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Gestione degli abusi clericali: il dito e la Luna

Gestione degli abusi clericali: il dito e la Luna

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 04/03/2023

Qui l'introduzione a questo testo. 

Distinguere le parole dai fatti. Bisogna procedere così, quando si cerca il bandolo della gestione degli abusi in questi dieci anni: perché papa Francesco ha parlato molto, ha fatto alcune cose, ma ha ottenuto ben poco. Fattori esterni o difficoltà a imprimere una spinta più forte? Entrambe le cose. Gli innegabili piccoli passi spesso si sono rivelati inefficaci. Francesco non è riuscito, in questi dieci anni in cui le Chiese del mondo hanno vomitato il loro tributo di crimini pedofili, a spogliarsi di un habitus clericale che, nonostante le numerose affermazioni contrarie, continua ad appesantirlo, e che gli impedisce, quando potrebbe, di fare la cosa giusta al momento giusto.

Senza azioni potenti, cioè capaci di incidere realmente su quella parte di cultura, detentrice del potere nella Chiesa, che poggia su clericalismo, misoginia e sessuofobia, qualsiasi azione mirante a risolvere il problema degli abusi nella Chiesa risulta inefficace e palliativa. Senza la pretesa di esaurire l'argomento, partiamo dall'inizio. O meglio, da prima dell'inizio.

La preistoria: il papa quando era vescovo

Nelle prime settimane di pontificato di Francesco, un gruppo di attivisti cattolici statunitensi, Bishop Accountability, giudicò lenta l’azione di Bergoglio vescovo nel guidare la Chiesa argentina ad agire efficacemente contro gli abusi del clero, sollecitandolo a chiedere perdono per la protezione ecclesiale nei confronti di due preti condannati per pedofilia, p. Julio Cesar Grassi e p. Napoleon Sasso. Secondo l'avvocato delle vittime (AP, 19/3/13) Bergoglio non rimosse i sacerdoti e non incontrò le vittime, sovvenzionando, anzi, con le finanze della Chiesa un rapporto in difesa di Grassi, che ringraziò Bergoglio per «non averlo mai abbandonato». Quanto a Sasso, dopo le accuse riuscì a restare nascosto per un anno in strutture ecclesiastiche all’interno della diocesi in cui si erano verificati gli abusi. Un contesto che risale appena a 5 anni prima dell’elezione a pontefice di Francesco, quando altri vescovi in altri Paesi incontravano le vittime e applicavano normative di tolleranza zero.

Bergoglio, dunque, quando diventa papa ha già sulle spalle questa faticosa eredità, condivisa con tanti vescovi, che contiene tanti elementi in gioco nella gestione degli abusi nella Chiesa: accessibilità dei dossier relativi ai preti coinvolti; obbligatorietà della denuncia alle autorità; credibilità e ascolto alle vittime; coperture delle gerarchie, eliminazione della decadenza dei termini per i processi canonici.

Parole, parole, parole...

In diverse occasioni il papa si è espresso sugli abusi, in un’altalena tra denuncia della gravità del fatto in sé e tutela della Chiesa: «Non bisogna chiudere un occhio – aveva affermato nel 2012 nel libro Sobre el Cielo y la Tierra –. Non si può essere in una posizione di potere e distruggere la vita di un’altra persona». In un’intervista al Corriere della Sera (5/3/2014), disse che gli abusi sessuali lasciano «ferite profondissime», mettendosi però subito sulla difensiva: «le statistiche (…) mostrano anche con chiarezza che la grande maggioranza degli abusi avviene in ambiente familiare e di vicinato». «La Chiesa cattolica – è ancora papa Francesco a parlare – è forse l’unica istituzione pubblica ad essersi mossa con trasparenza e responsabilità. Nessun altro ha fatto di più. Eppure la Chiesa è la sola ad essere attaccata». Un atteggiamento di chiusura che il Vaticano mostrò anche a livello istituzionale quando fu bocciato dall'ONU sull’applicazione della Convenzione per i diritti del fanciullo sottoscritta nel 1990. L’apposito Comitato Onu di vigilanza aveva emesso un rapporto (5/2/2014; v. Adista Notizie nn. 28/13 e 3/14), in cui condannava il comportamento della sede apostolica riguardo agli abusi perpetrati da preti su bambini, dettando una serie di misure per superare l’esame in futuro. Dura la risposta del Vaticano, che aveva accusato il Comitato Onu di un atteggiamento «pregiudiziale» nei confronti della Chiesa cattolica.

Francesco prosegue però con dichiarazioni forti: «Mi sento chiamato a farmi carico» e «a chiedere perdono» per il male che alcuni sacerdoti «hanno compiuto, per gli abusi sessuali sui bambini» (11/4/2014). «La Chiesa è cosciente di questo danno! È un danno personale e morale loro... ma di uomini di Chiesa! E noi non vogliamo compiere un passo indietro in ciò che riguarda il trattamento di questo problema e le sanzioni che devono essere comminate. Al contrario credo che dobbiamo essere molto forti! Con i bambini non si gioca!». E via così, fino al 2022: nel suo nuovo libro Vi chiedo in nome di Dio (Piemme) papa Francesco torna a dire: «Non possiamo giustificarci affermando che il flagello degli abusi sessuali sui minori è un fenomeno storicamente diffuso». «Migliaia di vite» sono state rovinate da coloro che avrebbero dovuto proteggerle. «Qualunque cosa facciamo per cercare di riparare il danno che abbiamo commesso, non sarà mai abbastanza», riconosce. «Un solo e unico caso è di per sé una realtà mostruosa», «una ferita inferta a Dio».

Una Commissione tormentata

Oltre alle parole, non si può dire che all’inizio Francesco non abbia dato qualche segnale positivo: la prima decisione concreta del C9 dei cardinali – il team che ha affiancato il papa nello studio delle riforme – è stata l’istituzione di una Commissione per la protezione dei minori e la prevenzione degli abusi, presieduta dal card. Sean O'Malley. Che ha avuto in questi 10 anni una storia tormentatissima (v. Adista Notizie n. 39/22): solo quest’anno vedrà la luce il primo rapporto annuale e solo lo scorso anno è stato siglato un accordo con CEI, per promuovere un impegno comune di scambio regolare sulle iniziative di tutela e di salvaguardia dei minori e delle persone vulnerabili. Inserita nel 2022 nella sezione disciplinare del Dicastero per la Dottrina della Fede, la Commissione non è stata particolarmente fattiva in questi 10 anni, segnati da conflitti e lentezze, soprattutto per i travagliati rapporti con il Dicastero (già Congregazione) per la Dottrina della Fede, che ha opposto resistenza, ad esempio alla proposta approvata dal papa – ma mai realizzata – di creare un tribunale separato per i vescovi insabbiatori. Diversi membri hanno dato forfait (Claudio Papale, canonista presso la Pontificia Università Urbaniana, si dimise per ragioni personali, v. Adista Notizie n. 33/16), in particolare le vittime: il britannico Peter Saunders, fondatore dell'associazione di vittime di pedofilia Napac e l'irlandese Marie Collins, delusi per gli ostacoli e i boicottaggi della Curia; nel 2018 la neuropsichiatra francese Catherine Bonnet, specializzata in violenze sessuali su minori (v. Adista Notizie n. 8/18), che aveva invano insistito sulla necessità di ascoltare le vittime. Nel marzo 2021 ha raggiunto il gruppo il giornalista cileno Juan Carlos Cruz, ufficialmente l'unico sopravvissuto ad abusi a ora presente in Commissione. Troppo poco: anche alla luce del processo sinodale in atto, manca un “pezzo” importante: quello delle esperienze e delle testimonianze delle vittime/sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero.

Il segreto nonostante tutto

Anche i provvedimenti di Francesco per eliminare il segreto pontificio sulle cause – ribadito nel 2001 dall'allora card. Ratzinger in De delictis gravioribus – hanno sortito scarso effetto. Francesco, all'indomani dell'inedito summit in Vaticano sulla pedofilia (febbraio 2019), emanò un rescritto con cui promulgava l’Istruzione «Sulla riservatezza delle cause» (17 dicembre 2019), che eliminava il segreto pontificio dalle cause sugli abusi, individuato come uno degli ostacoli alla corretta gestione degli abusi. Sulla carta, la vittima ora dovrebbe conoscere la sentenza seguita alla sua denuncia, e dovrebbe essere facilitata una collaborazione più concreta con lo Stato, dal momento che la diocesi in possesso di una documentazione ormai “libera”, può decidere di trasmettere copia anche alle autorità civili. Stessa cosa per tutto il materiale conservato negli archivi dei Dicasteri vaticani e delle diocesi relativi ai casi di abuso – denunce, testimonianze, carte processuali – finora sottoposti al segreto pontificio.

In realtà, i decreti sui casi di abuso non vengono tuttora resi pubblici e vige ancora la massima riservatezza. E resta, comunque, in vigore il segreto d’ufficio per garantire «la sicurezza, l’integrità e la riservatezza» delle varie fasi del processo e «tutelare la buona fama, l’immagine e la sfera privata di tutte le persone coinvolte». Senza dire che di fatto, il dialogo tra istituzione religiosa e autorità civili è cosa rara.

Contro le connivenze ecclesiastiche: Come una madre amorevole e Vos estis lux mundi

Uno degli obiettivi di papa Francesco è stato quello di cercare di stroncare le complicità dei vescovi con i preti abusatori. Il motu proprio Come una madre amorevole (4 giugno 2016) sancisce la rimozione forzata dei vescovi negligenti nell'intraprendere misure atte a bloccare la reiterazione di abusi dei loro preti e a punire il colpevole.

Stesso risultato (per lo più) fallimentare è quello ottenuto da un altro documento, il motu proprio Vos estis lux mundi (9 maggio 2019), con cui Francesco affronta ancora il tema dell'insabbiamento degli abusi. Approvato ad experimentum per 3 anni (scaduti il 1 giugno 2022), propagandato come un punto di svolta nella lotta agli abusi, Vos estis si è mostrato inefficace e ampiamente disatteso. A tre anni di distanza, il Vaticano non ha rivelato nulla sui vescovi indagati, accusati o puniti in base alle sue procedure: continua a vigere l’omertà. Anne Barrett Doyle, co-direttrice di BishopAccountability.org, archivio online dei casi di abusi negli Stati Uniti, ne ha evidenziato le criticità (National Catholic Reporter, 25/5/22) facendo un resoconto: in tre anni, 28 i casi in cui Vos estis è stato utilizzato per procedere con accuse di insabbiamento o abuso da parte dei vescovi, a fronte di 5.600 vescovi nel mondo e con poca o nessuna informazione al riguardo; la maggior parte dei casi era un atto dovuto, essendo la capacità del vescovo già compromessa da accuse pubbliche. Ma «la complicità collettiva della gerarchia cattolica, che va dalla negligenza all'ignoranza volontaria fino all'inganno scaltro, ha facilitato gli stupri e le aggressioni sessuali di centinaia di migliaia, se non milioni, di bambini», affermava Barrett Doyle.

Perché Vos estis è inefficace? Perché «è una autoregolamentazione travestita da trasparenza»: il papa ha solo cercato di isolare e contenere, lasciando ancora alla gerarchia il controllo totale del processo di segnalazione e investigazione, e ha scelto di non richiedere l'unica cosa che potrebbe fare la differenza: l'obbligo di denuncia alle autorità civili. Nella maggior parte delle giurisdizioni civili (come in Italia, dove vige il Concordato), il clero non è obbligato a denunciare e Vos estis al massimo richiede la segnalazione solo quando lo richiede il diritto civile.

Insomma, il Vaticano è sempre più al centro, nonostante un papa che denuncia il clericalismo: di fatto, solo il Vaticano può autorizzare un'indagine, emettere un verdetto, determinare sanzioni ed esercitare clemenza.

Altro punto: Vos estis di fatto vieta la possibilità che i laici possano esaminare le accuse contro i prelati. Ma un controllo esterno è fondamentale: i laici potrebbero essere quella voce critica e di denuncia alle autorità civili. Invece il documento si basa ancora sul segreto, non prevedendo alcun obbligo di informare i fedeli, passaggio fondamentale per scoraggiare crimini e insabbiamenti. E anche chi denuncia dovrebbe avere accesso ai fascicoli relativi al suo caso.

In sostanza, con Vos estis Francesco ha cercato di ristabilire la fiducia a condizioni impossibili, chiudendo gli occhi davanti al fatto che la gerarchia cattolica non può autodisciplinarsi.

Clemenza o favoritisimi?

Il percorso accidentato di papa Francesco verso una soluzione della questione abusi è dovuto anche ad alcuni atti di “clemenza” verso preti già condannati o vescovi che li proteggevano e a una fiducia mal riposta nei vescovi di contro alla parola delle vittime, come nel caso del vescovo cileno mons. Juan Barros, vescovo di Osorno, accusato di complicità con il prete Fernando Karadima (condannato da giustizia civile e CDF per abusi sui minori). Il papa è stato ostinatamente convinto della sua innocenza, malgrado la testimonianza delle vittime di Karadima, nominandolo vescovo malgrado la contrarietà di laici e preti della sua diocesi e di altre, e di 51 parlamentari. Fra gli altri casi più noti, si ricorda qui quello di don Mauro Inzoli: ribaltando la sentenza della CDF, nel 2014 il papa ne ha infatti annullato la dimissione dallo stato clericale, per poi comminarla nuovamente nel 2017, ma solo dopo la condanna penale del prete lombardo per pedofilia. C'è poi il caso di mons. Gustavo Zanchetta, nominato nel 2013 da Francesco vescovo della città argentina di Orán, condannato nel 2022 a 4 anni e sei mesi di reclusione per violenze sessuali, per abusi di potere e cattiva gestione finanziaria (il giudizio non è definitivo, si deve celebrare ancora l’appello e il processo canonico è in corso). In quel contesto, il pontefice, malgrado fosse informato sugli sviluppi, ha sempre creduto alla sua innocenza. E così, dopo le dimissioni, lo accoglie a Roma, a Santa Marta, e si inventa per lui l’incarico di “assessore” dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa). Anche dopo la condanna, il dubbio resiste nell’animo del papa, tanto da armare un’indagine preliminare canonica nella diocesi di Orán sui sacerdoti, diaconi e seminaristi che hanno testimoniato contro l'ex vescovo (v. Adista Notizie, n. 25/22). Zanchetta sta scontando la pena ai domiciliari, ed è tuttora vescovo.

Ed è di questi giorni la vicenda paradossale del teologo gesuita Marko Ivan Rupnik, noto artista sloveno, scomunicato dalla CDF nel 2020 per assoluzione del complice (ma istantaneamente reintegrato, non si sa da chi: o dalla CDF stessa o da papa Francesco), poi denunciato nel 2021 per abusi psicologici e sessuali da diverse suore. Abusi risultati prescritti per i quali è stato comunque condannato a misure restrittive (peraltro del tutto disattese) nell'ottobre 2022. Il 21/2 scorso un comunicato dei gesuiti (v. Adista Notizie n. 8/23 allegato) dà conto di un'ulteriore indagine condotta in seguito alla testimonianza di altre 15 testimoni e vittime di abusi che coprono un periodo che va dagli anni '90 al 2018 e sancisce ulteriori restrizioni, come il divieto di dipingere in luoghi pubblici, riservandosi di aprire un nuovo processo canonico. Rupnik, personaggio osannato nella Chiesa universale, amico del papa, ha continuato a presenziare a convegni e incontri pubblici, ed era persino in programma la sua predicazione a un ritiro, nonostante il divieto. Qual è il ruolo di Francesco in tutto questo? È un ruolo non limpido: potrebbe essere stato lui a ritirare la scomunica (anche se ha negato recisamente, in un'intervista ad AP del 25/1), ma anche se fosse stata la CDF (è nota l'amicizia di Rupnik con l’ex segretario del dicastero, mons. Giacomo Morandi), non è plausibile che Francesco non ne fosse al corrente. Oltretutto è lo stesso Francesco a dire di essere intervenuto per far sì che anche il secondo procedimento si svolgesse nella CDF, perché fosse in continuità con il primo. Non solo: perché non ha rinunciato alla prescrizione agli abusi denunciati, come suole fare in determinati gravi casi? Forse perché qui le vittime non sono bambini o persone vulnerabili (Francesco la toglie «sempre», ha detto, per i casi che coinvolgono questi soggetti) ma donne adulte, su cui è duro a morire il pregiudizio di un rapporto consenziente, trascurando l'aspetto dell'abuso di potere.

Il fallimento sul fronte del clericalismo

 «Dire no agli abusi è dire no, in modo categorico, a qualsiasi forma di clericalismo», ha scritto Francesco nella sua Lettera al popolo di Dio (2018): è consapevole che qualsiasi lotta agli abusi deve passare attraverso la riforma dell'autorità e del potere del clero. Lo ha denunciato in linea di principio, ma poco ha fatto per sradicarlo. Quel clericalismo ancorato al ministero maschile, sessualmente repressivo, che è una cosa sola con il sistema di potere ecclesiastico autoritario, avverso a un ruolo alla pari con le donne nella Chiesa, Francesco, per certi versi, lo ha, al contrario, rafforzato. Eppure, quello del «potere» del prete è il vero nodo del problema, soprattutto per quanto riguarda il crimine degli abusi. Un potere che viene da uno status qualitativamente distinto da quello dei fedeli e sancito dal celibato, che fa del prete un essere separato; un potere sacralizzato dalla funzione di mediatore del divino, la cui credibilità è difficile anche solo mettere in dubbio. Un potere così inteso si trova su un piano inclinato verso l'abuso. Francesco sembra esserne consapevole, ma agendo sul sintomo e non sulla causa ha perso l'occasione di rendere efficace la sua lotta agli abusi, perché ha guardato il dito e non la luna.

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