisogno di approfondimento nella Chiesa, di dialogo, di formazione degli operatori pastorali. L’ostacolo è culturale, di mentalità. «Molti preti omofobi non sono mostri, sono straordinari: a mancare è la formazione» – sono le parole di una ragazza lesbica. Formazione come elemento centrale di inclusione, e non solo destinata agli operatori pastorali, più in generale, è necessaria una formazione che porti all’assunzione di responsabilità da parte di tutti i cristiani. L’ignoranza non è una giustificazione, e se non si cerca di sanarla diventa un’ignoranza colpevole.

Esperienze di formazione, con il coinvolgimento di parroci, suore, preti, operatori pastorali e alcuni vescovi, si stanno facendo strada, anche a livello nazionale. Si deve guardare a queste esperienze e farle crescere con il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di operatori e operatrici pastorali.

Certo, il cambiamento è faticoso, e di cambiamento le persone LGBT e i loro genitori se ne intendono. La loro esperienza testimonia però che quella fatica vale la pena farla. Hanno sofferto umiliazioni e sconfitte ma, quando ci sono riusciti, hanno ritrovato la gioia, la speranza, e riscoperto Dio. Un Dio diverso. Di quel Dio che gli era stato raccontato e dal cui giudizio si sentivano oppressi si sono liberati. Non sa parlare ai loro cuori e non gli fa più paura. Attraverso il cammino insieme e lo studio della Bibbia hanno incontrato il Dio di Gesù, un Dio che libera, che si capisce con gli esclusi e i perdenti, perché sa parlare la loro lingua, che si fa complice dei piccoli, che conta sulle pietre scartate perché diventino testate d’angolo, su cui costruire la casa, o quello che Gesù chiamava il Regno di Dio.

E il cambiamento richiede coraggio. C’è la paura da parte della gerarchia di perdere credibilità e potere riconoscendo che la Chiesa ha sbagliato in ciò che ha detto per secoli sull’omosessualità e sulla sessualità. E si tratterebbe davvero di una perdita di potere, perché non c’è potere più grande di quello che si esercita attraverso il controllo sulle coscienze, utilizzando la sessualità come strumento. Se anche la Chiesa si spogliasse di tutti i suoi beni materiali, se rinunciasse a tutti i privilegi, ma seguitasse a tenere in mano la leva del controllo delle coscienze, avrebbe titolo per sedere tra i potenti della terra, che per questo si guarderebbero bene dall’inimicarsela.

Ma quando Gesù dice: «Il mio regno non è di questo mondo» sceglie una regalità anomala. Non è il re dei potenti, non è il re dei troni che si avvalgono del sostegno degli altari. È il re degli emarginati e degli sconfitti. Un re che non cerca sudditi da tenere in pugno con la paura, ma discepoli liberi, che liberamente seguano il suo messaggio di amore.

È questo il vero salto dalla barca, mettere a rischio un potere consolidato nei secoli per ritrovarsi senza più appigli, garanzie, certezze... Ma la fede non è una polizza di assicurazione, è un rischio, è un salto.

Libera da ogni potere, la Chiesa sarebbe testimone coraggiosa del Vangelo, forte nello Spirito, indomabile da ogni potestà terrena. È da questa strada che passa la conversione.

La nostra speranza

«Anche se il timore avrà sempre più argomenti tu scegli la speranza», diceva Seneca. Noi abbiamo scelto la speranza.

La speranza che il Sinodo possa essere vissuto come un dono da farci reciprocamente tutti e tutte nella Chiesa, per camminare e rinascere insieme.

La speranza che la Chiesa chieda perdono alle persone LGBT per i carichi inauditi di sofferenza che ha posto sulle loro spalle, guardandole negli occhi e provando a sostenere il loro sguardo. Ora, sperando che il tempo non sia già scaduto.

La speranza che la Chiesa tutta, riscoprendo la sua missione, possa “portare ai poveri il lieto annuncio, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la liberazione dei prigionieri, liberare gli oppressi, proclamare l’anno di grazia del Signore” (Isaia 61,1-2).

22 febbraio 2022 (seguono le adesioni). 

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